Paternità
dei testi dei madrigali di Carlo Gesualdo
La ricerca
della paternità dei testi di alcuni madrigali di Carlo Gesualdo presenta
notevoli difficoltà, molto spesso insuperabili. Invero, soltanto pochi testi
appartengono a poeti noti; la gran maggioranza dei 125 madrigali è frutto invece
di scelte impulsive, disordinate, tipiche dell’anima gesualdiana, per cui è
molto difficile accertare se, per rivestire l’idea musicale del momento, egli
abbia attinto a testi di verseggiatori o rimatori che non godevano di alcuna
fama, o se i testi li abbia scritti lui, di proprio pugno.
Questo breve
saggio, lungi dall’avere la pretesa di giungere a soluzioni complete e definitive,
ha soltanto la finalità di stimolare tale ricerca in omaggio al musicista ed
anche al cantautore, in quanto Gesualdo lo fu in non pochi casi, riuscendo
talvolta a creare, anche se di rado, accettabili composizioni in versi. Tale aspetto
della creatività del Principe ha una grande importanza, certamente superiore a
quella che finora gli è stata attribuita dai musicologi, i quali hanno rivolto
la loro attenzione a Gesualdo quasi dimenticando – va pur detto – che di fronte
ad un genere musicale complesso come il madrigale non si sarebbe dovuto trascurare
del tutto il testo e diffondersi precipuamente e ampiamente sull’altra parte di
cui quel genere musicale è composto, la musica. Va considerato, infatti, al fine
di sottolineare l’importanza in genere del testo, che l’evoluzione dell’arte
musicale è tale che i madrigali, e in genere la musica antica, sono divenuti indubbiamente
di difficile ascolto per i più, mentre i versi, abbastanza facili alla lettura
e spesso piacevoli, sono rimasti, pur a distanza di secoli, intatti, in una loro
immutabile “classicità”. Ne deriva che vanno riposte anche in essi le
prospettive e le speranze di una maggiore divulgazione di un’arte stupenda che
purtroppo rivela la sua bellezza solo a un ristretto numero di cultori e di
appassionati, apparendo invece ostica al gran pubblico di potenziali
ascoltatori, proprio a causa della difficile comprensione del testo cantato,
com’è frantumato e spesso ripetuto nel passaggio da uno ad altro tema della
composizione.
Va senza
dire che gli spartiti dei madrigali sono dotati di una valenza artistica di
gran lunga maggiore, e che in definitiva Gesualdo resta un musicista, un grande
musicista, non un paroliere. Tuttavia, a sostegno dell’interesse che può
suscitare la ricerca della paternità del testo anonimo di un madrigale, se è
innegabile che solitamente è il testo, nel procedere della creazione artistica,
a porsi come un antecedente, che viene poi rivestito della sonorità e della
musicalità che gli si addice (si pensi alla composizione di un’opera lirica), e
se è altrettanto vero che pochi, come Carlo Gesualdo, hanno saputo piegare
l’effetto emotivo del tema musicale alle esigenze del testo, specie con la personalizzazione
delle voci, si dovrebbe giungere a diverse conclusioni allorché si appurasse
che è stato lo stesso Gesualdo a scrivere il testo? O si dovrebbe ritenere che
in tale ipotesi l’idea musicale, gioiosa o mesta o dolorosa, è sorta per prima
nella mente dell’artista, e poi egli ha creato i versi che meglio esprimevano
il sentimento contenuto nella melodia? Sarebbe quanto meno superficiale
ritenere che nulla cambi. Più prudente è pensare che la ricerca che ci si è
proposti potrebbe rendere più penetrante ed approfondita l’interpretazione
dell’arte gesualdiana. Dopo tale premessa ne va fatta un’altra brevissima circa
la possibilità di attingere a precedenti studi o commenti, al fine di evitare
di formulare ipotesi errate su madrigali di cui sia stata già
accertata la paternità. Il testo che reca un notevole aiuto è, a parere dello
scrivente, il Commento all’intera opera dei madrigali di Francesco Degrada,
data l’analitica attenzione che questo musicologo ha dedicato al testo e alle
correlazioni che sono state da lui spesso ravvisate tra musica e verso.
Appare a
questo punto opportuno fissare dei criteri, sempre con lo scopo che siano di
ulteriore stimolo alla ricerca qui intrapresa. Se ne possono individuare, a
parere dello scrivente, tre principali ed uno secondario. che però non
danno tutti lo stesso grado di certezza o di probabilità nell’attribuzione
della loro paternità al Principe.
A
Gesualdo possono essere attribuiti con certezza:
1) i madrigali manipolati o
addirittura stravolti, il che è già sintomatico di una tendenza creativa anche
dei testi;
2) i madrigali
indiscutibilmente autobiografici;
A Gesualdo possono essere attribuiti con quasi certezza:
3) i madrigali che rivelano
un drammatico, quasi malato senso dell'eros;
Passando
ora ad una più particolareggiata analisi, nei sensi suaccennati,
possono essere attribuiti a Gesualdo con certezza:
a) i madrigali, come si è accennato, rimaneggiati, o dei
quali sia stato addirittura stravolto il contenuto, utilizzando quelli di altri
poeti o rimatori. Vengono sotto tale profilo in evidenza:
1) (Libro I° n. 11):
"Mentre, mia stella, miri
i bei celesti giri,
il ciel esser vorrei
perché tu rivolgessi
fiso ne gli occhi miei
le tue dolci faville,
io vagheggiar potessi
mille bellezze tue con luci mille.".
Questo
madrigale ha una storia del tutto particolare. Torquato Tasso, parafrasando una
poesia di Platone:
“O mio Astro tu guardi le stelle.
Ah, se potessi
trasformarmi in cielo,
per guardarti con mille pupille”,
lo
compose dedicandolo a Tarquinia Molza, nobildonna mantovana di notevole cultura
letteraria e musicale, che aveva fatto anche parte del famoso Concerto delle
Dame in Ferrara, dalla cui Corte era stata allontanata nel 1589 a causa di una
tempestosa relazione amorosa con il musicista Jacques de Wert. Il testo era il
seguente: Dedica: “A la signora Tarquinia Molza la qual studiando la sfera
andava la sera a contemplar le stelle“. Testo:
“Tarquinia, se rimiri
i bei celesti giri
il cielo esser vorrei
perché negli occhi miei
fisso tu rivolgessi
le tue dolci faville,
io vagheggiar potessi
mille bellezze tue con luci mille”.
Come
si può notare, Gesualdo sostituisce nel verso settenario alle prime cinque sillabe
“Tarquinia se ri” (-miri) le sillabe
“Mentre mia stella” (-miri). Poi,
apparendogli verosimilmente poco gradevole dal punto di vista musicale la
presenza di quattro “s” nel verso “fisso
tu rivolgessi”, ritocca il tutto spostando nel verso successivo la parola “fiso”, con una sola “s”, cui segue “negli occhi miei”.
2) (Libro II° n. 8):
"Sento che nel partire
il cor giunge al morire,
ond’io misero ognora, ogni momento
grido: morir mi sento!
non sperando di fare a voi ritorno.
E così dico mille volte il giorno:
partir io non vorrei
se col partir accresco i dolor miei.".
Questo
madrigale è una sorta di parafrasi negativa di quello, celeberrimo nel
Cinquecento, di Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, musicato, fra gli altri,
da Cipriano de Rore, il cui testo è il seguente:
“Ancor che nel partire
io mi senta morire,
partir vorrei ogni momento
tant’è il piacer che sento
de la vita che acquisto nel ritorno.
E così mille e mille volte al giorno
partir da voi vorrei,
tanto son dolci i ritorni miei”.
Questi
due chiari rimaneggiamenti provano non solo la tendenza di Carlo Gesualdo a
manipolare i testi per piegarli alle esigenze musicali (in “Mentre mia stella miri…v’era anche l’esigenza
di eliminare il riferimento a Tarquinia Molza) o a quelle del suo mondo
interiore (“Sento che nel partir…),
ma anche la sua capacità di parafrasare il testo originale in modo abbastanza accettabile,
com’è più evidente nel secondo caso.
A Gesualdo possono essere attribuiti con
egual certezza:
b)
i madrigali
indiscutibilmente autobiografici: Vengono, sotto tale secondo profilo in
evidenza:
1)
(Libro IV,n.
2):
"Talor sano desio
vuol che morendo ancìda ogni mia doglia,
ma io di pianger vago, o fiera voglia,
amo la vita solo
perché il mio pianto eterni eterno duolo",
ove
l’opera salvifica dell’arte dal proposito suicida, comune al Leopardi de “Le Ricordanze” e al Beethoven del “Testamento di Heiligentadt”, non è pensiero
o concezione ritrovabili in altri poeti o verseggiatori, vicini o lontani nel
tempo, a Carlo Gesualdo.
2)
(Libro III°
n. 15) con qualche margine di dubbio:
"Deh, se già fu crudele al mio martire,
sia Madonna pietosa al mio morire!
Ah, che prego! Pietade
or saria crudelitade!
Per dar fine al mio duol, giusto è ch’io moia;
Ella, che n’è cagion, ne senta gioia.".
E’ lecito
ritenere che i sentimenti espressi nel testo siano certamente appartenuti alla
sensibilità d’animo di Carlo Gesualdo, quella stessa che pervade la sua opera, in
quanto, se lui fosse morto perché schiacciato dal rimorso di aver ucciso la sua
sposa, soltanto lei avrebbe potuto a buon diritto gioire della propria crudeltà,
cioè di essersi in tal modo vendicata, avendo il bruciante ricordo della sua
persona inflitto a lui sofferenze così insopportabili da farlo morire di
crepacuore;
3)
(Libro III°
n. 9):
“<Non t’amo, o voce ingrata>,
la mia donna mi disse
e con pungente strale
l’alma trafisse.
Lasso, ben fu la piaga aspra e mortale;
Pur vissi e vivo. Ahi, non si può morire
di duolo e di martire”.
Appaiono
evidenti, nel tono narrativo che assume la composizione, il tradimento di
Maria, la necessitata e tragica scelta di vita di Carlo Gesualdo per non morire
del dolore e del martirio che gli procurava quel tradimento.
Possono essere attribuiti a Gesualdo con quasi
certezza:
c)
i madrigali che rivelano un senso drammatico,
quasi malato dell'eros.
Vengono
in evidenza sotto tale ultimo profilo:
1)
Il testo del
madrigale n. 10 del Libro I° del poeta Giovambattista Guarini:
“Tirsi morir volea
mirando gli occhi di colei ch’adora;
quand’ella, che di lui non meno ardea,
gli disse: Ohimè, ben mio,
deh, non morir ancora,
che teco bramo di morir anch’io!
Frenò Tirsi il desio
Ch’ebbe di pur sua vita allor finire
sentendo morte in non poter morire”
dove il
pastorello Tirsi si sente oltremodo mortificato (“sentendo morte in non poter morir”) nel non poter godere del
piacere sessuale all’unisono con l’amata.
2)
(Libro III°
n. 7)
"Sospirava il mio core
per uscir di dolore
un sospir che dicea: <L’anima spiro!>
Quando la donna mia più di un sospiro
anch’ella sospirò, che parea dire:
<Non morir, non morire!>.
O mal nati messaggi e mal intesi,
in vista sì cortesi!
<Mori> dicesti, ohimé, <ma non finire
sì tosto il tuo languire!>”;
3)
(Libro VI, n.
16):
"Quel <no> crudel che la mia speme
ancise
ecco che pur trafitto da mille baci di mia bocca ultrice
qual fiera serpe in mezzo ai fiori essangue
tra quelle belle labbra a morte langue.
Oh, vittoria felice,
in quel vago rossor gli amanti scritto
leggan <Di quel bel volto ha vinto Amore>
Amor vince ogni core".
d) Risultati
meno sicuri offre l’accennato criterio sussidiario:
Si
potrebbe partire dalla seguente considerazione: Gesualdo non è né un poeta
né un valente rimatore, ma un verseggiatore, il che non impedisce tuttavia
di definirlo un "cantautore", se si pensa alla qualità di alcuni
testi delle moderne “canzoni d’autore”. Gli si potrebbero perciò attribuire i
madrigali dal testo di qualità mediocre, privi della rima, ripetitivi della
caratteristica "ossessività" dei temi propri dell’anima gesualdiana,
e non sarebbero pochi.
Ma rispetto
al convincimento assicurato dagli altri criteri di cui sopra, questo è solo
l’abbozzo di una ipotesi, nella consapevolezza della innegabile difficoltà di
stabilire se il testo di un madrigale sia o meno "mediocre". Come
aiuto nella ricerca non bisogna trascurare di valutare la progressione del
cosiddetto atteggiamento antiletterario di Carlo Gesualdo. Invero, la tendenza
a scriversi i testi da sé, quasi assente nei primi due libri, è da ritenersi
in accentuazione man mano che lui passa dal terzo libro alla terna successiva
della sua produzione, in concomitanza con l’affinarsi dello stile della sua
arte musicale, giacché la precipua caratteristica della circolarità delle voci
e addirittura del loro isolamento dal contesto del quintetto nell’atto in cui
il singolo cantore pare esprimere un sentimento o una emozione sua propria, ha
molto presumibilmente indotto il grande madrigalista a scartare testi di poeti
o verseggiatori non idonei ad essere rivestiti dal nuovo stile che la sua arte
aveva intrapreso e a scriverne lui, di propria mano, molto probabilmente più
brevi, affinché si prestassero meglio alla maggiore estensione del canto.
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