mercoledì 31 agosto 2016

Saggio (Paternità dei testi dei madrigali di Carlo Gesualdo)




Paternità dei testi dei madrigali di Carlo Gesualdo

La ricerca della paternità dei testi di alcuni madrigali di Carlo Gesualdo presenta notevoli difficoltà, molto spesso insuperabili. Invero, soltanto pochi testi appartengono a poeti noti; la gran maggioranza dei 125 madrigali è frutto invece di scelte impulsive, disordinate, tipiche dell’anima gesualdiana, per cui è molto difficile accertare se, per rivestire l’idea musicale del momento, egli abbia attinto a testi di verseggiatori o rimatori che non godevano di alcuna fama, o se i testi li abbia scritti lui, di proprio pugno.

Questo breve saggio, lungi dall’avere la pretesa di giungere a soluzioni complete e definitive, ha soltanto la finalità di stimolare tale ricerca in omaggio al musicista ed anche al cantautore, in quanto Gesualdo lo fu in non pochi casi, riuscendo talvolta a creare, anche se di rado, accettabili composizioni in versi. Tale aspetto della creatività del Principe ha una grande importanza, certamente superiore a quella che finora gli è stata attribuita dai musicologi, i quali hanno rivolto la loro attenzione a Gesualdo quasi dimenticando – va pur detto – che di fronte ad un genere musicale complesso come il madrigale non si sarebbe dovuto trascurare del tutto il testo e diffondersi precipuamente e ampiamente sull’altra parte di cui quel genere musicale è composto, la musica. Va considerato, infatti, al fine di sottolineare l’importanza in genere del testo, che l’evoluzione dell’arte musicale è tale che i madrigali, e in genere la musica antica, sono divenuti indubbiamente di difficile ascolto per i più, mentre i versi, abbastanza facili alla lettura e spesso piacevoli, sono rimasti, pur a distanza di secoli, intatti, in una loro immutabile “classicità”. Ne deriva che vanno riposte anche in essi le prospettive e le speranze di una maggiore divulgazione di un’arte stupenda che purtroppo rivela la sua bellezza solo a un ristretto numero di cultori e di appassionati, apparendo invece ostica al gran pubblico di potenziali ascoltatori, proprio a causa della difficile comprensione del testo cantato, com’è frantumato e spesso ripetuto nel passaggio da uno ad altro tema della composizione.

Va senza dire che gli spartiti dei madrigali sono dotati di una valenza artistica di gran lunga maggiore, e che in definitiva Gesualdo resta un musicista, un grande musicista, non un paroliere. Tuttavia, a sostegno dell’interesse che può suscitare la ricerca della paternità del testo anonimo di un madrigale, se è innegabile che solitamente è il testo, nel procedere della creazione artistica, a porsi come un antecedente, che viene poi rivestito della sonorità e della musicalità che gli si addice (si pensi alla composizione di un’opera lirica), e se è altrettanto vero che pochi, come Carlo Gesualdo, hanno saputo piegare l’effetto emotivo del tema musicale alle esigenze del testo, specie con la personalizzazione delle voci, si dovrebbe giungere a diverse conclusioni allorché si appurasse che è stato lo stesso Gesualdo a scrivere il testo? O si dovrebbe ritenere che in tale ipotesi l’idea musicale, gioiosa o mesta o dolorosa, è sorta per prima nella mente dell’artista, e poi egli ha creato i versi che meglio esprimevano il sentimento contenuto nella melodia? Sarebbe quanto meno superficiale ritenere che nulla cambi. Più prudente è pensare che la ricerca che ci si è proposti potrebbe rendere più penetrante ed approfondita l’interpretazione dell’arte gesualdiana. Dopo tale premessa ne va fatta un’altra brevissima circa la possibilità di attingere a precedenti studi o commenti, al fine di evitare di formulare ipotesi errate su madrigali di cui sia stata già accertata la paternità. Il testo che reca un notevole aiuto è, a parere dello scrivente, il Commento all’intera opera dei madrigali di Francesco Degrada, data l’analitica attenzione che questo musicologo ha dedicato al testo e alle correlazioni che sono state da lui spesso ravvisate tra musica e verso.

Appare a questo punto opportuno fissare dei criteri, sempre con lo scopo che siano di ulteriore stimolo alla ricerca qui intrapresa. Se ne possono individuare, a parere dello scrivente, tre principali ed uno secondario. che però non danno tutti lo stesso grado di certezza o di probabilità nell’attribuzione della loro paternità al Principe. 

A Gesualdo possono essere attribuiti con certezza:

1) i madrigali manipolati o addirittura stravolti, il che è già sintomatico di una tendenza creativa anche dei testi; 

2) i madrigali indiscutibilmente autobiografici;

         A Gesualdo possono essere attribuiti con quasi certezza:

3) i madrigali che rivelano un drammatico, quasi malato senso dell'eros;

Passando ora ad una più particolareggiata analisi, nei sensi suaccennati,

possono essere attribuiti a Gesualdo con certezza:

a)    i madrigali, come si è accennato, rimaneggiati, o dei quali sia stato addirittura stravolto il contenuto, utilizzando quelli di altri poeti o rimatori. Vengono sotto tale profilo in evidenza:

1)    (Libro I° n. 11):  

"Mentre, mia stella, miri

i bei celesti giri,

il ciel esser vorrei

perché tu rivolgessi

fiso ne gli occhi miei

le tue dolci faville,

io vagheggiar potessi

mille bellezze tue con luci mille.".

Questo madrigale ha una storia del tutto particolare. Torquato Tasso, parafrasando una poesia di Platone:

O mio Astro tu guardi le stelle.

                 Ah, se potessi  

trasformarmi in cielo,

per guardarti con mille pupille”,

lo compose dedicandolo a Tarquinia Molza, nobildonna mantovana di notevole cultura letteraria e musicale, che aveva fatto anche parte del famoso Concerto delle Dame in Ferrara, dalla cui Corte era stata allontanata nel 1589 a causa di una tempestosa relazione amorosa con il musicista Jacques de Wert. Il testo era il seguente: Dedica: “A la signora Tarquinia Molza la qual studiando la sfera andava la sera a contemplar le stelle“.  Testo:

Tarquinia, se rimiri

i bei celesti giri

il cielo esser vorrei

perché negli occhi miei

fisso tu rivolgessi

le tue dolci faville,

io vagheggiar potessi

mille bellezze tue con luci mille”.

Come si può notare, Gesualdo sostituisce nel verso settenario alle prime cinque sillabe “Tarquinia se ri” (-miri) le sillabe “Mentre mia stella” (-miri). Poi, apparendogli verosimilmente poco gradevole dal punto di vista musicale la presenza di quattro “s” nel verso “fisso tu rivolgessi”, ritocca il tutto spostando nel verso successivo la parola “fiso”, con una sola “s”, cui segue “negli occhi miei”.  

2)    (Libro II° n. 8):

"Sento che nel partire

il cor giunge al morire,

ond’io misero ognora, ogni momento

grido: morir mi sento!

non sperando di fare a voi ritorno.

E così dico mille volte il giorno:

partir io non vorrei

se col partir accresco i dolor miei.".

Questo madrigale è una sorta di parafrasi negativa di quello, celeberrimo nel Cinquecento, di Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, musicato, fra gli altri, da Cipriano de Rore, il cui testo è il seguente:

Ancor che nel partire

io mi senta morire,

partir vorrei ogni momento

tant’è il piacer che sento

de la vita che acquisto nel ritorno.

E così mille e mille volte al giorno

partir da voi vorrei,

tanto son dolci i ritorni miei”.

Questi due chiari rimaneggiamenti provano non solo la tendenza di Carlo Gesualdo a manipolare i testi per piegarli alle esigenze musicali (in “Mentre mia stella miri…v’era anche l’esigenza di eliminare il riferimento a Tarquinia Molza) o a quelle del suo mondo interiore (“Sento che nel partir…), ma anche la sua capacità di parafrasare il testo originale in modo abbastanza accettabile, com’è più evidente nel secondo caso.

A Gesualdo possono essere attribuiti con egual certezza

b)    i madrigali indiscutibilmente autobiografici: Vengono, sotto tale secondo profilo in evidenza:

1)    (Libro IV,n. 2):

"Talor sano desio

vuol che morendo ancìda ogni mia doglia,

ma io di pianger vago, o fiera voglia,

amo la vita solo

perché il mio pianto eterni eterno duolo",

ove l’opera salvifica dell’arte dal proposito suicida, comune al Leopardi de “Le Ricordanze” e al Beethoven del “Testamento di Heiligentadt”, non è pensiero o concezione ritrovabili in altri poeti o verseggiatori, vicini o lontani nel tempo, a Carlo Gesualdo.

2)    (Libro III° n. 15) con qualche margine di dubbio: 

"Deh, se già fu crudele al mio martire,

sia Madonna pietosa al mio morire!

Ah, che prego! Pietade

or saria crudelitade!

Per dar fine al mio duol, giusto è ch’io moia;

Ella, che n’è cagion, ne senta gioia.".

E’ lecito ritenere che i sentimenti espressi nel testo siano certamente appartenuti alla sensibilità d’animo di Carlo Gesualdo, quella stessa che pervade la sua opera, in quanto, se lui fosse morto perché schiacciato dal rimorso di aver ucciso la sua sposa, soltanto lei avrebbe potuto a buon diritto gioire della propria crudeltà, cioè di essersi in tal modo vendicata, avendo il bruciante ricordo della sua persona inflitto a lui sofferenze così insopportabili da farlo morire di crepacuore;

3)    (Libro III° n. 9):

“<Non t’amo, o voce ingrata>,

la mia donna mi disse

e con pungente strale

l’alma trafisse.

Lasso, ben fu la piaga aspra e mortale;

Pur vissi e vivo. Ahi, non si può morire

di duolo e di martire”.

Appaiono evidenti, nel tono narrativo che assume la composizione, il tradimento di Maria, la necessitata e tragica scelta di vita di Carlo Gesualdo per non morire del dolore e del martirio che gli procurava quel tradimento.

Possono essere attribuiti a Gesualdo con quasi certezza:

c)      i madrigali che rivelano un senso drammatico, quasi malato dell'eros.

Vengono in evidenza sotto tale ultimo profilo:

1)     Il testo del madrigale n. 10 del Libro I° del poeta Giovambattista Guarini:

Tirsi morir volea

mirando gli occhi di colei ch’adora;

quand’ella, che di lui non meno ardea,

gli disse: Ohimè, ben mio,

deh, non morir ancora,

che teco bramo di morir anch’io!

Frenò Tirsi il desio

Ch’ebbe di pur sua vita allor finire

sentendo morte in non poter morire

dove il pastorello Tirsi si sente oltremodo mortificato (“sentendo morte in non poter morir”) nel non poter godere del piacere sessuale all’unisono con l’amata.

2)     (Libro III° n. 7)

"Sospirava il mio core

per uscir di dolore

un sospir che dicea: <L’anima spiro!>

Quando la donna mia più di un sospiro

anch’ella sospirò, che parea dire:

<Non morir, non morire!>.

O mal nati messaggi e mal intesi,

in vista sì cortesi!

<Mori> dicesti, ohimé, <ma non finire

sì tosto il tuo languire!>”;

3)     (Libro VI, n. 16):

"Quel <no> crudel che la mia speme ancise

ecco che pur trafitto da mille baci di mia bocca ultrice

qual fiera serpe in mezzo ai fiori essangue

tra quelle belle labbra a morte langue.

Oh, vittoria felice,

in quel vago rossor gli amanti scritto                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      

leggan <Di quel bel volto ha vinto Amore>

Amor vince ogni core".

      d) Risultati meno sicuri offre l’accennato criterio sussidiario:

Si potrebbe partire dalla seguente considerazione: Gesualdo non è né un poeta né un valente rimatore, ma un verseggiatore, il che non impedisce tuttavia di definirlo un "cantautore", se si pensa alla qualità di alcuni testi delle moderne “canzoni d’autore”. Gli si potrebbero perciò attribuire i madrigali dal testo di qualità mediocre, privi della rima, ripetitivi della caratteristica "ossessività" dei temi propri dell’anima gesualdiana, e non sarebbero pochi.

Ma rispetto al convincimento assicurato dagli altri criteri di cui sopra, questo è solo l’abbozzo di una ipotesi, nella consapevolezza della innegabile difficoltà di stabilire se il testo di un madrigale sia o meno "mediocre". Come aiuto nella ricerca non bisogna trascurare di valutare la progressione del cosiddetto atteggiamento antiletterario di Carlo Gesualdo. Invero, la tendenza a scriversi i testi da sé, quasi  assente nei primi due libri, è da ritenersi in accentuazione man mano che lui passa dal terzo libro alla terna successiva della sua produzione, in concomitanza con l’affinarsi dello stile della sua arte musicale, giacché la precipua caratteristica della circolarità delle voci e addirittura del loro isolamento dal contesto del quintetto nell’atto in cui il singolo cantore pare esprimere un sentimento o una emozione sua propria, ha molto presumibilmente indotto il grande madrigalista a scartare testi di poeti o verseggiatori non idonei ad essere rivestiti dal nuovo stile che la sua arte aveva intrapreso e a scriverne lui, di propria mano, molto probabilmente più brevi, affinché si prestassero meglio alla maggiore estensione del canto.

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