CARLO GESUALDO DA
VENOSA E IL
MALE DI VIVERE
Sono quasi inesistenti i
tentativi di ricostruire la vita e la figura di Carlo Gesualdo da Venosa
attraverso la lettura e l’ascolto musicale dei madrigali, mentre è molto più frequente
e direi usuale il ricorso ai documenti e agli scambi epistolari, tra i suoi
familiari e comunque tra coloro che gli furono vicini nei luoghi in cui visse. Molto
interessante, però, è anche il cammino attraverso la sua arte, dando
particolare importanza ai testi dei madrigali, tanto più che Carlo Gesualdo,
dopo aver musicato alcuni madrigali di Torquato Tasso, di Giovanbattista Guarini
e di qualche altro elegante poeta dell’epoca, preferì scrivere lui stesso i
testi, al fine di adattarvi meglio la tecnica tendenzialmente monodica, ma
certamente non mancando di cogliere, con questa scelta, le occasioni per
esprimere i sentimenti e gli stati d’animo del suo vissuto.
Comunque siano, di sua
fattura o mutuati da poeti, questi testi ruotano quasi tutti intorno a due
fulcri intimamente connessi, anche se diversamente ispirati nell’arco degli
anni: la passione amorosa e il pensiero della morte. La prima si presenta sotto
varie sfaccettature, più spesso nel contesto di una visione spirituale del
sentimento amoroso, altre volte invece sotto aspetti più decisamente sensuali,
sempre accompagnati da venature di intensa malinconia. Il secondo è una
componente pressocché costante della
sofferenza amorosa, tanto da indurre ad azzardare che Gesualdo è stato un
anticipatore, oltre che della musica moderna, anche di quel connubio
inscindibile che si ritrova nella sensibilità di tempi più recenti, come in
“Amore e Morte” di Leopardi e in “Eros e Tanatos” di Freud.
Uno sparuto gruppo,
distinto ed isolato, è costituito da quei madrigali nei quali Gesualdo si
confronta con la vita, s’intende con la propria vita, ancorché in quel suo
tipico atteggiamento lirico, più che di filosofica riflessione. Ma se si vuole
procedere ad una loro analisi al fine di isolarli del tutto dagli altri, bisogna
tuttavia distinguere, per poi non tenerne conto, quelli che abbiano un qualche
legame psicologico con la passione amorosa e con il conseguente desiderio di
annullarsi nella morte per non soffrire le pene dell’amore, poiché essi
finiscono per rientrare nelle costanti, or dette, tematiche gesualdiane.
Il più famoso di tale
ristretta cerchia è certamente il XX° con cui si chiude il Quinto Libro: “T’amo, mia vita!” La mia cara vita mi dice e
in questa sola dolcissima parola par che trasformi lietamente il core per farsene
signore. O voce di dolcezza e di diletto, prendila tosto, Amore, stampala nel
mio core! Spiri solo per te l’anima mia “T’amo, mia vita”, la mia vita sia.”
Il testo, elegante e raccolto in un’atmosfera di grande serenità, è del Guarini,
ma tuttavia, per l’invocazione all’Amore di rendergli la vita piena di dolcezza
e di diletto, il madrigale non è molto utile allo scopo che ci si è prefissi,
cioè quello di far emergere il rapporto che il principe di Venosa ebbe, come
uomo prima che come artista, con la propria esistenza. Tutt’altro che sereno il
madrigale II° del Terzo Libro: “Ahi,
disperata vita, che fuggendo il mio bene miseramente cade in mille pene! Deh,
torna alla tua luce alma e gradita che ti vuol dare aìta”. Anche in questo madrigale c’è un’invocazione
alla vita strettamente legata al bene dell’amore. Nella vetta passionale della
composizione (“Deh, torna alla tua luce”),
come del resto in tutta la musicalità del testo, si sente quasi l’intonazione
di un richiamo, di un rimprovero rivolto a sé stesso per non aver ricercato la
consolazione nell’amore di una donna.
Invece, i due madrigali
in cui l’Artista esprime tutto sé stesso, come uomo, davanti al problema
esistenziale, senza alcun collegamento con il binomio amore-morte, sono
il II° del Quarto Libro e il XIX° del Sesto Libro, i quali rappresentano il
frutto di ispirazioni e di stati d’animo del tutto diversi e contrastanti, assolutamente
unici nella intera raccolta. Nel primo (“Talor
sano desìo vuol che morendo ancida ogni mia doglia, ma io di pianger vago, o
fiera doglia, amo la vita solo perché il mio pianto eterni eterno duolo.”)
il tema autobiografico è di tutta evidenza e la passione si trasmuta in
meditazione malinconica e dolorosa. Non a caso il successivo madrigale è il
celeberrimo “Io tacerò…”, dominato dalla
singolarissima visione di una morte e di un silenzio “loquaci”. Come in
nessun’altra parte della sua monumentale opera, il Principe dei musici dichiara
apertamente di esser giunto ad un passo dal suicidio per porre fine ad “ogni sua doglia”, e cioè,
indefinitamente, ad ogni sofferenza del corpo e dello spirito.
Tuttavia, questo suo male di vivere sarebbe stato
insopportabile se il proposito di un insano gesto non fosse stato vinto dalla
“fiera voglia” di piangere eternamente il proprio dolore e di voler continuare
a vivere per questo solo scopo, amando la vita terrena come unica via per esprimere
il suo lacrimevole canto. Se dunque in lui la creazione dell’arte musicale
si identificava con la vita stessa quale essenziale funzione consolatrice (“di pianger vago”), ciò significa che era
l’Arte a trattenerlo dal suicidio, in quanto egli viveva per comporre e
componeva per vivere.
Alcuni secoli dopo anche Leopardi
troverà nella poesia una ragione essenziale di vita e canterà: “E già
nel primo giovanil tumulto di contenti, d’angosce e di desìo, Morte chiamai più
volte, e lungamente mi sedetti colà su la fontana, pensoso di cessar dentro
quell’acque la speme e il dolor mio. Poi, per cieco malor, condotto della vita
in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore dei miei poveri dì…”. Se
Gesualdo volle che il suo pianto eternasse un eterno dolore, Leopardi pianse la
bella giovanezza, singolare comunanza di un “pianto” consolatore!
E Beethoven scriverà nel
cosiddetto Testamento di Heiligenstadt, quando nessun giovamento aveva arrecato
alla sordità il breve soggiorno in quella silenziosa cittadina: “Per me era la disperazione; e poco mancò che
non dessi fine ai miei giorni. L’Arte solo mi ha trattenuto; non mi pareva
possibile dover lasciare il mondo senza aver compiuto tutto ciò che sentivo di
poter fare.... una volta almeno spunti per me un puro giorno di gioia”. In
questo parallelo tra i due musicisti è la comunanza non del “pianto” ma della
“gioia” a generare un sorprendente accostamento, sol che si considerino l’Inno
di Schiller con cui si chiude la Nona Sinfonia e i madrigali XIX° e XXIII° del
sesto libro con cui si chiude l’opera madrigalistica di Carlo Gesualdo. L’Arte
premiò il loro coraggio di vivere fino a trasformare le personalità in una
sublime trasfigurazione che attinge un sentimento che sembrava a loro
irrevocabilmente precluso: la gioia. Ed infatti, come nell’ascoltare quell’Inno
non si riconosce più il Beethoven che aveva espresso, nella quinta sinfonia ed
in altre sue opere, una vibrante protesta contro l’avversa fortuna, così negli
ultimi madrigali sembra non riconoscersi più Carlo Gesualdo.
Particolarmente, come si
è accennato, nel XIX° in cui, a differenza del XXIII°, nel quale la “gioia” sembra
discendere anche dalla visione di Licori che scherza coi “lascivetti Amori”, non v’è il minimo riferimento al fenomeno
amoroso, ma è soltanto la bellezza della Natura a rallegrare l’animo del
Principe: “Al mio gioir il ciel si fa sereno il crin fiorito il Sole ai prati
inaura. Danzano l’onde in mar al suon de l’aura, cantan gli augei ridenti,
scherzan con l’aria i venti, così la gioia mia versando il seno io d’ogni
intorno inondo, e fo, col mio gioir gioioso il mondo.” Anzi, il suo stato
d’animo si riverbera sugli elementi naturali, in modo da far diventare sereno
il cielo, soffiare lievemente i venti, cantar gli uccelli e danzare le onde del
mare, in una cornice musicale di impareggiabile maestria, inondata di luce e di
prorompente vitalità. Dopo tanto soffrire, come del resto aveva preannunciato
nel XXII° madrigale dello stesso libro (“Già
piansi nel dolore, or gioisce il mio core”), la sua gioia, che è in questi
momenti la stessa sua musica, rende gioioso il mondo. Questo è l’ultimo
messaggio di un musicista violento e sfrenato, dettato in un periodo fra i più
tetri ed infelici della sua travagliatissima esistenza, che, singolarmente,
raggiunge il medesimo traguardo agognato da Beethoven. Erano stati dunque tutti
e tre profondamente afflitti dal male di vivere, Carlo Gesualdo, Giacomo
Leopardi, Ludwig Van Beethoven, ed erano giunti ad un passo dal suicidio,
perché la loro vita infelice era rimasta priva di ogni conforto, forse anche
perché non si sentivano amati, ma l’Arte li aveva salvati, impedendo che si
abbandonassero ad un insuperabile sconforto.
Se si potesse credere che
anche le cose soffrano a volte a tal punto da non riuscire a trasmettere neppure
un’invocazione di aiuto in nome della storia e dei valori che rappresentano, allora
si potrebbe anche pensare che il Castello di Gesualdo, quasi diruto, in un
progressivo sgretolamento delle strutture e nella indifferenza pressocché
totale dei suoi sudditi, stava per abbandonarsi ad un finale rovinoso crollo.
Sembrava che volesse lasciarsi morire anch’esso per carenze affettive, quando
un grande musicista venuto da lontano intese fargli visita circa cinquant’anni
fa, attratto dalla straordinaria coralità che soltanto il suo orecchio poteva
sentir risuonare dentro quelle derelitte mura, ed entrato nel suggestivo
cortile riuscì finalmente a fargli ascoltare una sincera ed autorevole, anche
se isolatissima voce amica: era la voce
dell’Arte, che anche qui veniva a salvare l’imponente maniero dal destino
di un finale suicidio cui pareva essersi ineluttabilmente votato.
Tocca a noi, fruitori
mortali di doni così grandi della Poesia e della Musica, elevare un sincero e
infinitamente grato “Inno all’Arte”.
Gennaro Iannarone
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