mercoledì 31 agosto 2016

RACCONTI (Ricordi della fanciullezza) 1400


RICORDI DELLA FANCIULLEZZA

(A casa dei nonni Alfredo e Gennarino)



Fatevi animo, donna Carmelina, si era appena confessato quando si è sentito male. Ci pensate che fortuna? Andrà di sicuro in Paradiso!”. Sfuggitole di bocca questo augurio, la buona donna aiutò mia madre a prendere dell'aceto per accostarlo insieme alle narici del nonno, sperando così di farlo riprendere dal gravissimo attacco che gli aveva tolto la coscienza e la parola. Stava seduto al centro della sua camera da letto, con il capo riverso sullo schienale della sedia di paglia con cui l’avevano portato a casa due giovani, raccogliendolo sulle scale della cattedrale, credo senza grande sforzo perché nonno Alfredo era piccolo di statura, appena un metro e cinquanta. Boccheggiava un po’ più rumorosamente di quando si appisolava dopo pranzo sulla panca della cucina, accanto al focolare, con il cappello spesso calato sugli occhi per ripararli dalla luce solare che penetrava in casa nel meriggio. Io mi fermavo talvolta ad osservare quel suo modo di respirare nel sonno, con il fiato che gli usciva da un angolo delle labbra, che si chiudeva ad ogni inspirazione per poi riaprirsi, con un ritmo che sembrava scandito dal vecchio pendolo sul muro, che lui regolava in continuazione, salendo sulla panca con le gambe malferme e dicendo ogni volta che non era mai preciso.

Rimase così sulla sedia per circa mezzora, in una inutile attesa del medico, fino a quando non lo adagiarono nel suo letto matrimoniale, dal lato dove prima dormiva la moglie Ersilia, morta qualche anno dopo la fine della guerra, ed in quella posizione rimase, vegliato dai figli, mia madre e zio Marciano. Quella sera andai a letto un po’ prima del solito. Stentavo a prendere sonno. Era proprio vero, pensavo, che, dopo la confessione e l'improvviso malore, non aveva potuto commettere peccati, neppure di pensiero. E così durante la notte, secondo i buoni e sicuri auspici, nonno Alfredo passò in Paradiso.

Alcuni anni prima dormivo con lui nello stesso letto, fino a quando zio Michele non disse a mio padre che un bambino non doveva respirare l’alito di un vecchio, e così passai a dormire nella camera di mamma e papà, in un lettino collocato su una botola, dalla quale si scendeva giù nel negozio del nonno per una ripida scala di legno e che da allora non sarebbe stata più aperta, mentre prima se ne faceva uso per andarvi a prendere vivande ed altro. A tanto provvedeva per lo più zia Adelina, che qualche volta spuntava fuori all’improvviso da quella botola, aiutandosi con una mano per sollevarne la copertura e reggendo nell’altra un uovo, mentre diceva, già prima di giungere all’ultimo scalino, che la gallinella lo aveva fatto la mattina apposta per me, sperando così di vincere la mia ostinata inappetenza. Anche lei sarebbe volata in Paradiso durante la notte, che avevo appena quattro anni e la guerra non era ancora finita. Teresina era venuta di prima mattina nella stanzetta in fondo alla casa, dove allora mi avevano messo a dormire in una vecchia culla, e mi aveva svegliato annunciandomi a voce alta, quasi come se mi stesse dando una bella notizia, che era morta zia Adelina, portandomi poi in braccio, ancora assonnato, accanto al letto dov’ella giaceva immobile, tutta vestita di nero, con sul petto le mani congiunte sopra una piccola croce bianca. Era stato quello il mio primo confronto con un’immagine così irreale che fin da allora, credo, cominciai a non capire nulla della morte.

La camera da letto del nonno, la più grande e calda della casa, aveva una finestra a levante ed un balconcino quasi alla romana a sud che sporgeva su piazza Marconi, in verità più trivio che piazza, dove riusciva ad arrivare il postale come allora si chiamava il pullman di linea per Avellino, di colore blu, che proprio lì invertiva la marcia, andando in su per pochi metri fino a sfiorare di qualche centimetro il  muro della caserma dei carabinieri con il lungo muso scoperchiabile, dove sotto c’era il motore, indietreggiando nella via che porta ai Limiti, e poi girando per la discesa di via Duomo da cui era salito, dopo essersi fermato nel piccolo slargo a destra davanti al bar, per far scendere i passeggeri e prima di loro il fattorino, che schizzava fuori con il sacco della posta ed andava di corsa a consegnarla in piazza Municipio. Dalla postazione privilegiata del balconcino non mi perdevo nessuna fase di quella lenta manovra, perché l’arrivo del pullman era un avvenimento importante della giornata, in quegli anni in cui per le strade del paese passavano solo due macchine, una dell’avvocato e l’altra dell’autista di noleggio, quattro volte al giorno, un viaggio di andata e uno di ritorno ciascuno. Se per caso ne passava qualche altra, la gente si affacciava ai balconi, appena sentiva il rombo di un motore che saliva, per curiosare se erano arrivati forestieri, o, caso molto più raro, se qualche altro paesano s’era comprata la macchina.

Quella stanza nel giro di pochi mesi divenne più mia che sua, perché nonno durante il giorno vi entrava poche volte, per conservare in un album chiuso da un elastico di color marrone l’incasso della giornata, avendo cura di riporlo sul tetto dell’armadio dopo essersi guardato intorno con circospezione, o per orinare in un vaso da notte che prelevava dal comodino accanto al letto. Una volta, mentre ero intento a giocare sul pavimento ad un puzzle di dadi, lo vidi saggiare con la lingua la sua pipì nel vasetto. Corsi a dirlo a mamma, ridendo, ma lei mi spiegò che in quel modo suo padre si controllava se aveva zucchero nel sangue, per stare bene in salute. Prima di pranzo era solito soffermarsi dietro al balconcino a prendere il sole e qualche volta chiedeva consigli a mio padre, che si sedeva di fronte a lui su una seggiola bassa, per metterlo a suo agio. Dal viso di nonno Alfredo spesso traspariva che le risposte ai suoi quesiti non gli erano state favorevoli, anche perché mio padre, che lo chiamava rispettosamente “papà”, finiva per esortarlo ad aver pazienza con i contadini, perché più tutelati dalle leggi del dopoguerra. Capivo che quei consigli riguardavano il terreno della contrada Pannizza, con la casa colonica e l’alveare, dove talvolta d’estate scendevamo tutta la famiglia, un’ora di strada a piedi, e da cui arrivavano le provviste a dorso di mulo, portate dal colono Palummo, che con nonno non andava molto d’accordo. Nonno Alfredo, come proprietario terriero   era un irriducibile, ma anche Palummo era un tipo fatto a suo modo, che non sorrideva mai. Lo si sentiva borbottare, e qualche volta pure bestemmiare, appena legato il mulo all’anello di pietra per scaricare la soma nel “magazzeo”, e non c’era volta che non si lamentasse della “malannata”. Quando poi scappava via un “cupo” d’api dall'alveare, giungeva in casa quando meno te l’aspettavi e creava tanta agitazione sol che appariva davanti alla porta, tutto trafelato e paonazzo in viso, dando a vedere ch'era seccato dall’incombenza di essere salito appositamente in paese. Allora zio Marciano, indossata una tuta che sembrava uno scafandro, scendeva con lui in campagna con la motocicletta Ariel di colore rosso per recuperare senza indugio il prezioso sciame.

Non so dire se nonno mi volesse veramente bene. Una volta, mentre stavo giocando nella sua camera, aveva aperto d'improvviso la porta e mi aveva guardato fisso. Tenendo in mano uno scatolo di pennini “a cavallotto”, con tono severo mi aveva chiesto se ne avessi preso uno uguale nel negozio. Era poi subito uscito sbattendo la porta, mentre io mi ero girato a guardare tutto mortificato i visi dei miei compagni, ai quali avevo regalato qualcuno di quei pennini, che avevano il pregio di raccogliere più inchiostro dal calamaio. Alzando gli occhi fino al tetto dell’armadio, pensai alle migliaia di pennini “a cavallotto” che avrei potuto comprare con i soldi grossi, da cinquecento e da mille lire, che lui custodiva tanto gelosamente in quell’album dall’elastico color marrone.

Per un’altra monelleria me l’ero cavata con un rimprovero più blando. Tra i giochi preferiti all’aria aperta, ce n’era uno in cui si usavano come bocce delle grosse pietre piatte, o dei ferri da stiro sottratti in casa e privati del manico con la complicità del figlio di qualche fabbro. Le poste, costituite da bottoni e da formelle di ottone, che valevano il doppio dei bottoni, si deponevano in una buca scavata nel terreno, solitamente nella piazzuola dietro al Municipio, prima dell’inizio di via Limiti. Chi riusciva con un tiro a scacciare il “masto”, ch'era uno spesso mattone triangolare posto in verticale a riparo della buca, ed a piazzare la sua boccia vicino ad essa, catturava l’intera posta. Quando finivo in perdita, smettevo di giocare per un poco e, giunto a casa, mi calavo quasi interamente in una vecchia cassa con bordure in ottone dove c’erano i suoi pantaloni, pronto a richiudermi dentro se entrava qualcuno. Munito di forbici e tenendo un po’ sollevato il coperchio per vederci meglio ed anche per respirare il meno possibile l’aria che emanava da quella sorta di guardaroba, facevo provvista delle formelle che v'erano cucite. Un pantalone per volta e correvo di nuovo a giocare. Una mattina che vidi nonno in mutande rovistare con una mano in quella cassa, mentre nell’altra reggeva un pantalone e molti altri li aveva già ammucchiati alla rinfusa su una sedia, tentai di scappare subito su via Vasoli, ma non finii di percorrere il lungo corridoio della casa che lo sentii gridare: “Carmelinaaa!!”. Non avendo potuto abbottonare neppure un pantalone, chiamava sua figlia in aiuto e lo faceva ad alta voce per far capire a distanza ch’era arrabbiato con me.

Con l’arrivo del Natale diventava più affettuoso. La sera della vigilia mi chiamava in negozio per celebrare un rituale tutto suo, quello della strenna. Chiusi i battenti ed aperto lentamente un tiretto del bancone sotto il mio sguardo di attesa, vi prendeva un mazzetto bello doppio di biglietti di piccolo taglio di colore verde, conservati nuovi di zecca per quella occasione. Poi, ancor più lentamente li contava, per godere più a lungo del mio viso che gli sorrideva contento. Mamma diceva che con quel “negoziuccio” e le modeste rendite della Pannizza suo padre era riuscito a tirare avanti un’intera famiglia, caduta in ristrettezze economiche prima dello scoppio della guerra, tanto che era stata venduta all’asta la bella casa in piazza Municipio che ha davanti un leone di pietra, che lei avrebbe certamente ereditato, se a una sua zia che non aveva figli non fosse piaciuta una vita di lussi e di dispendi, di cui si favoleggiava persino che facesse il bagno soltanto nel latte d’asina. Perciò era attentissimo alle sue poche risorse economiche, non solo litigando spesso col colono ma vigilando anche sulle provviste ch’erano in casa, come le buone salsicce appese al soffitto della cucina. Erano state fatte con il maiale allevato nel vano sotto l’ingresso, con il sacrificio olfattivo di chi entrando era investito dai non piacevoli effluvi che la corrente d’aria gli sospingeva sotto il naso. Per questo, durante il Carnevale non faceva più entrare in casa gruppi di ragazzi fin da quando ne aveva sorpreso uno che durante la scenetta mascherata aveva allungato la mano ad un capo di salsicce e tirava con forza per farlo venir giù. E che fosse molto guardingo nell’amministrarsi se ne accorgeva non solo Palummo ogni volta che veniva a scaricare il grano del fitto nel “magazzeo”, ma anche gli avventori del suo negozio. Poiché durante la guerra e negli anni che seguirono la lira cominciò a svalutarsi rapidamente, nonno provvedeva naturalmente ad adeguare i prezzi dei prodotti che vendeva. Non so dire in che misura lo facesse, ma quando la gente, quasi protestando, gli chiedeva spiegazioni degli aumenti che praticava, lui usava rispondere con una frase che pareva una battuta di spirito (“Mo’? ‘E veré appriesso!!”), ma serviva anche a scoraggiare le proteste del giorno successivo. E in paese qualcuno ancora oggi ricorda quella espressione lungimirante di “don Alfredo Testa”, quando si parla di situazioni che vanno sempre più peggiorando.

La casa dei nonni paterni stava sulla stessa via Vasoli, un po’ più avanti scendendo. Vi trascorrevo buona parte della giornata, anche perché attratto dalle caramelle che mi regalava zia Pasqualina, padrona del bar di fronte. Proprio davanti a quel bar, avevo poco più di tre anni, assistetti una volta al passaggio fragoroso di aerei che sfiorarono i tetti delle case, volando verso Sud, mentre nonna Peppina gridava terrorizzata con le mani nei capelli, rientrando di corsa in casa pallida dalla paura ed imprecando contro quei “fuochisti”, come usava chiamare gli americani, perché bombardavano senza criterio. Invece, quando sul far della sera udiva il rombo continuo di motori di aeroplani, alti nel cielo, quasi sorridendo diceva che erano arrivati i “mosconi”, come chiamava gli inglesi, che giravano in ricognizione sulle due valli che circondano il nostro monte.

Un giorno, sparsasi la voce che era caduto un aereo presso il fiume Ufita, molti si precipitarono nella contrada Piani, e qualcuno ritornò contento di avervi trovato a bordo un binocolo, una macchina fotografica o altri strani oggetti, fra cui un piccolo specchietto retrovisore, che finì nelle mie mani e usai per giocare a nascondino. Qualche volta delle moto con sidecar, montate da soldati con caschi di metallo scuro, salivano fino in piazza Municipio per poi tornare giù nella piana, seguiti dallo sguardo di noi ragazzini che subito ci portavamo sulla panoramica via Limiti, curiosi e divertiti nell'osservarle mentre abbordavano i tornanti a gomito della discesa. Oltre ai motociclisti col sidecar, una volta alcuni soldati tedeschi erano arrivati in paese sul far della sera. Fermatisi alla fontana del borgo san Rocco per rifornire di acqua l’automezzo di guerra e trovato il rubinetto a secco, avevano cominciato a minacciare rappresaglie, avendo sospettato un boicottaggio. Avevo sentito all'indomani un uomo anziano raccontare, ancora spaventato, che il loro comandante si era diretto a passo di marcia, salendo per via Duomo, verso la caserma dei carabinieri, dicendo più volte a voce alta: “kaputt!”. Fortuna era stata che un paesano, già emigrato in Germania, che conosceva un po’ il tedesco, era riuscito a far capire a quel comandante indispettito che l’acqua era stata razionata dall'inizio della guerra. Passato nella popolazione quel momento di terrore, era seguita la paura dei bombardamenti, poiché un altro gruppetto armato aveva collocato alcuni pezzi di artiglieria sulla parte più alta di via Limiti, per organizzare colà una difesa. E' noto ancor oggi col nome Digath quel bel poggio erboso che è il più vicino all’abitato e che da ragazzi frequentavamo per fumare di nascosto dei genitori o per appuntamenti con le fidanzatine. Per fortuna era presto giunto un ordine di smobilitazione.

Sempre più di frequente si vedevano passare per le strade del paese piccoli gruppi di soldati e quasi ogni sera li vedevo scendere per la ripida via Selce, che barcollavano come ubriachi. Sentivo dire che erano polacchi. Con sorpresa un pomeriggio me li ritrovai nell’ingresso della casa dei nonni, dove un bancone, una panchetta ed un vecchio tavolo arredavano una improvvisata osteria. Mangiavano qualcosa preparata loro dalla mia bisnonna Lucia, che serviva per i più poveri e per qualcuno di passaggio i fusilli al ragù, con un buon bicchiere di vino della contrada Amendola. Sempre lo stesso piatto ma abbondante, che era poi una sua specialità, perché si alzava la mattina presto per tirare per ore quel sugo. E qualcuno del paese, più affamato dei soldati polacchi, si fermava nel vicolo dirimpetto, a fianco al bar di zia Pasqualina, rimanendo in attesa di un invito ad entrare, come lei usava fare con un breve cenno, poggiando dorso e pollice della mano sinistra sulla fronte ed agitando le altre quattro dita, come se non volesse far notare al resto della famiglia l’ingresso di estranei in casa. Non biascicava solo preghiere nella sua stanza al primo piano, tappezzata di figurine di santi, mamma Lucia, ma donava quel poco che poteva con grande carità cristiana.

La guerra ci aveva sfiorati, benché il nostro fosse un piccolo borgo isolato dal resto del mondo, creando un’atmosfera che non lasciava tranquilli, come avevo capito dalle grida di terrore di nonna Peppina. Soltanto in un assolato pomeriggio di primavera avrei avvertito, a mo’ di sensazione, che essa era davvero finita. Ero appena uscito dalla casa di nonno Alfredo, intorno alle cinque, e giunto all’inizio dei Vasoli mi guardavo intorno per cercare qualche compagno di giochi, ma non c’era nessuno in giro. Solo sul piccolo davanzale della finestra bassa di palazzo Calò, rannicchiato in un angolo d’ombra, stava seduto zio Aniello, che aspirava avidamente meno della metà di una sigaretta senza filtro. Appena mi vide, si girò verso di me ed io gli sorrisi come sempre, ma lui si fece improvvisamente serio e con uno sguardo strano,  tra  l’incredulità  e  la  meraviglia,  disse  con  un tono cupo della voce, come se non parlasse a me: “Hann’ accis’a Mussolini!”.

Circa sette anni dopo, in un giorno delle feste di Natale, nonno Alfredo venne a pranzo a casa di nonno Gennarino. Si scambiarono l’augurio di rivedersi nella prossima festività, ma l’anno dopo morirono tutti e due. Il vecchio tavolo, che aprendosi a libro diventava ampio e quadrato, era stato imbandito nella camera grande al primo piano, perché nonno non poteva affaticarsi a scendere in cucina e risalire. Mesi prima gli era venuto un fortissimo dolore al petto mentre spaccava la legna per il camino e si era così improvvisamente ammalato di cuore. Portato a tavola, caldo e fumante un grande vassoio di maccheroni al sugo, nonna riempì col mestolo tutti i piatti, ma non ne avevamo mangiato neppure la metà che nonno Gennarino si sentì male. Me ne accorsi perché zia Lucia cominciò a chiamarlo a gran voce, ma lui non rispondeva, aveva gli occhi fissi nel vuoto e il viso pallido e sudato. Quando lo vidi immobile sul letto dove l'avevano adagiato, preso da una gran paura che morisse, mi precipitai a piano terra per il ripido scalone di legno e raggiunsi l’ingresso, dove, dalla finestra sul vicolo, si poteva vedere, sui tetti della casa vicina un pezzetto di cielo, dove sapevo che c’era Dio. Pregai con tutto l’animo che lo facesse vivere, lo scongiurai piangendo, e giunsi persino a mordermi le nocche delle dita, come se offrissi questo mio martirio alla salute di nonno. Mamma scese giù poco dopo per rassicurarmi, ma nessuno completò il pranzo.

Fu l’anno dopo, in autunno, che ci trasferimmo ad Ariano Irpino, come mamma mi aveva preannunciato proprio quel giorno, appena discesa dal piano di sopra. Era serena, anzi contenta, nel darmi quella notizia, mentre in me allo spavento appena provato si aggiunse il dispiacere di dover lasciare Frigento, i compagni di giochi, il viso di una fanciulla che mi tornava nel pensiero. L’Istituto Schettino di Frigento era una scuola, aveva detto papà, che sfornava solo maestri elementari, e non mi avrebbe dato delle buone basi per il liceo classico.

Sette anni di scuola insieme ai compagni di scuola e di gioco non erano stati pochi. Li ricordavo tutti, fin dalla prima elementare. Proprio nonno Gennarino aveva voluto accompagnarmi il primo giorno di scuola, tenendomi per mano, come per essere di buon augurio, mentre io lo seguivo di mezzo passo indietro perché faticavo a reggere la bella cartella che poco prima mi aveva regalato. Me l’aveva fatta trovare a casa sua come un dono della Befana, sospesa al grosso gancio sovrastante il caminetto, che serviva ad appendervi il paiolo per cuocere la pasta. Eravamo da qualche minuto davanti all'edificio della scuola elementare di Piazza Municipio che si affacciò sul balcone la bidella, con una vestaglia verdina stinta dal tempo, e incominciò a girare la manovella di una sirena, mentre dalla piazza noi bambini la guardavamo col naso per aria, divertiti da quel richiamo sonoro che scandiva il nostro ingresso a scuola. Qualche anno dopo, divenuti più grandicelli, ci incuriosimmo a guardare le sue gambe e, quando il vento che spirava da via Limiti sollevava appena la sua vestaglia, ridevamo e ci sussurravamo maliziosamente all’orecchio. E lei, vedendoci sempre entrare con allegria, ci accoglieva sulle scale col sorriso, compiaciuta del nostro amore per la scuola, e spesso esclamava: “Ma quanto sono bravi questi bambini!”

La maestra Filomena Pepino era molto severa. Per farsi ascoltare con attenzione, ci sbarrava in faccia i suoi grandi occhi neri, con uno sguardo penetrante che incuteva timore, ma quello che spiegava non lo scordavo più. Come non ho più scordato una sua dura lezione di vita. Un giorno io e suo nipote Roberto tentavamo di far volare un piccolo aeroplano dalla collinetta di via Limiti. Bisognava lanciarlo appena liberata l’elica da un doppio elastico che la bloccava, ma appresso al lancio rotolai anch’io giù, fino a fermarmi con la faccia tra un ciuffo di ortiche. Me la cavai solo con un viso tutto rosso. Corso a casa di nonno Gennarino per sciacquarmi con acqua fresca, ebbi la sfortuna di trovarvi mamma e la sua richiesta di spiegazioni. Timidamente dissi che mi aveva spinto Roberto, ma all’indomani la signorina Pepino venne di persona nel pomeriggio a rimproverarmi di quell’ingiusta accusa, e, davanti a quel suo sguardo, io e mamma restammo ammutoliti perché avevamo sbagliato tutti e due. La maggiore severità la usava con Tonino e Benedetto, i più monelli fra i miei compagni, poi persi per strada, che reagivano persino con calci negli stinchi ai suoi sonori ceffoni. Qualche mattina, dopo la rituale recita del Pater Noster e dell’Ave Maria, i due brindavano con i calamai, e, imitando l’eucarestia, recitavano insieme “Questo è il calice del mio sangue”, e poi bevevano in un fiato tutto l’inchiostro, mentre la scolaresca scoppiava a ridere di quello scherzo un po’ blasfemo, senza preoccuparsi per niente che potessero avere mal di stomaco. Dopo un duro, manesco rimprovero, la maestra Pepino chiamava subito la bidella per far rifondere l’inchiostro ed evitare scuse al momento del dettato. E quando lei entrava, il tempo sembrava fermarsi fino a quando non aveva terminato il lento riempimento dei calamai, sotto i nostri attentissimi sguardi, con una panciuta e pesante bottiglia che lei reggeva con entrambe le mani.

La prima pagella era piena di dieci, e alla fine dell'anno mi sentivo già il più bravo della classe. Anche nonna Peppina era stata la prima della classe, ma non aveva potuto continuare gli studi perché la sua famiglia era povera. Mi raccontava spesso di papà, che faceva i compiti in piedi, sul comodino della camera da letto, dove teneva quaderno, penna, calamaio, gomma, e libro sussidiario. Per non farlo studiare in una posizione così scomoda, gli aveva comprato un’antica scrivania dall’agente delle tasse. Era stato un grosso sacrificio sborsare quindici lire agli inizi degli anni ’20, ma aveva reso felice il suo Nicola, premiandone la bravura. In uno di quegli anni nonno Gennarino era ritornato dall’America, dov’era emigrato circa un decennio prima, ed erano poi nati zia Lucia e gli zii Angelo e Michele, ch’erano gemelli ma non si somigliavano per niente.

Nonno faceva il fattorino con la SITA e la mattina si alzava prestissimo perché la corriera per Avellino impiegava quasi due ore per attraversare i paesi, consegnare la posta e far salire i passeggeri, passando per la lunga e ripida salita della Serra, che iniziava a Venticano e finiva a Pratola Serra. A me piaceva molto ascoltare nonno che raccontava com’era andata quella scalata quando c’erano state delle difficoltà. Qualche volta, per il pericolo di slittamento per neve o pioggia, avevano fatto spostare in fondo tutte le persone per appesantire il carico sulle ruote posteriori, e così la corriera ce l’aveva fatta. Altre volte Peppino lo chauffeur era stato costretto addirittura a far scendere quasi tutti per alleggerire il carico e superare così lo “scivolatoio”, che era il punto più duro della salita, proprio alla fine di Dentecane. Giunti al culmine del dosso, dove la pendenza si attenuava, nonno cercava ai bordi della strada qualche grossa pietra per collocarla dietro una ruota posteriore, come un rudimentale freno di sicurezza. Imbarcati poi i passeggeri, che intanto avevano percorso a piedi il tratto di salita più dura, la corriera ripartiva, innestando la prima ridotta, che era una marcia più lenta ma più potente della prima, mantenendola per più di un chilometro. Questi racconti si colorivano così di avventura, perché quel tremendo passo della Serra, che non conoscevo, eccitava la mia fantasia e mio nonno e Peppino lo chauffeur, molto amici, mi apparivano come gli eroi di un’impervia e rischiosa traversata, usciti da una delle mie prime romanzesche letture, ma più reali e perciò, certamente, più veri e sofferti. Come il viso di nonno, sul quale anche i miei occhi di fanciullo riuscivano a cogliere la stanchezza di una giornata, ma anche la gioia di raccontarmela, sorridendo nel vedermi curioso e divertito.

Anche nonna Peppina si alzava presto la mattina e verso le otto preparava la colazione, solitamente due uova a zabaglione con molto zucchero per i due figli più giovani, mentre mio padre preferiva succhiarsi un uovo crudo, bucato sopra e sotto. Partivano poi per il lavoro, mio padre per Ariano Irpino, con la Topolino nera che aveva comprato a Mirabella Eclano nel ‘48, zio Michele per la Pretura di Vitulano e zio Angelo per la scuola media, dov’era professore di lettere. Avvicinandosi l’ora del pranzo, mia madre, colta dall’ansia, si portava sulla panoramica via Limiti per guardare se spuntava sul lontano orizzonte qualche macchina. L’inizio del lungo rettifilo che conduce al paese dista più di due chilometri in linea d’aria, per cui lei non poteva avvistare altro che un puntino nero che si muoveva. Però a quel tempo il traffico era così scarso, anche per l’ora, che le probabilità che si trattasse della Topolino del marito erano così alte che lei, appena avvistato quel puntino nero, tornava subito a casa a passo sveltissimo e metteva senz’altro a cuocere la pasta. Nonna Peppina l’ansia non la dava a vedere, ma quando i figli aprivano il portone di casa li abbracciava e ringraziava Iddio che glieli aveva riportati, come lei diceva, “in salvamento”, quasi che il viaggio fosse sempre una rischiosissima avventura da cui era difficile tornare vivi.

Ancora più presto si alzava, una volta a settimana, per fare il pane. Per fortuna il forno si trovava nel vicolo che fiancheggia la casa e questa aveva una porta che si apriva proprio dirimpetto. Quel vicolo brulicava di donne di prima mattina, che di solito si contendevano la precedenza. Con le mani impegnate a reggere sulla testa la tavola carica di panelle e con il calore che si sviluppava in quel punto, la situazione non era tuttavia di quelle ideali per poter litigare a lungo. Quando però appariva evidente che ci provavano gusto e gli scambi verbali assumevano toni oltremodo vivaci, correvo ad affacciarmi all’ultima finestra, che dava proprio sull’area critica, per godermi il finale di quelle scaramucce. A parte un dialetto più fiorito di quello dei miei compagni di gioco, provavo interesse e divertimento nell'osservare l’abile tattica di occupazione di alcuni scalini di accesso alle case vicine, due da una parte e due dall’altra, su cui, appena liberati dalla tavola di turno, un’altra donna piazzava subito la sua, come se stessero giocando ai quattro cantoni e io fossi lo spettatore di una gara dal risultato incerto. Mi divertivano alla fine gli interventi decisi della fornaia, che, avvalendosi di una perentoria verbosità ed anche di qualche energico spintone, riusciva a fare da arbitro della partita, riportando la pace fra le litiganti ed assicurando alle loro famiglie, per una intera settimana, il buon pane quotidiano.                                                                  

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