RICORDI DELLA FANCIULLEZZA
(A casa dei nonni Alfredo e
Gennarino)
“Fatevi
animo, donna Carmelina, si era appena confessato quando si è sentito male. Ci
pensate che fortuna? Andrà di sicuro in Paradiso!”. Sfuggitole di bocca
questo augurio, la buona donna aiutò mia madre a prendere dell'aceto per accostarlo
insieme alle narici del nonno, sperando così di farlo riprendere dal gravissimo
attacco che gli aveva tolto la coscienza e la parola. Stava seduto al centro
della sua camera da letto, con il capo riverso sullo schienale della sedia di
paglia con cui l’avevano portato a casa due giovani, raccogliendolo sulle scale
della cattedrale, credo senza grande sforzo perché nonno Alfredo era piccolo di
statura, appena un metro e cinquanta. Boccheggiava un po’ più rumorosamente di
quando si appisolava dopo pranzo sulla panca della cucina, accanto al focolare,
con il cappello spesso calato sugli occhi per ripararli dalla luce solare che
penetrava in casa nel meriggio. Io mi fermavo talvolta ad osservare quel suo
modo di respirare nel sonno, con il fiato che gli usciva da un angolo delle
labbra, che si chiudeva ad ogni inspirazione per poi riaprirsi, con un ritmo
che sembrava scandito dal vecchio pendolo sul muro, che lui regolava in
continuazione, salendo sulla panca con le gambe malferme e dicendo ogni volta
che non era mai preciso.
Rimase così sulla sedia per
circa mezzora, in una inutile attesa del medico, fino a quando non lo
adagiarono nel suo letto matrimoniale, dal lato dove prima dormiva la moglie
Ersilia, morta qualche anno dopo la fine della guerra, ed in quella posizione rimase,
vegliato dai figli, mia madre e zio Marciano. Quella sera andai a letto un po’
prima del solito. Stentavo a prendere sonno. Era proprio vero, pensavo, che, dopo
la confessione e l'improvviso malore, non aveva potuto commettere peccati,
neppure di pensiero. E così durante la notte, secondo i buoni e sicuri auspici,
nonno Alfredo passò in Paradiso.
Alcuni anni prima dormivo
con lui nello stesso letto, fino a quando zio Michele non disse a mio padre che
un bambino non doveva respirare l’alito di un vecchio, e così passai a dormire nella
camera di mamma e papà, in un lettino collocato su una botola, dalla quale si
scendeva giù nel negozio del nonno per una ripida scala di legno e che da allora
non sarebbe stata più aperta, mentre prima se ne faceva uso per andarvi a
prendere vivande ed altro. A tanto provvedeva per lo più zia Adelina, che
qualche volta spuntava fuori all’improvviso da quella botola, aiutandosi con
una mano per sollevarne la copertura e reggendo nell’altra un uovo, mentre
diceva, già prima di giungere all’ultimo scalino, che la gallinella lo aveva
fatto la mattina apposta per me, sperando così di vincere la mia ostinata
inappetenza. Anche lei sarebbe volata in Paradiso durante la notte, che avevo
appena quattro anni e la guerra non era ancora finita. Teresina era venuta di
prima mattina nella stanzetta in fondo alla casa, dove allora mi avevano messo
a dormire in una vecchia culla, e mi aveva svegliato annunciandomi a voce alta,
quasi come se mi stesse dando una bella notizia, che era morta zia Adelina,
portandomi poi in braccio, ancora assonnato, accanto al letto dov’ella giaceva
immobile, tutta vestita di nero, con sul petto le mani congiunte sopra una
piccola croce bianca. Era stato quello il mio primo confronto con un’immagine
così irreale che fin da allora, credo, cominciai a non capire nulla della
morte.
La camera da letto del
nonno, la più grande e calda della casa, aveva una finestra a levante ed un
balconcino quasi alla romana a sud che sporgeva su piazza Marconi, in verità
più trivio che piazza, dove riusciva ad arrivare il postale come allora si
chiamava il pullman di linea per Avellino, di colore blu, che proprio lì
invertiva la marcia, andando in su per pochi metri fino a sfiorare di qualche
centimetro il muro della caserma dei
carabinieri con il lungo muso scoperchiabile, dove sotto c’era il motore,
indietreggiando nella via che porta ai Limiti, e poi girando per la discesa di
via Duomo da cui era salito, dopo essersi fermato nel piccolo slargo a destra
davanti al bar, per far scendere i passeggeri e prima di loro il fattorino, che
schizzava fuori con il sacco della posta ed andava di corsa a consegnarla in
piazza Municipio. Dalla postazione privilegiata del balconcino non mi perdevo
nessuna fase di quella lenta manovra, perché l’arrivo del pullman era un
avvenimento importante della giornata, in quegli anni in cui per le strade del
paese passavano solo due macchine, una dell’avvocato e l’altra dell’autista di
noleggio, quattro volte al giorno, un viaggio di andata e uno di ritorno
ciascuno. Se per caso ne passava qualche altra, la gente si affacciava ai
balconi, appena sentiva il rombo di un motore che saliva, per curiosare se
erano arrivati forestieri, o, caso molto più raro, se qualche altro paesano
s’era comprata la macchina.
Quella stanza nel giro di
pochi mesi divenne più mia che sua, perché nonno durante il giorno vi entrava
poche volte, per conservare in un album chiuso da un elastico di color marrone
l’incasso della giornata, avendo cura di riporlo sul tetto dell’armadio dopo
essersi guardato intorno con circospezione, o per orinare in un vaso da notte
che prelevava dal comodino accanto al letto. Una volta, mentre ero intento a
giocare sul pavimento ad un puzzle di dadi, lo vidi saggiare con la lingua la
sua pipì nel vasetto. Corsi a dirlo a mamma, ridendo, ma lei mi spiegò che in
quel modo suo padre si controllava se aveva zucchero nel sangue, per stare bene
in salute. Prima di pranzo era solito soffermarsi dietro al balconcino a
prendere il sole e qualche volta chiedeva consigli a mio padre, che si sedeva
di fronte a lui su una seggiola bassa, per metterlo a suo agio. Dal viso di
nonno Alfredo spesso traspariva che le risposte ai suoi quesiti non gli erano
state favorevoli, anche perché mio padre, che lo chiamava rispettosamente
“papà”, finiva per esortarlo ad aver pazienza con i contadini, perché più
tutelati dalle leggi del dopoguerra. Capivo che quei consigli riguardavano il
terreno della contrada Pannizza, con la casa colonica e l’alveare, dove
talvolta d’estate scendevamo tutta la famiglia, un’ora di strada a piedi, e da
cui arrivavano le provviste a dorso di mulo, portate dal colono Palummo, che
con nonno non andava molto d’accordo. Nonno Alfredo, come proprietario terriero
era un irriducibile, ma anche Palummo
era un tipo fatto a suo modo, che non sorrideva mai. Lo si sentiva borbottare,
e qualche volta pure bestemmiare, appena legato il mulo all’anello di pietra per
scaricare la soma nel “magazzeo”, e non c’era volta che non si lamentasse della
“malannata”. Quando poi scappava via un “cupo” d’api dall'alveare, giungeva in
casa quando meno te l’aspettavi e creava tanta agitazione sol che appariva
davanti alla porta, tutto trafelato e paonazzo in viso, dando a vedere ch'era
seccato dall’incombenza di essere salito appositamente in paese. Allora zio
Marciano, indossata una tuta che sembrava uno scafandro, scendeva con lui in
campagna con la motocicletta Ariel di colore rosso per recuperare senza indugio
il prezioso sciame.
Non so dire se nonno mi
volesse veramente bene. Una volta, mentre stavo giocando nella sua camera, aveva
aperto d'improvviso la porta e mi aveva guardato fisso. Tenendo in mano uno
scatolo di pennini “a cavallotto”, con tono severo mi aveva chiesto se ne
avessi preso uno uguale nel negozio. Era poi subito uscito sbattendo la porta,
mentre io mi ero girato a guardare tutto mortificato i visi dei miei compagni,
ai quali avevo regalato qualcuno di quei pennini, che avevano il pregio di
raccogliere più inchiostro dal calamaio. Alzando gli occhi fino al tetto
dell’armadio, pensai alle migliaia di pennini “a cavallotto” che avrei potuto
comprare con i soldi grossi, da cinquecento e da mille lire, che lui custodiva
tanto gelosamente in quell’album dall’elastico color marrone.
Per un’altra monelleria
me l’ero cavata con un rimprovero più blando. Tra i giochi preferiti all’aria
aperta, ce n’era uno in cui si usavano come bocce delle grosse pietre piatte, o
dei ferri da stiro sottratti in casa e privati del manico con la complicità del
figlio di qualche fabbro. Le poste, costituite da bottoni e da formelle di
ottone, che valevano il doppio dei bottoni, si deponevano in una buca scavata
nel terreno, solitamente nella piazzuola dietro al Municipio, prima dell’inizio
di via Limiti. Chi riusciva con un tiro a scacciare il “masto”, ch'era uno spesso mattone triangolare posto in verticale a
riparo della buca, ed a piazzare la sua boccia vicino ad essa, catturava
l’intera posta. Quando finivo in perdita, smettevo di giocare per un poco e,
giunto a casa, mi calavo quasi interamente in una vecchia cassa con bordure in
ottone dove c’erano i suoi pantaloni, pronto a richiudermi dentro se entrava
qualcuno. Munito di forbici e tenendo un po’ sollevato il coperchio per vederci
meglio ed anche per respirare il meno possibile l’aria che emanava da quella
sorta di guardaroba, facevo provvista delle formelle che v'erano cucite. Un
pantalone per volta e correvo di nuovo a giocare. Una mattina che vidi nonno in
mutande rovistare con una mano in quella cassa, mentre nell’altra reggeva un
pantalone e molti altri li aveva già ammucchiati alla rinfusa su una sedia,
tentai di scappare subito su via Vasoli, ma non finii di percorrere il lungo
corridoio della casa che lo sentii gridare: “Carmelinaaa!!”. Non avendo potuto abbottonare neppure un pantalone,
chiamava sua figlia in aiuto e lo faceva ad alta voce per far capire a distanza
ch’era arrabbiato con me.
Con l’arrivo del Natale
diventava più affettuoso. La sera della vigilia mi chiamava in negozio per
celebrare un rituale tutto suo, quello della strenna. Chiusi i battenti ed
aperto lentamente un tiretto del bancone sotto il mio sguardo di attesa, vi
prendeva un mazzetto bello doppio di biglietti di piccolo taglio di colore
verde, conservati nuovi di zecca per quella occasione. Poi, ancor più
lentamente li contava, per godere più a lungo del mio viso che gli sorrideva contento.
Mamma diceva che con quel “negoziuccio” e le modeste rendite della Pannizza suo
padre era riuscito a tirare avanti un’intera famiglia, caduta in ristrettezze
economiche prima dello scoppio della guerra, tanto che era stata venduta
all’asta la bella casa in piazza Municipio che ha davanti un leone di pietra,
che lei avrebbe certamente ereditato, se a una sua zia che non aveva figli non
fosse piaciuta una vita di lussi e di dispendi, di cui si favoleggiava persino
che facesse il bagno soltanto nel latte d’asina. Perciò era attentissimo alle
sue poche risorse economiche, non solo litigando spesso col colono ma vigilando
anche sulle provviste ch’erano in casa, come le buone salsicce appese al
soffitto della cucina. Erano state fatte con il maiale allevato nel vano sotto
l’ingresso, con il sacrificio olfattivo di chi entrando era investito dai non
piacevoli effluvi che la corrente d’aria gli sospingeva sotto il naso. Per
questo, durante il Carnevale non faceva più entrare in casa gruppi di ragazzi
fin da quando ne aveva sorpreso uno che durante la scenetta mascherata aveva
allungato la mano ad un capo di salsicce e tirava con forza per farlo venir
giù. E che fosse molto guardingo nell’amministrarsi se ne accorgeva non solo
Palummo ogni volta che veniva a scaricare il grano del fitto nel “magazzeo”, ma
anche gli avventori del suo negozio. Poiché durante la guerra e negli anni che
seguirono la lira cominciò a svalutarsi rapidamente, nonno provvedeva
naturalmente ad adeguare i prezzi dei prodotti che vendeva. Non so dire in che
misura lo facesse, ma quando la gente, quasi protestando, gli chiedeva
spiegazioni degli aumenti che praticava, lui usava rispondere con una frase che
pareva una battuta di spirito (“Mo’? ‘E
veré appriesso!!”), ma serviva anche a scoraggiare le proteste del giorno
successivo. E in paese qualcuno ancora oggi ricorda quella espressione
lungimirante di “don Alfredo Testa”, quando si parla di situazioni che vanno
sempre più peggiorando.
La casa dei nonni paterni
stava sulla stessa via Vasoli, un po’ più avanti scendendo. Vi trascorrevo
buona parte della giornata, anche perché attratto dalle caramelle che mi regalava
zia Pasqualina, padrona del bar di fronte. Proprio davanti a quel bar, avevo
poco più di tre anni, assistetti una volta al passaggio fragoroso di aerei che
sfiorarono i tetti delle case, volando verso Sud, mentre nonna Peppina gridava
terrorizzata con le mani nei capelli, rientrando di corsa in casa pallida dalla
paura ed imprecando contro quei “fuochisti”, come usava chiamare gli americani,
perché bombardavano senza criterio. Invece, quando sul far della sera udiva il
rombo continuo di motori di aeroplani, alti nel cielo, quasi sorridendo diceva
che erano arrivati i “mosconi”, come chiamava gli inglesi, che giravano in
ricognizione sulle due valli che circondano il nostro monte.
Un giorno, sparsasi la
voce che era caduto un aereo presso il fiume Ufita, molti si precipitarono nella
contrada Piani, e qualcuno ritornò contento di avervi trovato a bordo un
binocolo, una macchina fotografica o altri strani oggetti, fra cui un piccolo
specchietto retrovisore, che finì nelle mie mani e usai per giocare a nascondino.
Qualche volta delle moto con sidecar, montate da soldati con caschi di metallo
scuro, salivano fino in piazza Municipio per poi tornare giù nella piana,
seguiti dallo sguardo di noi ragazzini che subito ci portavamo sulla panoramica
via Limiti, curiosi e divertiti nell'osservarle mentre abbordavano i tornanti a
gomito della discesa. Oltre ai motociclisti col sidecar, una volta alcuni
soldati tedeschi erano arrivati in paese sul far della sera. Fermatisi alla
fontana del borgo san Rocco per rifornire di acqua l’automezzo di guerra e
trovato il rubinetto a secco, avevano cominciato a minacciare rappresaglie,
avendo sospettato un boicottaggio. Avevo sentito all'indomani un uomo anziano
raccontare, ancora spaventato, che il loro comandante si era diretto a passo di
marcia, salendo per via Duomo, verso la caserma dei carabinieri, dicendo più
volte a voce alta: “kaputt!”. Fortuna era stata che un paesano, già emigrato in
Germania, che conosceva un po’ il tedesco, era riuscito a far capire a quel
comandante indispettito che l’acqua era stata razionata dall'inizio della guerra.
Passato nella popolazione quel momento di terrore, era seguita la paura dei
bombardamenti, poiché un altro gruppetto armato aveva collocato alcuni pezzi di
artiglieria sulla parte più alta di via Limiti, per organizzare colà una
difesa. E' noto ancor oggi col nome Digath quel bel poggio erboso che è il più
vicino all’abitato e che da ragazzi frequentavamo per fumare di nascosto dei
genitori o per appuntamenti con le fidanzatine. Per fortuna era presto giunto
un ordine di smobilitazione.
Sempre più di frequente
si vedevano passare per le strade del paese piccoli gruppi di soldati e quasi
ogni sera li vedevo scendere per la ripida via Selce, che barcollavano come
ubriachi. Sentivo dire che erano polacchi. Con sorpresa un pomeriggio me li
ritrovai nell’ingresso della casa dei nonni, dove un bancone, una panchetta ed
un vecchio tavolo arredavano una improvvisata osteria. Mangiavano qualcosa
preparata loro dalla mia bisnonna Lucia, che serviva per i più poveri e per
qualcuno di passaggio i fusilli al ragù, con un buon bicchiere di vino della
contrada Amendola. Sempre lo stesso piatto ma abbondante, che era poi una sua
specialità, perché si alzava la mattina presto per tirare per ore quel sugo. E
qualcuno del paese, più affamato dei soldati polacchi, si fermava nel vicolo
dirimpetto, a fianco al bar di zia Pasqualina, rimanendo in attesa di un invito
ad entrare, come lei usava fare con un breve cenno, poggiando dorso e pollice
della mano sinistra sulla fronte ed agitando le altre quattro dita, come se non
volesse far notare al resto della famiglia l’ingresso di estranei in casa. Non
biascicava solo preghiere nella sua stanza al primo piano, tappezzata di
figurine di santi, mamma Lucia, ma donava quel poco che poteva con grande
carità cristiana.
La guerra ci aveva
sfiorati, benché il nostro fosse un piccolo borgo isolato dal resto del mondo,
creando un’atmosfera che non lasciava tranquilli, come avevo capito dalle grida
di terrore di nonna Peppina. Soltanto in un assolato pomeriggio di primavera
avrei avvertito, a mo’ di sensazione, che essa era davvero finita. Ero appena
uscito dalla casa di nonno Alfredo, intorno alle cinque, e giunto all’inizio
dei Vasoli mi guardavo intorno per cercare qualche compagno di giochi, ma non
c’era nessuno in giro. Solo sul piccolo davanzale della finestra bassa di
palazzo Calò, rannicchiato in un angolo d’ombra, stava seduto zio Aniello, che
aspirava avidamente meno della metà di una sigaretta senza filtro. Appena mi
vide, si girò verso di me ed io gli sorrisi come sempre, ma lui si fece
improvvisamente serio e con uno sguardo strano,
tra l’incredulità e
la meraviglia, disse
con un tono cupo della voce, come
se non parlasse a me: “Hann’ accis’a
Mussolini!”.
Circa
sette anni dopo, in un giorno delle feste di Natale, nonno Alfredo venne a
pranzo a casa di nonno Gennarino. Si scambiarono l’augurio di rivedersi nella prossima
festività, ma l’anno dopo morirono tutti e due. Il vecchio tavolo, che
aprendosi a libro diventava ampio e quadrato, era stato imbandito nella camera
grande al primo piano, perché nonno non poteva affaticarsi a scendere in cucina
e risalire. Mesi prima gli era venuto un fortissimo dolore al petto mentre
spaccava la legna per il camino e si era così improvvisamente ammalato di
cuore. Portato a tavola, caldo e fumante un grande vassoio di maccheroni al
sugo, nonna riempì col mestolo tutti i piatti, ma non ne avevamo mangiato
neppure la metà che nonno Gennarino si sentì male. Me ne accorsi perché zia
Lucia cominciò a chiamarlo a gran voce, ma lui non rispondeva, aveva gli occhi
fissi nel vuoto e il viso pallido e sudato. Quando lo vidi immobile sul letto
dove l'avevano adagiato, preso da una gran paura che morisse, mi precipitai a
piano terra per il ripido scalone di legno e raggiunsi l’ingresso, dove, dalla
finestra sul vicolo, si poteva vedere, sui tetti della casa vicina un pezzetto
di cielo, dove sapevo che c’era Dio. Pregai con tutto l’animo che lo facesse
vivere, lo scongiurai piangendo, e giunsi persino a mordermi le nocche delle
dita, come se offrissi questo mio martirio alla salute di nonno. Mamma scese giù poco dopo per
rassicurarmi, ma nessuno completò il pranzo.
Fu l’anno dopo, in
autunno, che ci trasferimmo ad Ariano Irpino, come mamma mi aveva preannunciato
proprio quel giorno, appena discesa dal piano di sopra. Era serena, anzi
contenta, nel darmi quella notizia, mentre in me allo spavento appena provato
si aggiunse il dispiacere di dover lasciare Frigento, i compagni di giochi, il
viso di una fanciulla che mi tornava nel pensiero. L’Istituto Schettino di
Frigento era una scuola, aveva detto papà, che sfornava solo maestri
elementari, e non mi avrebbe dato delle buone basi per il liceo classico.
Sette anni di scuola
insieme ai compagni di scuola e di gioco non erano stati pochi. Li ricordavo
tutti, fin dalla prima elementare. Proprio nonno Gennarino aveva voluto
accompagnarmi il primo giorno di scuola, tenendomi per mano, come per essere di
buon augurio, mentre io lo seguivo di mezzo passo indietro perché faticavo a
reggere la bella cartella che poco prima mi aveva regalato. Me l’aveva fatta
trovare a casa sua come un dono della Befana, sospesa al grosso gancio
sovrastante il caminetto, che serviva ad appendervi il paiolo per cuocere la pasta.
Eravamo da qualche minuto davanti all'edificio della scuola elementare di Piazza
Municipio che si affacciò sul balcone la bidella, con una vestaglia verdina
stinta dal tempo, e incominciò a girare la manovella di una sirena, mentre
dalla piazza noi bambini la guardavamo col naso per aria, divertiti da quel
richiamo sonoro che scandiva il nostro ingresso a scuola. Qualche anno dopo,
divenuti più grandicelli, ci incuriosimmo a guardare le sue gambe e, quando il
vento che spirava da via Limiti sollevava appena la sua vestaglia, ridevamo e
ci sussurravamo maliziosamente all’orecchio. E lei, vedendoci sempre entrare
con allegria, ci accoglieva sulle scale col sorriso, compiaciuta del nostro
amore per la scuola, e spesso esclamava: “Ma quanto sono bravi questi bambini!”
La maestra Filomena
Pepino era molto severa. Per farsi ascoltare con attenzione, ci sbarrava in
faccia i suoi grandi occhi neri, con uno sguardo penetrante che incuteva
timore, ma quello che spiegava non lo scordavo più. Come non ho più scordato
una sua dura lezione di vita. Un giorno io e suo nipote Roberto tentavamo di
far volare un piccolo aeroplano dalla collinetta di via Limiti. Bisognava
lanciarlo appena liberata l’elica da un doppio elastico che la bloccava, ma
appresso al lancio rotolai anch’io giù, fino a fermarmi con la faccia tra un
ciuffo di ortiche. Me la cavai solo con un viso tutto rosso. Corso a casa di
nonno Gennarino per sciacquarmi con acqua fresca, ebbi la sfortuna di trovarvi
mamma e la sua richiesta di spiegazioni. Timidamente dissi che mi aveva spinto
Roberto, ma all’indomani la signorina Pepino venne di persona nel pomeriggio a
rimproverarmi di quell’ingiusta accusa, e, davanti a quel suo sguardo, io e
mamma restammo ammutoliti perché avevamo sbagliato tutti e due. La maggiore
severità la usava con Tonino e Benedetto, i più monelli fra i miei compagni,
poi persi per strada, che reagivano persino con calci negli stinchi ai suoi
sonori ceffoni. Qualche mattina, dopo la rituale recita del Pater Noster e dell’Ave Maria, i due brindavano con i calamai, e, imitando
l’eucarestia, recitavano insieme “Questo
è il calice del mio sangue”, e poi bevevano in un fiato tutto l’inchiostro,
mentre la scolaresca scoppiava a ridere di quello scherzo un po’ blasfemo,
senza preoccuparsi per niente che potessero avere mal di stomaco. Dopo un duro,
manesco rimprovero, la maestra Pepino chiamava subito la bidella per far
rifondere l’inchiostro ed evitare scuse al momento del dettato. E quando lei
entrava, il tempo sembrava fermarsi fino a quando non aveva terminato il lento
riempimento dei calamai, sotto i nostri attentissimi sguardi, con una panciuta
e pesante bottiglia che lei reggeva con entrambe le mani.
La prima pagella era piena
di dieci, e alla fine dell'anno mi sentivo già il più bravo della classe. Anche
nonna Peppina era stata la prima della classe, ma non aveva potuto continuare
gli studi perché la sua famiglia era povera. Mi raccontava spesso di papà, che
faceva i compiti in piedi, sul comodino della camera da letto, dove teneva
quaderno, penna, calamaio, gomma, e libro sussidiario. Per non farlo studiare
in una posizione così scomoda, gli aveva comprato un’antica scrivania
dall’agente delle tasse. Era stato un grosso sacrificio sborsare quindici lire
agli inizi degli anni ’20, ma aveva reso felice il suo Nicola, premiandone la
bravura. In uno di quegli anni nonno Gennarino era ritornato dall’America,
dov’era emigrato circa un decennio prima, ed erano poi nati zia Lucia e gli zii
Angelo e Michele, ch’erano gemelli ma non si somigliavano per niente.
Nonno faceva il fattorino
con la SITA e la mattina si alzava prestissimo perché la corriera per Avellino impiegava
quasi due ore per attraversare i paesi, consegnare la posta e far salire i
passeggeri, passando per la lunga e ripida salita della Serra, che iniziava a Venticano
e finiva a Pratola Serra. A me piaceva molto ascoltare nonno che raccontava
com’era andata quella scalata quando c’erano state delle difficoltà. Qualche
volta, per il pericolo di slittamento per neve o pioggia, avevano fatto
spostare in fondo tutte le persone per appesantire il carico sulle ruote
posteriori, e così la corriera ce l’aveva fatta. Altre volte Peppino lo
chauffeur era stato costretto addirittura a far scendere quasi tutti per
alleggerire il carico e superare così lo “scivolatoio”, che era il punto più
duro della salita, proprio alla fine di Dentecane. Giunti al culmine del dosso,
dove la pendenza si attenuava, nonno cercava ai bordi della strada qualche
grossa pietra per collocarla dietro una ruota posteriore, come un rudimentale
freno di sicurezza. Imbarcati poi i passeggeri, che intanto avevano percorso a
piedi il tratto di salita più dura, la corriera ripartiva, innestando la prima
ridotta, che era una marcia più lenta ma più potente della prima, mantenendola per
più di un chilometro. Questi racconti si colorivano così di avventura, perché
quel tremendo passo della Serra, che non conoscevo, eccitava la mia fantasia e
mio nonno e Peppino lo chauffeur, molto amici, mi apparivano come gli eroi di
un’impervia e rischiosa traversata, usciti da una delle mie prime romanzesche
letture, ma più reali e perciò, certamente, più veri e sofferti. Come il viso
di nonno, sul quale anche i miei occhi di fanciullo riuscivano a cogliere la
stanchezza di una giornata, ma anche la gioia di raccontarmela, sorridendo nel
vedermi curioso e divertito.
Anche nonna Peppina si
alzava presto la mattina e verso le otto preparava la colazione, solitamente
due uova a zabaglione con molto zucchero per i due figli più giovani, mentre
mio padre preferiva succhiarsi un uovo crudo, bucato sopra e sotto. Partivano
poi per il lavoro, mio padre per Ariano Irpino, con la Topolino nera che aveva
comprato a Mirabella Eclano nel ‘48, zio Michele per la Pretura di Vitulano e
zio Angelo per la scuola media, dov’era professore di lettere. Avvicinandosi
l’ora del pranzo, mia madre, colta dall’ansia, si portava sulla panoramica via
Limiti per guardare se spuntava sul lontano orizzonte qualche macchina.
L’inizio del lungo rettifilo che conduce al paese dista più di due chilometri
in linea d’aria, per cui lei non poteva avvistare altro che un puntino nero che
si muoveva. Però a quel tempo il traffico era così scarso, anche per l’ora, che
le probabilità che si trattasse della Topolino del marito erano così alte che lei,
appena avvistato quel puntino nero, tornava subito a casa a passo sveltissimo e
metteva senz’altro a cuocere la pasta. Nonna Peppina l’ansia non la dava a
vedere, ma quando i figli aprivano il portone di casa li abbracciava e
ringraziava Iddio che glieli aveva riportati, come lei diceva, “in salvamento”, quasi che il viaggio
fosse sempre una rischiosissima avventura da cui era difficile tornare vivi.
Ancora più presto si
alzava, una volta a settimana, per fare il pane. Per fortuna il forno si
trovava nel vicolo che fiancheggia la casa e questa aveva una porta che si
apriva proprio dirimpetto. Quel vicolo brulicava di donne di prima mattina, che
di solito si contendevano la precedenza. Con le mani impegnate a reggere sulla
testa la tavola carica di panelle e con il calore che si sviluppava in quel
punto, la situazione non era tuttavia di quelle ideali per poter litigare a
lungo. Quando però appariva evidente che ci provavano gusto e gli scambi
verbali assumevano toni oltremodo vivaci, correvo ad affacciarmi all’ultima
finestra, che dava proprio sull’area critica, per godermi il finale di quelle
scaramucce. A parte un dialetto più fiorito di quello dei miei compagni di
gioco, provavo interesse e divertimento nell'osservare l’abile tattica di
occupazione di alcuni scalini di accesso alle case vicine, due da una parte e
due dall’altra, su cui, appena liberati dalla tavola di turno, un’altra donna
piazzava subito la sua, come se stessero giocando ai quattro cantoni e io fossi
lo spettatore di una gara dal risultato incerto. Mi divertivano alla fine gli
interventi decisi della fornaia, che, avvalendosi di una perentoria verbosità
ed anche di qualche energico spintone, riusciva a fare da arbitro della
partita, riportando la pace fra le litiganti ed assicurando alle loro famiglie,
per una intera settimana, il buon pane quotidiano.
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