Leopardi e Montale
Giacomo Leopardi e Eugenio
Montale sono poeti entrambi pessimisti, poiché giungono ad una visione negativa
del mondo e dell’esistenza umana.
Leopardi giunge
all’affermazione del dolore universale e approda quindi al nichilismo, senza
alcuna illusione. In particolare egli fa amare le illusioni nel momento stesso
in cui le distrugge, non consentendo minimamente di coltivare una speranza nel
futuro. In lui c’è una totale chiusura, come nel “Canto di un pastore”
che è lo snodo, anzi la “Summa” di tutta la sua concezione della condizione
umana: “a me la vita è male”; ed
“è funesto a chi nasce il dì natale”, dove il poeta universalizza
quella che è la tragedia dell’uomo per il solo fatto di esser nato: “Nasce
l’uomo a fatica/ ed è rischio di morte il nascimento”.
In
Montale invece non è così. La sua opera poetica presenta diverse tematiche,
taluna delle quali si ritrova anche in Leopardi, come vedremo, soprattutto con
riguardo alle figure di donne che compaiono nelle loro poesie. Vero è che anche
Eugenio Montale si chiude talvolta in un totale pessimismo, ma in molte delle
sue liriche apre un varco all’illusione e poi lo chiude, oppure, anche se più
raramente, apre, chiude e riapre di nuovo il cuore alla speranza, come ne “I
limoni”, laddove i repentini cambiamenti dello stato d’animo del poeta
sembrano altrettanti giochi di luci ed ombre, improvvisi ed inaspettati. Tali
tematiche, che costituiscono il tessuto connettivo di “Ossi di seppia”, si
sviluppano anche se con accentuazioni più mature e filosofiche, nelle
successive raccolte (“La Bufera”, “Le Occasioni”, “Satura
“).
Particolarmente
bello e toccante è un ricorrente tema di alterità verso le figure di donna,
come si accennava, cioè nei versi dove lui manifesta una volontà di salvataggio
degli altri dal male di vivere, dall’amaro destino della vita: “Cerca una
maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ Va, per
te l’ho pregato…” e, più intensamente, in “Casa sul mare”, nella
quale egli augura con accorata passione ad una donna (da identificarsi in Paola
Nicoli) di non svanire, di scampare a tale duro destino, già accennato nella
poesia “Il girasole”: “Svanire è dunque la ventura delle venture”.
Si
può tentare un paragone che potrebbe sembrare strano circa il rapporto con le
donne che i due poeti hanno conosciuto e che, secondo la diversa sensibilità,
hanno anche amato: Leopardi è una vita strozzata, soffocata dal pessimismo e
dal dolore, anche se vi sono gli squarci quanto meno di un desiderio di
sopravvivenza per lasciare all’umanità il proprio dolente messaggio, e sente
vicine a sé le donne morte, come Silvia, Nerina, e la donna del “Il sogno”.
Forse le sole eccezioni sono “Il primo amore”, dove pare si tratti di
Geltrude Cassi, una sua bellissima cugina, “Il pensiero dominante e “Consalvo”,
dove Elvira, la donna amata, pare si identifichi in Fanny Targioni Tozzetti,
fiorentina, di cui Leopardi s'invaghì follemente, coltivando l’illusione (“Il
pensiero dominante”) di una passione corrisposta, chiusasi con una cocente
delusione (da cui è ispirata “Aspasia”).
Donne
defunte sono Nerina ne “Le ricordanze“, che taluno assimila a Silvia,
anche lei morta giovanissima (“e con la mano/ la fredda morte ed una tomba
ignuda/ mostravi di lontano”). Come per Silvia, anche per Nerina si avverte
la forte vicinanza affettiva del poeta: “o Nerina, a radunanze, a feste tu
non ti acconci più, tu più non movi.” ; “Nerina mia, per te non torna primavera giammai, non torna amore”. Ed
entrambe le figure pare si identifichino in Teresa Fattorini, figlia del
cocchiere di casa Leopardi. Invece la donna de
“Il sogno”, che resta non identificata, appare la più vicina,
sentimentalmente, al poeta, perché dalla poesia emerge un legame più
significativo, dato che lui può consentirsi di farle una domanda alquanto
delicata: ”…dimmi: d’amore favilla alcuna …verso il misero amante il cor
t’assalse mentre vivesti?, e lei risponde chiaramente che non amore ma
pietà ha avuto di lui, soggiungendo, sempre nel sogno, “Non far querela di
questa infelicissima fanciulla”, non lamentarti di me, non mi rimproverare
se non ti ho donato l’amore che chiedevi, perché io sono stata troppo infelice
per concepire un tal sentimento, il che fa comprendere che fra i due c’era
stato un qualche legame un poco più forte, al confronto dell’invaghimento
per Silvia e Nerina, che rimangono
perciò un pochino più distanti dalla vita interiore del poeta.
Se
viene in evidenza questo particolare di una vita strozzata come quella di
Leopardi, nelle cui poesie compaiono spesso figure di donne defunte di cui si è
innamorato, quella di Montale non è invece una vita strozzata ma nelle sue
poesie compaiono donne dalla vita strozzata. Sono tutte vite infelici o quanto
meno governate da un travaglio interiore: quelle di Irma de Brandeis, cui
sembra dedicata la poesia “Dora Markus” (“Le tue parole iridavano
come le scaglie/della triglia moribonda./ La tua irrequietudine mi fa
pensare/ agli uccelli di passo che urtano ai fari/ nelle sere tempestose: è una
tempesta anche la tua dolcezza,/ turbina e non appare/ e i suoi riposi sono
anche più rari”), di Anna
degli Uberti, che, celata sotto il nome di Arletta, è la donna de “La casa
dei doganieri” (“Tu non ricordi la casa dei doganieri/ sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera/ in cui v’
entrò lo sciame dei tuoi pensieri/ e vi sostò irrequieto...”, trasfigurata
in uno sciame di pensieri irrequieti, anche lei tormentata dal male di vivere,
di Paola Nicoli, a cui è dedicata “Casa sul mare“, di cui il poeta ha
detto che è stata la sua più grande lirica, fino ad affermare addirittura che
con essa aveva smosso l’immobilismo della lirica europea. Qui si ritrova il
motivo dell’invito a salvarsi, un’accorata esortazione alla donna, pensosa del
liquefarsi della vita ( “Tu chiedi se così tutto vanisce/ in questa
poca nebbia di memorie;/… Vorrei dirti che no, che ti s’appressa l’ora che
passerai di là dal tempo;/ forse solo chi vuole s’infinita,/ e questo tu
potrai, forse, non io…), esprimendole con passione (“ti dono anche
l’avara mia speranza”) il desiderio di segnarle “codesta via di fuga" dal comune destino di svanire
(“Penso che per i più non sia salvezza”). E’ la Poesia, è l’Arte che
eterna. Montale non è un credente ed allora vien da pensare che lui le faccia
l’augurio di eternarsi nel ricordo, forse perché celebrata nelle sue poesie. Si
avverte qualcosa del genere e affiora anche in questa poesia il profondo
pessimismo del poeta, che non ha speranza di salvezza per sé, ("...e questo tu potrai, chissà, non io.. penso
che per i più non sia salvezza”).
Chiusura
desolata anche in “Meriggiare pallido e assorto”, dove, dopo un inizio
senza aperture alla speranza, il poeta finisce per “sentire con triste
meraviglia/ com’è tutta la vita e il suo
travaglio/ in questo seguitare una
muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di
bottiglia”. Qui però non c’è il tema del dolore o dell’amore, ma il
problema della conoscenza, del mistero della vita e dell’aldilà, negativamente
risolto: l’uomo Montale e noi tutti non possiamo conoscere la verità, perché
essa sta al di là di un muro insuperabile, coperto da cocci di bottiglia, e
tutta la vita è un camminare lungo tale muraglia, in un sole abbagliante che
ostacola la ricerca della verità.
Le
aperture montaliane più belle sono certamente nella giovanile poesia “I
limoni”. Scendendo per le viuzze che seguono i ciglioni e discendono tra i
ciuffi delle canne, lui entra in un orto, tra gli alberi di limoni, e qui,
ritrovatosi nel silenzio della campagna, s’interroga sul senso stesso della
vita, dell’esistenza, del mondo che lo circonda. E’ in quel silenzio che lui ha
la speranza di “scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo,
l’anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel
mezzo di una verità”. Leopardi ce l’ha già la verità. E’ una verità
nichilista, ma la possiede, ed ecco perché Leopardi si chiude subito ad ogni
illusione perché sa già che la vita è male, sa che il mondo è negativo. Montale
no, Montale lo spiraglio prima o dopo lo apre, anche se finisce per chiuderlo,
dopo un momento di speranza: “Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo/
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra/ soltanto a pezzi, in alto, tra
le cimase./ La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta/ il tedio
dell’inverno sulle case,/ la luce si fa avara -
amara l’anima”. E così chiude il varco, poi lo riapre: “Quando un
giorno da un malchiuso portone/ tra gli alberi di una corte/ ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il
gelo del cuore si sfa,/ e in petto ci scrosciano/ le loro canzoni/ le trombe d’oro della solarità”. Ecco
finalmente: il Sole! Se avessimo voluto oggi commentare Montale con immagini
pittoriche e con la Musica, non avremmo dovuto far ascoltare i notturni di
Chopin, né raffigurare la luna, melodie ed immagini che riportano a Leopardi,
ma far sentire ad esempio qualche brano di Vivaldi o mostrare i girasoli di Van
Gogh, perché indubbiamente Montale appartiene più al mondo di Osiride,
piuttosto che a quello, certamente più romantico ma più cupo, di Iside.
Si
pensi a “Gloria del disteso mezzogiorno, quand’ombra non rendono gli alberi” oppure
a “Il sole, in alto, - e un secco
greto./ Il mio giorno non è dunque passato:/ l’ora più bella è di là dal
muretto/ che rinchiude in un occaso scialbato”, dove è coltivata una
speranza, un’attesa, perché “in attendere è gioia più compita”. Ma non è
l’attesa della felicità perché lui teme di toccare la felicità, essendo certo
che essa non dura molto e improvvisamente sfugge di mano per far luogo ad una
più bruciante delusione della vita. E’ vero che tutti noi cerchiamo la
felicità, ma Montale ammonisce: “Felicità raggiunta, si cammina/ per te su
fil di lama./ Agli occhi sei barlume che vacilla,/ al piede, teso ghiaccio che s’incrina;/ e dunque non ti
tocchi chi più t’ama. E’ un
ammonimento severo: insomma noi non possiamo aspirare alla felicità perché presto
svanisce, perché è come un camminare su un filo di lama, è come un barlume che
vacilla davanti agli occhi, è come un teso ghiaccio che s’incrina sotto il
piede. “Se giungi sulle anime invase/ di tristezza e le schiari, il tuo
mattino/ è dolce e turbatore come i nidi delle cimase”. La mattina chi
abita in città non sente più gli uccellini, ma chi abita in campagna è
svegliato dai loro cinguettii sotto le grondaie, canto che è dolce e turbatore
come la felicità che arriva, che sta per arrivare..un innamoramento!?!
Anch’esso è dolce e turbatore perché sempre ci si chiede di lui o di lei: mi
amerà?, è la mia “anima gemella” o no? E’ dolce e turbatore come i nidi delle
cimase, “ma nulla paga il pianto del bambino, cui fugge il pallone tra le case”. Cioè, se ci sono degli
esseri – c’è qui da pensare anche alla evangelica visione innocente e felice
del mondo da parte dei fanciulli - che hanno diritto alla felicità, non che sia
un diritto riconosciuto dalla legge, ma perché essi sentono e credono, con la
loro ingenuità e purezza, che la loro vita sarà sempre felice (qui torna
Leopardi!), sono i bambini e perciò, se
al bambino sfugge di mano il pallone e rotola tra le case, lui piange
disperatamente perché quel pallone era tutto il suo mondo, era la felicità
raggiunta che ora ha perduto .
Riassumendo
ora le tematiche montaliane, per trovarvi quelle comuni a Leopardi, viene in
prima evidenza quella dell’ "Essenzialità". Ad ogni poeta si può
chiedere cos’è per lui la poesia, o, ancor più incisivamente, a cosa tende e se
ha uno scopo la Poesia. Famoso l’esordio in “Ossi di seppia”: “Non chiederci
la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe e lo dichiari…”. Vale
a dire che la poesia, a differenza di quanto volevano i simbolisti, i
futuristi ed altre correnti dell’arte poetica, non è in grado di definire
l’uomo e la sua natura, la sua psiche. Di certo v’è che l’uomo non può menar
vanto e sentirsi sicuro di sé, ma deve considerare che lo attende decrepitezza
e squallore (“Ah l’uomo che se ne va sicuro..). La poesia non serve
neppure a capire e a definire il mondo, semmai con l’intento di renderlo
migliore (“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/ sì qualche
storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. In questa stessa
tematica s’inserisce, con più forte ed accorato pessimismo: “Spesso il male
di vivere ho incontrato”. Qui varchi di speranza non ve ne sono, ma
tre immagini che danno una figurazione del male di vivere, una del mondo inerte
(“il rivo strozzato che gorgoglia”), una del mondo vegetale (“l’incartocciarsi
della foglia riarsa”), e la terza del mondo animale (“il cavallo
stramazzato”). L’amara considerazione del poeta è che in questo mondo non
vi è altro bene che la divina Indifferenza (“Bene non seppi fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza”), cui corrispondono altre tre immagini,
questa volta fredde, distaccate, senza che alcun segno di travaglio promani
dalla loro materialità (“la statua nella sonnolenza del meriggio”…”la
nuvola”…”il falco altolevato”). Non hanno nulla di trascendente, ma
rappresentano forse, quasi come nella tematica de “Lo straniero” di Albert
Camus, l’Indifferenza (con la I maiuscola) del mondo e della Natura ai destini
dell’uomo.
Il
tema del “Varco” è senza dubbio il più ricorrente e il più significativo. In “Meriggiare
pallido e assorto” pare che non ve ne siano, anche se qualcuno si è
sforzato di vederlo laddove il poeta, dopo aver osservato sul terreno il mondo
naturale, ascoltato gli schiocchi dei merli, i frusci di serpi, il laborioso
agitarsi delle formiche, si sofferma a “osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare”, come se l’orizzonte si allargasse verso la
vista del mare, che nella poesia di Montale è dominante, mentre in Leopardi
predomina il paesaggio terreno e molto più raramente il mare tra lontani monti.
Brevissimo questo “palpitare lontano di
scaglie di mare” che oltrepassa l’orto, dove nuovamente si ascoltano le
voci della natura: (“mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi
picchi”). Segue l’amara
considerazione sulla limitatezza della conoscenza e sul mistero che circonda
l’esistenza dell’uomo (“E andando nel sole che abbaglia, sentire con triste
meraviglia…”).
Altro
tema importante è quello della "Memoria". Inquadrabile in questo tema,
fra le poesie più belle, “La Casa dei doganieri”. L’iniziale “Tu non ricordi” riporta il pensiero a
Leopardi: “Silvia, rimembri ancora…? “ Silvia era già morta dieci anni
prima ma comunque ci si può chiedere se il poeta abbia immaginato una qualche
risposta di lei. Montale, invece, dà per scontato che la donna della “Casa dei
doganieri” non ricordi quella sera trascorsa là con lui, però è notevole
l’analogia tra le due liriche, avvolte entrambe da un’aura di nostalgica,
irrimediabile lontananza di momenti belli della vita che non possono tornare,
più intenso il ricordo della sfortunata fanciulla in Leopardi e l’accomunarsi
con lei in un crudele destino finale, più densi di rimpianto invece, in
Montale, questo luogo della memoria e la figura di donna che per breve tempo lo
ravvivò. Una visione diversa del passato, dunque, perché in Montale c’è
accettazione del corso della vita, senza alcuno sguardo dolente verso la
propria giovinezza. Leopardi si duole invece di non aver vissuto la gioventù;
questo è il suo più grande rimorso, quello, forse, di averla spesa sui libri;
eppure i libri poi li chiama leggiadri (Io gli studi leggiadri/ talor
lasciando e le sudate carte,/ ove il tempo mio primo/ e di me si spendea la
miglior parte…”), ma anche questa apparente contraddizione trova una sua
psicologica spiegazione. Il grande animo di Giacomo era governato da un
insaziabile desiderio di apprendere, di passare i giorni e le notti sulle
“sudate carte”, in compagnia dei grandi spiriti, ed era quello il suo momento
di godimento, di felicità. Se poi in ultimo si duole perché la gioventù non
l’ha vissuta, non l’ha goduta e se ne pente amaramente, non può far altro che
muovere a se stesso il rimprovero di una sua scelta di vita, e questo lui ha il
coraggio di fare (“Ahi, pentirommi…de
“Il passero solitario”), ma non possiamo sottacere che ad essa
contribuirono aspetti della sua minorata fisicità. Montale invece non muove
seri rimproveri a sé stesso, se non nel momento in cui si accorge di desiderare
invano un ritorno dei momenti di vita vissuti. In questa tematica s’inquadra
una delle sue più belle ed intense poesie, tanto vicina alla nostra vita che
avanza, quanto ad antichi miti: ”Cigola la carrucola del pozzo,/ l’acqua sale alla luce e vi si
fonde. Trema un ricordo nel ricolmo secchio,/ nel puro cerchio un’immagine
ride.” Chi vede? Vede una fanciulla, un suo amore adolescenziale? Vede la
donna de “Il sogno” leopardiano. Ci siamo molto vicini! “Accosto il volto a evanescenti labbri”…. il poeta vuole dare
un bacio a questa ridente e certamente giovanile immagine, che è salita dal
fondo del pozzo, ma appena accosta le labbra all’acqua di cui il secchio è
ricolmo, ”…si deforma il passato, si fa vecchio, appartiene ad un altro…”.
Ecco che il suo passato è distrutto, la sua memoria si sgretola e mentre
all’inizio il momento della visione è portatore di dolcezza e di gioia, il
successivo distacco è doloroso: “…Ah che
già stride la ruota,/ ti ridona all’atro fondo,/visione, una distanza ci
divide”. Visivamente si potrebbe chiamare la poesia dei cerchi: la
carrucola, il pozzo, il secchio, il puro cerchio che circonda l’acqua, la
ruota, il fondo nero del pozzo. Ma quante contrapposizioni! Passato-presente,
luce-tenebra, vicinanza-distanza, ricordo-oblio, identità-alterità. Anche quelle
della sonorità: dolce è il cigolio della carrucola che sale, portando con sé un
ricordo felice, stridente quello della ruota che riporta giù il secchio e
l’immagine tremula che vi era apparsa. Ma quella immagine da dove è emersa? Che
cosa rappresenta il fondo del pozzo? E chi è salito alla luce: un’Euridice?
Credo che si sia più vicini al mito di Euridice che a quello di Narciso: sarà
un azzardo questo richiamo al mito di Orfeo e di Euridice: lui rivede la bella
immagine per un attimo, ma non deve accostarsi, come un Orfeo che non doveva
girarsi a guardare indietro fino a che non ci si fosse allontanati del tutto
dal regno dell’Ade. Ed invece il poeta si accosta addirittura per baciare
quelle labbra, già di per sé evanescenti, e l’immagine scompare nel fondo del
pozzo. Chiaro l’ammonimento: tu non hai diritto a che il tuo passato ritorni.
Il tuo passato si è deformato, si è fatto vecchio, non è più tuo!!!
Chiudiamo
con “La Ginestra”, che ci riconduce, nel parallelismo dei due poeti, ad un
altro tema importante della poetica di Eugenio Montale, che è quello della Storia,
inserito da lui soprattutto in “Satura”. Non può tralasciarsi, a questo punto,
il richiamo dei bei versi scritti dall’irpino Marciano De Leo (nato a Frigento nel
1751 e morto ivi nel 1819) sulla eruzione del Vesuvio dell’8 agosto 1779, versi
belli per la forza descrittiva della eruzione ed anche per la loro musicalità,
ma che non hanno i significati profondi de La Ginestra di Leopardi o de La
Storia di Montale. Ecco, abbiamo una triade: “La Storia” di Montale, “La Ginestra” di Leopardi ed “Il Vulcano”,
chiamiamola così la forte, ammirevole descrizione del letterato frigentino.
Dedichiamo quindi qualche minuto alla lettura montaliana: “La storia non si snoda/come una catena/ di anelli ininterrotta./ In ogni caso/ molti anelli non
tengono./ La storia non contiene il
prima e il dopo, nulla che in lei borbotti/ a lento fuoco. La storia non è
prodotta/ da chi la pensa e neppure/ da chi
l’ignora. La storia/ non si fa strada, si ostina, detesta il poco a
poco, non procede nè recede, si sposta di binario/ e la sua direzione/ non è
nell’orario”. Indubbiamente la filosofia del poeta non è lo storicismo di
Vico o di Hegel, in cui il decorso degli eventi trova una spiegazione
razionale, ma piuttosto l’antistoricismo di Karl Raimund Popper, per il quale,
come per Montale, gli eventi umani procedono a caso, senza un ordine logico e
prevedibile. Il corso della storia è invece paragonabile all’eruzione del Vesuvio,
imprevedibile e devastatrice, perché “la
sua direzione non è nell’orario”, cioè non tende a positive realizzazioni
della vita dell’uomo. Perciò:”La storia
non giustifica/ e non deplora,/ la storia non è intrinseca/ perché è fuori./ La
storia non somministra/ carezze o colpi di frusta./ La storia non è magistra”. Non
è Magistra vitae, “di niente che ci riguardi”. Quanto pessimismo! Se
noi neppure dalla storia possiamo attingere un insegnamento, una guida, allora
non c’è speranza di una vita migliore. Infatti: “Accorgersene non serve/ a farla più vera e più giusta”. Sfiorando qui il
nichilismo nel guardare la condizione umana, si è molto vicini a Leopardi: ”La storia non è poi/ la devastante ruspa che
si dice./ Lascia sottopassaggi, cripte, buche/ e nascondigli. C’è chi sopravvive. Cioè nel passaggio
rovinoso degli eventi storici, come di una eruzione dello “sterminator Vesevo”, c’è chi se la fa franca o addirittura si arricchisce,
come dopo una guerra o un terremoto. “La
storia è anche benevola: distrugge/ quanto più può: se esagerasse, certo/
sarebbe meglio. Qui al pessimismo si aggiunge l’ironia, per non dire il
cinismo, che però non appartiene all’anima montaliana. Qui tornano la Ginestra
e, con essa, il ricordo della nostra Pompei! Questo ricordo storico di una
totale distruzione è il Vesuvio della Ginestra, ma nel capolavoro del Leopardi
c’è anche il senso de “Le magnifiche
sorti e progressive” e credo che
anche in tali parole si scorge un’analogia tra i due poeti, nella visione di
una storia negativa, di una storia che travaglia, ma anche della forza
dell’uomo di lottare contro il destino che lo opprime, un varco alla speranza
che anche il poeta del dolore universale aprì verso la fine della sua triste
esistenza. Leggiamo ancora in Montale: “ma
la storia è a corto/ di notizie, non
compie tutte le sue vendette./ La storia gratta il fondo/ come una rete a
strascico/ con qualche strappo e più di un pesce sfugge/ Qualche volta si
incontra l’ectoplasma/ d’uno scampato e non sembra particolarmente felice./
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato./ Gli altri, nel sacco, si
credono/ più liberi di lui.” In questo travaglio che investe l’intera
umanità qualcuno più fortunato si salva, come il pesce che sfugge alla cattura
della rete.
Chiudo
con la speranza che le poesie che ho ricordato siano state sufficienti a
trasmettere al lettore questo mio pensiero: perché un po’ di più di amore per
Montale? Perché più vicino a noi, perché l’uomo ha bisogno di una illusione,
pure quando sa che gli si chiuderà il varco. Non può vivere fin dall’inizio nel
convincimento che non ci sia niente per cui valga la pena di vivere. Non è
facile, se non impossibile, condividere una posizione assolutamente nichilista
di fronte all’esistenza, che non v’è neppure in quest’ultima poesia letta.
Forse è per questo che una delle poesie di Montale che più piace è “I limoni”,
poiché vi si ritrova un doppio varco e un rassicurante sbocco finale. Fra i due,
un momento di profonda ricerca e meditazione: “Vedi, in questi silenzi in cui le
cose/ s’abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto,/ talora ci si aspetta/ di scoprire
uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/ il
filo da disbrogliare che finalmente ci metta/
nel mezzo di una verità./Lo sguardo fruga d’intorno,/ la mente
indaga accorda disunisce/ nel profumo
che dilaga/ quando il giorno più languisce./ (e qui c’è Leopardi, per il
quale la ricerca della verità è razionale).”Sono
i silenzi in cui si vede/ in ogni ombra umana che si allontana/ qualche
disturbata Divinità./ Ma
l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose…. “ “..Quando un
giorno da un malchiuso portone” (chissà chi, Dio o il Destino, ha lasciato il
portone mezzo aperto e mezzo chiuso, ossia uno spiraglio, una “maglia rotta
nella rete”, “tra gli alberi di una
corte/ ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,/ e in petto ci scrosciano/le loro canzoni/
le trombe d’oro della solarità.”
Questa
rappresenta veramente un cammino completo nei
percorsi contemplativi e
meditativi che l’uomo incontra nella vita. Penso che questo cammino continui
per ognuno di noi e che anche Montale, se fosse vivente, ritornerebbe in
quell’orto e discenderebbe nelle stesse viuzze, tra i ciuffi delle canne, per
riprovare ancora l’emozione di quel suo incontro pensoso con il più solare dei
frutti, ma acre come la vita stessa.
Avellino, 9 giugno 2006
Gennaro
Iannarone
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