mercoledì 31 agosto 2016

RACCONTO (Massacro di una giovane nuora)


Massacro  di  una  giovane  nuora



Quando Ubaldo partì per il servizio militare Giovanna, sua sposa poco più che diciottenne, rimase a vivere nel casolare del suocero in una contrada campestre dell’Irpinia. Dapprincipio si comportò bene, ma al rientro da un breve soggiorno in Gabicce presso la sorella Elisa, cominciò a tenere una condotta un po’ irregolare, allontanandosi di casa ogni giorno e ritirandosi spesso a sera inoltrata. Più volte il suocero Pietro le chiedeva il perché di tali lunghe assenze e quali luoghi frequentasse, ma l’insofferente ragazza si rifiutava di dargli spiegazioni, rispondendogli spesso in modo sgarbato. Lui aveva perciò cominciato a sospettare della fedeltà della giovane nuora e i suoi sospetti erano stati poi avvalorati, essendo venuto a sapere che Giovanna era stata fermata e identificata dai Carabinieri intorno alla mezzanotte in una via di Gabicce Mare solitamente frequentata da prostitute, in compagnia di un ragazzo napoletano, spiacevole episodio per il quale la sorella Elisa, dopo averla ospitata per circa un mese, si era poi vista costretta a farla rientrare in Irpinia, spiegandone le ragioni in una lettera scritta al cognato Ubaldo. E tanto rodevano l’animo dell’anziano suocero notizie e sospetti, che aveva cominciato a confidarsi con il suo amico Franco, e poi si era rivolto a un giovane di nome Lucio, anche lui amico di famiglia, per farla sorvegliare. Un’idea sbagliata e alquanto ingenua, che aveva consentito al Lucio di divenire un accompagnatore così assiduo di Giovanna da indurre l’ulteriore sospetto che ne fosse divenuto l’amante, tanto più che Lucio frequentava compagnie poco raccomandabili, in seno alle quali faceva capolino anche la prostituzione, che richiamava alla mente dell’anziano Pietro l’episodio di Gabicce e ne acuiva ancor di più il tormento e la rabbia.

Un’atmosfera pesante cominciò a gravare sulla intera famiglia.

Nella settimana prima di Natale, poiché l’assenza da casa di Giovanna si protraeva da oltre tre giorni, il cognato Andrea dapprima informò telefonicamente il fratello della condotta della moglie, esortandolo a scendere al Sud e poi, appena il giorno dopo, gli ritelefonò per sconsigliarlo dal venire in Irpinia, pregandolo di fermarsi a Pescara presso un’altra sorella, dove l’avrebbe raggiunto. Questo brusco contrordine, motivato da Andrea con ragioni del tutto inconsistenti, in verità proveniva dall’anziano suocero, il più esacerbato di tutti, che aveva deciso di “giustiziare” la giovane nuora, assumendosi il ruolo di vindice dell’onore del figlio e così evitandogli di sporcarsi le mani di sangue, pericolo concreto per quel che Ubaldo aveva saputo.

Durante la perdurante assenza di Giovanna fu frenetico l’andirivieni di Lucio tra la contrada avellinese e il paesino irpino di cui la ragazza era originaria. Ma più di una volta Lucio non era stato sincero nel riferire della presenza della ragazza a casa della madre e aveva finito così per inasprire ancor di più gli animi, fino al punto che Pietro lo aveva messo alla porta, contestandogli che proprio lui portava in giro sua nuora. 

Giovanna tornò a casa nella serata di quello stesso giorno, un quarto d’ora prima delle nove. All’interno il suocero discuteva con l’amico Franco dell’assenza della giovane nuora, divenuta per lui una vera ossessione, mentre altre persone s’intrattenevano a giocare a tombola. Appena Giovanna raggiunse la soglia di casa, Pietro le ingiunse di uscire fuori, chiamandola “Signora”. Lei gli girò di scatto le spalle come per andarsene, senza profferire parola. Fu il suo ultimo sgarbo. Lui, dopo aver prelevato un’ascia appositamente collocata sul davanzale della finestra, la inseguì infuriato per colpirla. Mentre Franco s’intromise per fermarlo ma dovette farsi da parte perché Pietro minacciò di colpire anche lui, Giovanna prese a correre disperatamente per la campagna, gridando aiuto e invocando la madre, ma una indescrivibile furia omicida raddoppiò le forze di Pietro. Benché anziano e con una sola mano valida, perché l’altra l’ha mezza perduta in guerra, la raggiunse e la colpì più volte sulle spalle e nei fianchi, fiaccandone la corsa. La ragazza, in un gesto estremo di difesa, gli afferrò la mano armata di scure ma lui la morse al polso, costringendola a lasciare la presa. Quindi le assestò con inaudita violenza e con estrema ferocia un colpo di accetta in testa, che penetrò nel cranio della poveretta fino al manico. Subito dopo rientrò nel casolare tutto lordo di sangue, riferì ai presenti quel che aveva commesso e andò a costituirsi ai Carabinieri.

Sotto la sua evidente regia preventiva, i due fratelli nel ritorno da Pescara “girarono al largo”, non dirigendosi al casolare del padre, ma presso la Caserma di un paese limitrofo, con lo scopo apparente di denunciare la condotta della cognata, ma in verità per far constatare la loro provenienza da lontano e nel giorno successivo all’omicidio. Appreso l’accaduto dai Carabinieri, non si mostrarono affatto scossi, poiché verosimilmente ne erano già a conoscenza o quanto meno avevano dato per scontato quel tragico finale.

                                                                       Gennaro Iannarone

                         (dal libro “Sciroppo amaro e altri veleni”

A.   Guida editore – Napoli 2012)


Saggio (Paternità dei testi dei madrigali di Carlo Gesualdo)




Paternità dei testi dei madrigali di Carlo Gesualdo

La ricerca della paternità dei testi di alcuni madrigali di Carlo Gesualdo presenta notevoli difficoltà, molto spesso insuperabili. Invero, soltanto pochi testi appartengono a poeti noti; la gran maggioranza dei 125 madrigali è frutto invece di scelte impulsive, disordinate, tipiche dell’anima gesualdiana, per cui è molto difficile accertare se, per rivestire l’idea musicale del momento, egli abbia attinto a testi di verseggiatori o rimatori che non godevano di alcuna fama, o se i testi li abbia scritti lui, di proprio pugno.

Questo breve saggio, lungi dall’avere la pretesa di giungere a soluzioni complete e definitive, ha soltanto la finalità di stimolare tale ricerca in omaggio al musicista ed anche al cantautore, in quanto Gesualdo lo fu in non pochi casi, riuscendo talvolta a creare, anche se di rado, accettabili composizioni in versi. Tale aspetto della creatività del Principe ha una grande importanza, certamente superiore a quella che finora gli è stata attribuita dai musicologi, i quali hanno rivolto la loro attenzione a Gesualdo quasi dimenticando – va pur detto – che di fronte ad un genere musicale complesso come il madrigale non si sarebbe dovuto trascurare del tutto il testo e diffondersi precipuamente e ampiamente sull’altra parte di cui quel genere musicale è composto, la musica. Va considerato, infatti, al fine di sottolineare l’importanza in genere del testo, che l’evoluzione dell’arte musicale è tale che i madrigali, e in genere la musica antica, sono divenuti indubbiamente di difficile ascolto per i più, mentre i versi, abbastanza facili alla lettura e spesso piacevoli, sono rimasti, pur a distanza di secoli, intatti, in una loro immutabile “classicità”. Ne deriva che vanno riposte anche in essi le prospettive e le speranze di una maggiore divulgazione di un’arte stupenda che purtroppo rivela la sua bellezza solo a un ristretto numero di cultori e di appassionati, apparendo invece ostica al gran pubblico di potenziali ascoltatori, proprio a causa della difficile comprensione del testo cantato, com’è frantumato e spesso ripetuto nel passaggio da uno ad altro tema della composizione.

Va senza dire che gli spartiti dei madrigali sono dotati di una valenza artistica di gran lunga maggiore, e che in definitiva Gesualdo resta un musicista, un grande musicista, non un paroliere. Tuttavia, a sostegno dell’interesse che può suscitare la ricerca della paternità del testo anonimo di un madrigale, se è innegabile che solitamente è il testo, nel procedere della creazione artistica, a porsi come un antecedente, che viene poi rivestito della sonorità e della musicalità che gli si addice (si pensi alla composizione di un’opera lirica), e se è altrettanto vero che pochi, come Carlo Gesualdo, hanno saputo piegare l’effetto emotivo del tema musicale alle esigenze del testo, specie con la personalizzazione delle voci, si dovrebbe giungere a diverse conclusioni allorché si appurasse che è stato lo stesso Gesualdo a scrivere il testo? O si dovrebbe ritenere che in tale ipotesi l’idea musicale, gioiosa o mesta o dolorosa, è sorta per prima nella mente dell’artista, e poi egli ha creato i versi che meglio esprimevano il sentimento contenuto nella melodia? Sarebbe quanto meno superficiale ritenere che nulla cambi. Più prudente è pensare che la ricerca che ci si è proposti potrebbe rendere più penetrante ed approfondita l’interpretazione dell’arte gesualdiana. Dopo tale premessa ne va fatta un’altra brevissima circa la possibilità di attingere a precedenti studi o commenti, al fine di evitare di formulare ipotesi errate su madrigali di cui sia stata già accertata la paternità. Il testo che reca un notevole aiuto è, a parere dello scrivente, il Commento all’intera opera dei madrigali di Francesco Degrada, data l’analitica attenzione che questo musicologo ha dedicato al testo e alle correlazioni che sono state da lui spesso ravvisate tra musica e verso.

Appare a questo punto opportuno fissare dei criteri, sempre con lo scopo che siano di ulteriore stimolo alla ricerca qui intrapresa. Se ne possono individuare, a parere dello scrivente, tre principali ed uno secondario. che però non danno tutti lo stesso grado di certezza o di probabilità nell’attribuzione della loro paternità al Principe. 

A Gesualdo possono essere attribuiti con certezza:

1) i madrigali manipolati o addirittura stravolti, il che è già sintomatico di una tendenza creativa anche dei testi; 

2) i madrigali indiscutibilmente autobiografici;

         A Gesualdo possono essere attribuiti con quasi certezza:

3) i madrigali che rivelano un drammatico, quasi malato senso dell'eros;

Passando ora ad una più particolareggiata analisi, nei sensi suaccennati,

possono essere attribuiti a Gesualdo con certezza:

a)    i madrigali, come si è accennato, rimaneggiati, o dei quali sia stato addirittura stravolto il contenuto, utilizzando quelli di altri poeti o rimatori. Vengono sotto tale profilo in evidenza:

1)    (Libro I° n. 11):  

"Mentre, mia stella, miri

i bei celesti giri,

il ciel esser vorrei

perché tu rivolgessi

fiso ne gli occhi miei

le tue dolci faville,

io vagheggiar potessi

mille bellezze tue con luci mille.".

Questo madrigale ha una storia del tutto particolare. Torquato Tasso, parafrasando una poesia di Platone:

O mio Astro tu guardi le stelle.

                 Ah, se potessi  

trasformarmi in cielo,

per guardarti con mille pupille”,

lo compose dedicandolo a Tarquinia Molza, nobildonna mantovana di notevole cultura letteraria e musicale, che aveva fatto anche parte del famoso Concerto delle Dame in Ferrara, dalla cui Corte era stata allontanata nel 1589 a causa di una tempestosa relazione amorosa con il musicista Jacques de Wert. Il testo era il seguente: Dedica: “A la signora Tarquinia Molza la qual studiando la sfera andava la sera a contemplar le stelle“.  Testo:

Tarquinia, se rimiri

i bei celesti giri

il cielo esser vorrei

perché negli occhi miei

fisso tu rivolgessi

le tue dolci faville,

io vagheggiar potessi

mille bellezze tue con luci mille”.

Come si può notare, Gesualdo sostituisce nel verso settenario alle prime cinque sillabe “Tarquinia se ri” (-miri) le sillabe “Mentre mia stella” (-miri). Poi, apparendogli verosimilmente poco gradevole dal punto di vista musicale la presenza di quattro “s” nel verso “fisso tu rivolgessi”, ritocca il tutto spostando nel verso successivo la parola “fiso”, con una sola “s”, cui segue “negli occhi miei”.  

2)    (Libro II° n. 8):

"Sento che nel partire

il cor giunge al morire,

ond’io misero ognora, ogni momento

grido: morir mi sento!

non sperando di fare a voi ritorno.

E così dico mille volte il giorno:

partir io non vorrei

se col partir accresco i dolor miei.".

Questo madrigale è una sorta di parafrasi negativa di quello, celeberrimo nel Cinquecento, di Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, musicato, fra gli altri, da Cipriano de Rore, il cui testo è il seguente:

Ancor che nel partire

io mi senta morire,

partir vorrei ogni momento

tant’è il piacer che sento

de la vita che acquisto nel ritorno.

E così mille e mille volte al giorno

partir da voi vorrei,

tanto son dolci i ritorni miei”.

Questi due chiari rimaneggiamenti provano non solo la tendenza di Carlo Gesualdo a manipolare i testi per piegarli alle esigenze musicali (in “Mentre mia stella miri…v’era anche l’esigenza di eliminare il riferimento a Tarquinia Molza) o a quelle del suo mondo interiore (“Sento che nel partir…), ma anche la sua capacità di parafrasare il testo originale in modo abbastanza accettabile, com’è più evidente nel secondo caso.

A Gesualdo possono essere attribuiti con egual certezza

b)    i madrigali indiscutibilmente autobiografici: Vengono, sotto tale secondo profilo in evidenza:

1)    (Libro IV,n. 2):

"Talor sano desio

vuol che morendo ancìda ogni mia doglia,

ma io di pianger vago, o fiera voglia,

amo la vita solo

perché il mio pianto eterni eterno duolo",

ove l’opera salvifica dell’arte dal proposito suicida, comune al Leopardi de “Le Ricordanze” e al Beethoven del “Testamento di Heiligentadt”, non è pensiero o concezione ritrovabili in altri poeti o verseggiatori, vicini o lontani nel tempo, a Carlo Gesualdo.

2)    (Libro III° n. 15) con qualche margine di dubbio: 

"Deh, se già fu crudele al mio martire,

sia Madonna pietosa al mio morire!

Ah, che prego! Pietade

or saria crudelitade!

Per dar fine al mio duol, giusto è ch’io moia;

Ella, che n’è cagion, ne senta gioia.".

E’ lecito ritenere che i sentimenti espressi nel testo siano certamente appartenuti alla sensibilità d’animo di Carlo Gesualdo, quella stessa che pervade la sua opera, in quanto, se lui fosse morto perché schiacciato dal rimorso di aver ucciso la sua sposa, soltanto lei avrebbe potuto a buon diritto gioire della propria crudeltà, cioè di essersi in tal modo vendicata, avendo il bruciante ricordo della sua persona inflitto a lui sofferenze così insopportabili da farlo morire di crepacuore;

3)    (Libro III° n. 9):

“<Non t’amo, o voce ingrata>,

la mia donna mi disse

e con pungente strale

l’alma trafisse.

Lasso, ben fu la piaga aspra e mortale;

Pur vissi e vivo. Ahi, non si può morire

di duolo e di martire”.

Appaiono evidenti, nel tono narrativo che assume la composizione, il tradimento di Maria, la necessitata e tragica scelta di vita di Carlo Gesualdo per non morire del dolore e del martirio che gli procurava quel tradimento.

Possono essere attribuiti a Gesualdo con quasi certezza:

c)      i madrigali che rivelano un senso drammatico, quasi malato dell'eros.

Vengono in evidenza sotto tale ultimo profilo:

1)     Il testo del madrigale n. 10 del Libro I° del poeta Giovambattista Guarini:

Tirsi morir volea

mirando gli occhi di colei ch’adora;

quand’ella, che di lui non meno ardea,

gli disse: Ohimè, ben mio,

deh, non morir ancora,

che teco bramo di morir anch’io!

Frenò Tirsi il desio

Ch’ebbe di pur sua vita allor finire

sentendo morte in non poter morire

dove il pastorello Tirsi si sente oltremodo mortificato (“sentendo morte in non poter morir”) nel non poter godere del piacere sessuale all’unisono con l’amata.

2)     (Libro III° n. 7)

"Sospirava il mio core

per uscir di dolore

un sospir che dicea: <L’anima spiro!>

Quando la donna mia più di un sospiro

anch’ella sospirò, che parea dire:

<Non morir, non morire!>.

O mal nati messaggi e mal intesi,

in vista sì cortesi!

<Mori> dicesti, ohimé, <ma non finire

sì tosto il tuo languire!>”;

3)     (Libro VI, n. 16):

"Quel <no> crudel che la mia speme ancise

ecco che pur trafitto da mille baci di mia bocca ultrice

qual fiera serpe in mezzo ai fiori essangue

tra quelle belle labbra a morte langue.

Oh, vittoria felice,

in quel vago rossor gli amanti scritto                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      

leggan <Di quel bel volto ha vinto Amore>

Amor vince ogni core".

      d) Risultati meno sicuri offre l’accennato criterio sussidiario:

Si potrebbe partire dalla seguente considerazione: Gesualdo non è né un poeta né un valente rimatore, ma un verseggiatore, il che non impedisce tuttavia di definirlo un "cantautore", se si pensa alla qualità di alcuni testi delle moderne “canzoni d’autore”. Gli si potrebbero perciò attribuire i madrigali dal testo di qualità mediocre, privi della rima, ripetitivi della caratteristica "ossessività" dei temi propri dell’anima gesualdiana, e non sarebbero pochi.

Ma rispetto al convincimento assicurato dagli altri criteri di cui sopra, questo è solo l’abbozzo di una ipotesi, nella consapevolezza della innegabile difficoltà di stabilire se il testo di un madrigale sia o meno "mediocre". Come aiuto nella ricerca non bisogna trascurare di valutare la progressione del cosiddetto atteggiamento antiletterario di Carlo Gesualdo. Invero, la tendenza a scriversi i testi da sé, quasi  assente nei primi due libri, è da ritenersi in accentuazione man mano che lui passa dal terzo libro alla terna successiva della sua produzione, in concomitanza con l’affinarsi dello stile della sua arte musicale, giacché la precipua caratteristica della circolarità delle voci e addirittura del loro isolamento dal contesto del quintetto nell’atto in cui il singolo cantore pare esprimere un sentimento o una emozione sua propria, ha molto presumibilmente indotto il grande madrigalista a scartare testi di poeti o verseggiatori non idonei ad essere rivestiti dal nuovo stile che la sua arte aveva intrapreso e a scriverne lui, di propria mano, molto probabilmente più brevi, affinché si prestassero meglio alla maggiore estensione del canto.

RACCONTI (Ricordi della fanciullezza) 1400


RICORDI DELLA FANCIULLEZZA

(A casa dei nonni Alfredo e Gennarino)



Fatevi animo, donna Carmelina, si era appena confessato quando si è sentito male. Ci pensate che fortuna? Andrà di sicuro in Paradiso!”. Sfuggitole di bocca questo augurio, la buona donna aiutò mia madre a prendere dell'aceto per accostarlo insieme alle narici del nonno, sperando così di farlo riprendere dal gravissimo attacco che gli aveva tolto la coscienza e la parola. Stava seduto al centro della sua camera da letto, con il capo riverso sullo schienale della sedia di paglia con cui l’avevano portato a casa due giovani, raccogliendolo sulle scale della cattedrale, credo senza grande sforzo perché nonno Alfredo era piccolo di statura, appena un metro e cinquanta. Boccheggiava un po’ più rumorosamente di quando si appisolava dopo pranzo sulla panca della cucina, accanto al focolare, con il cappello spesso calato sugli occhi per ripararli dalla luce solare che penetrava in casa nel meriggio. Io mi fermavo talvolta ad osservare quel suo modo di respirare nel sonno, con il fiato che gli usciva da un angolo delle labbra, che si chiudeva ad ogni inspirazione per poi riaprirsi, con un ritmo che sembrava scandito dal vecchio pendolo sul muro, che lui regolava in continuazione, salendo sulla panca con le gambe malferme e dicendo ogni volta che non era mai preciso.

Rimase così sulla sedia per circa mezzora, in una inutile attesa del medico, fino a quando non lo adagiarono nel suo letto matrimoniale, dal lato dove prima dormiva la moglie Ersilia, morta qualche anno dopo la fine della guerra, ed in quella posizione rimase, vegliato dai figli, mia madre e zio Marciano. Quella sera andai a letto un po’ prima del solito. Stentavo a prendere sonno. Era proprio vero, pensavo, che, dopo la confessione e l'improvviso malore, non aveva potuto commettere peccati, neppure di pensiero. E così durante la notte, secondo i buoni e sicuri auspici, nonno Alfredo passò in Paradiso.

Alcuni anni prima dormivo con lui nello stesso letto, fino a quando zio Michele non disse a mio padre che un bambino non doveva respirare l’alito di un vecchio, e così passai a dormire nella camera di mamma e papà, in un lettino collocato su una botola, dalla quale si scendeva giù nel negozio del nonno per una ripida scala di legno e che da allora non sarebbe stata più aperta, mentre prima se ne faceva uso per andarvi a prendere vivande ed altro. A tanto provvedeva per lo più zia Adelina, che qualche volta spuntava fuori all’improvviso da quella botola, aiutandosi con una mano per sollevarne la copertura e reggendo nell’altra un uovo, mentre diceva, già prima di giungere all’ultimo scalino, che la gallinella lo aveva fatto la mattina apposta per me, sperando così di vincere la mia ostinata inappetenza. Anche lei sarebbe volata in Paradiso durante la notte, che avevo appena quattro anni e la guerra non era ancora finita. Teresina era venuta di prima mattina nella stanzetta in fondo alla casa, dove allora mi avevano messo a dormire in una vecchia culla, e mi aveva svegliato annunciandomi a voce alta, quasi come se mi stesse dando una bella notizia, che era morta zia Adelina, portandomi poi in braccio, ancora assonnato, accanto al letto dov’ella giaceva immobile, tutta vestita di nero, con sul petto le mani congiunte sopra una piccola croce bianca. Era stato quello il mio primo confronto con un’immagine così irreale che fin da allora, credo, cominciai a non capire nulla della morte.

La camera da letto del nonno, la più grande e calda della casa, aveva una finestra a levante ed un balconcino quasi alla romana a sud che sporgeva su piazza Marconi, in verità più trivio che piazza, dove riusciva ad arrivare il postale come allora si chiamava il pullman di linea per Avellino, di colore blu, che proprio lì invertiva la marcia, andando in su per pochi metri fino a sfiorare di qualche centimetro il  muro della caserma dei carabinieri con il lungo muso scoperchiabile, dove sotto c’era il motore, indietreggiando nella via che porta ai Limiti, e poi girando per la discesa di via Duomo da cui era salito, dopo essersi fermato nel piccolo slargo a destra davanti al bar, per far scendere i passeggeri e prima di loro il fattorino, che schizzava fuori con il sacco della posta ed andava di corsa a consegnarla in piazza Municipio. Dalla postazione privilegiata del balconcino non mi perdevo nessuna fase di quella lenta manovra, perché l’arrivo del pullman era un avvenimento importante della giornata, in quegli anni in cui per le strade del paese passavano solo due macchine, una dell’avvocato e l’altra dell’autista di noleggio, quattro volte al giorno, un viaggio di andata e uno di ritorno ciascuno. Se per caso ne passava qualche altra, la gente si affacciava ai balconi, appena sentiva il rombo di un motore che saliva, per curiosare se erano arrivati forestieri, o, caso molto più raro, se qualche altro paesano s’era comprata la macchina.

Quella stanza nel giro di pochi mesi divenne più mia che sua, perché nonno durante il giorno vi entrava poche volte, per conservare in un album chiuso da un elastico di color marrone l’incasso della giornata, avendo cura di riporlo sul tetto dell’armadio dopo essersi guardato intorno con circospezione, o per orinare in un vaso da notte che prelevava dal comodino accanto al letto. Una volta, mentre ero intento a giocare sul pavimento ad un puzzle di dadi, lo vidi saggiare con la lingua la sua pipì nel vasetto. Corsi a dirlo a mamma, ridendo, ma lei mi spiegò che in quel modo suo padre si controllava se aveva zucchero nel sangue, per stare bene in salute. Prima di pranzo era solito soffermarsi dietro al balconcino a prendere il sole e qualche volta chiedeva consigli a mio padre, che si sedeva di fronte a lui su una seggiola bassa, per metterlo a suo agio. Dal viso di nonno Alfredo spesso traspariva che le risposte ai suoi quesiti non gli erano state favorevoli, anche perché mio padre, che lo chiamava rispettosamente “papà”, finiva per esortarlo ad aver pazienza con i contadini, perché più tutelati dalle leggi del dopoguerra. Capivo che quei consigli riguardavano il terreno della contrada Pannizza, con la casa colonica e l’alveare, dove talvolta d’estate scendevamo tutta la famiglia, un’ora di strada a piedi, e da cui arrivavano le provviste a dorso di mulo, portate dal colono Palummo, che con nonno non andava molto d’accordo. Nonno Alfredo, come proprietario terriero   era un irriducibile, ma anche Palummo era un tipo fatto a suo modo, che non sorrideva mai. Lo si sentiva borbottare, e qualche volta pure bestemmiare, appena legato il mulo all’anello di pietra per scaricare la soma nel “magazzeo”, e non c’era volta che non si lamentasse della “malannata”. Quando poi scappava via un “cupo” d’api dall'alveare, giungeva in casa quando meno te l’aspettavi e creava tanta agitazione sol che appariva davanti alla porta, tutto trafelato e paonazzo in viso, dando a vedere ch'era seccato dall’incombenza di essere salito appositamente in paese. Allora zio Marciano, indossata una tuta che sembrava uno scafandro, scendeva con lui in campagna con la motocicletta Ariel di colore rosso per recuperare senza indugio il prezioso sciame.

Non so dire se nonno mi volesse veramente bene. Una volta, mentre stavo giocando nella sua camera, aveva aperto d'improvviso la porta e mi aveva guardato fisso. Tenendo in mano uno scatolo di pennini “a cavallotto”, con tono severo mi aveva chiesto se ne avessi preso uno uguale nel negozio. Era poi subito uscito sbattendo la porta, mentre io mi ero girato a guardare tutto mortificato i visi dei miei compagni, ai quali avevo regalato qualcuno di quei pennini, che avevano il pregio di raccogliere più inchiostro dal calamaio. Alzando gli occhi fino al tetto dell’armadio, pensai alle migliaia di pennini “a cavallotto” che avrei potuto comprare con i soldi grossi, da cinquecento e da mille lire, che lui custodiva tanto gelosamente in quell’album dall’elastico color marrone.

Per un’altra monelleria me l’ero cavata con un rimprovero più blando. Tra i giochi preferiti all’aria aperta, ce n’era uno in cui si usavano come bocce delle grosse pietre piatte, o dei ferri da stiro sottratti in casa e privati del manico con la complicità del figlio di qualche fabbro. Le poste, costituite da bottoni e da formelle di ottone, che valevano il doppio dei bottoni, si deponevano in una buca scavata nel terreno, solitamente nella piazzuola dietro al Municipio, prima dell’inizio di via Limiti. Chi riusciva con un tiro a scacciare il “masto”, ch'era uno spesso mattone triangolare posto in verticale a riparo della buca, ed a piazzare la sua boccia vicino ad essa, catturava l’intera posta. Quando finivo in perdita, smettevo di giocare per un poco e, giunto a casa, mi calavo quasi interamente in una vecchia cassa con bordure in ottone dove c’erano i suoi pantaloni, pronto a richiudermi dentro se entrava qualcuno. Munito di forbici e tenendo un po’ sollevato il coperchio per vederci meglio ed anche per respirare il meno possibile l’aria che emanava da quella sorta di guardaroba, facevo provvista delle formelle che v'erano cucite. Un pantalone per volta e correvo di nuovo a giocare. Una mattina che vidi nonno in mutande rovistare con una mano in quella cassa, mentre nell’altra reggeva un pantalone e molti altri li aveva già ammucchiati alla rinfusa su una sedia, tentai di scappare subito su via Vasoli, ma non finii di percorrere il lungo corridoio della casa che lo sentii gridare: “Carmelinaaa!!”. Non avendo potuto abbottonare neppure un pantalone, chiamava sua figlia in aiuto e lo faceva ad alta voce per far capire a distanza ch’era arrabbiato con me.

Con l’arrivo del Natale diventava più affettuoso. La sera della vigilia mi chiamava in negozio per celebrare un rituale tutto suo, quello della strenna. Chiusi i battenti ed aperto lentamente un tiretto del bancone sotto il mio sguardo di attesa, vi prendeva un mazzetto bello doppio di biglietti di piccolo taglio di colore verde, conservati nuovi di zecca per quella occasione. Poi, ancor più lentamente li contava, per godere più a lungo del mio viso che gli sorrideva contento. Mamma diceva che con quel “negoziuccio” e le modeste rendite della Pannizza suo padre era riuscito a tirare avanti un’intera famiglia, caduta in ristrettezze economiche prima dello scoppio della guerra, tanto che era stata venduta all’asta la bella casa in piazza Municipio che ha davanti un leone di pietra, che lei avrebbe certamente ereditato, se a una sua zia che non aveva figli non fosse piaciuta una vita di lussi e di dispendi, di cui si favoleggiava persino che facesse il bagno soltanto nel latte d’asina. Perciò era attentissimo alle sue poche risorse economiche, non solo litigando spesso col colono ma vigilando anche sulle provviste ch’erano in casa, come le buone salsicce appese al soffitto della cucina. Erano state fatte con il maiale allevato nel vano sotto l’ingresso, con il sacrificio olfattivo di chi entrando era investito dai non piacevoli effluvi che la corrente d’aria gli sospingeva sotto il naso. Per questo, durante il Carnevale non faceva più entrare in casa gruppi di ragazzi fin da quando ne aveva sorpreso uno che durante la scenetta mascherata aveva allungato la mano ad un capo di salsicce e tirava con forza per farlo venir giù. E che fosse molto guardingo nell’amministrarsi se ne accorgeva non solo Palummo ogni volta che veniva a scaricare il grano del fitto nel “magazzeo”, ma anche gli avventori del suo negozio. Poiché durante la guerra e negli anni che seguirono la lira cominciò a svalutarsi rapidamente, nonno provvedeva naturalmente ad adeguare i prezzi dei prodotti che vendeva. Non so dire in che misura lo facesse, ma quando la gente, quasi protestando, gli chiedeva spiegazioni degli aumenti che praticava, lui usava rispondere con una frase che pareva una battuta di spirito (“Mo’? ‘E veré appriesso!!”), ma serviva anche a scoraggiare le proteste del giorno successivo. E in paese qualcuno ancora oggi ricorda quella espressione lungimirante di “don Alfredo Testa”, quando si parla di situazioni che vanno sempre più peggiorando.

La casa dei nonni paterni stava sulla stessa via Vasoli, un po’ più avanti scendendo. Vi trascorrevo buona parte della giornata, anche perché attratto dalle caramelle che mi regalava zia Pasqualina, padrona del bar di fronte. Proprio davanti a quel bar, avevo poco più di tre anni, assistetti una volta al passaggio fragoroso di aerei che sfiorarono i tetti delle case, volando verso Sud, mentre nonna Peppina gridava terrorizzata con le mani nei capelli, rientrando di corsa in casa pallida dalla paura ed imprecando contro quei “fuochisti”, come usava chiamare gli americani, perché bombardavano senza criterio. Invece, quando sul far della sera udiva il rombo continuo di motori di aeroplani, alti nel cielo, quasi sorridendo diceva che erano arrivati i “mosconi”, come chiamava gli inglesi, che giravano in ricognizione sulle due valli che circondano il nostro monte.

Un giorno, sparsasi la voce che era caduto un aereo presso il fiume Ufita, molti si precipitarono nella contrada Piani, e qualcuno ritornò contento di avervi trovato a bordo un binocolo, una macchina fotografica o altri strani oggetti, fra cui un piccolo specchietto retrovisore, che finì nelle mie mani e usai per giocare a nascondino. Qualche volta delle moto con sidecar, montate da soldati con caschi di metallo scuro, salivano fino in piazza Municipio per poi tornare giù nella piana, seguiti dallo sguardo di noi ragazzini che subito ci portavamo sulla panoramica via Limiti, curiosi e divertiti nell'osservarle mentre abbordavano i tornanti a gomito della discesa. Oltre ai motociclisti col sidecar, una volta alcuni soldati tedeschi erano arrivati in paese sul far della sera. Fermatisi alla fontana del borgo san Rocco per rifornire di acqua l’automezzo di guerra e trovato il rubinetto a secco, avevano cominciato a minacciare rappresaglie, avendo sospettato un boicottaggio. Avevo sentito all'indomani un uomo anziano raccontare, ancora spaventato, che il loro comandante si era diretto a passo di marcia, salendo per via Duomo, verso la caserma dei carabinieri, dicendo più volte a voce alta: “kaputt!”. Fortuna era stata che un paesano, già emigrato in Germania, che conosceva un po’ il tedesco, era riuscito a far capire a quel comandante indispettito che l’acqua era stata razionata dall'inizio della guerra. Passato nella popolazione quel momento di terrore, era seguita la paura dei bombardamenti, poiché un altro gruppetto armato aveva collocato alcuni pezzi di artiglieria sulla parte più alta di via Limiti, per organizzare colà una difesa. E' noto ancor oggi col nome Digath quel bel poggio erboso che è il più vicino all’abitato e che da ragazzi frequentavamo per fumare di nascosto dei genitori o per appuntamenti con le fidanzatine. Per fortuna era presto giunto un ordine di smobilitazione.

Sempre più di frequente si vedevano passare per le strade del paese piccoli gruppi di soldati e quasi ogni sera li vedevo scendere per la ripida via Selce, che barcollavano come ubriachi. Sentivo dire che erano polacchi. Con sorpresa un pomeriggio me li ritrovai nell’ingresso della casa dei nonni, dove un bancone, una panchetta ed un vecchio tavolo arredavano una improvvisata osteria. Mangiavano qualcosa preparata loro dalla mia bisnonna Lucia, che serviva per i più poveri e per qualcuno di passaggio i fusilli al ragù, con un buon bicchiere di vino della contrada Amendola. Sempre lo stesso piatto ma abbondante, che era poi una sua specialità, perché si alzava la mattina presto per tirare per ore quel sugo. E qualcuno del paese, più affamato dei soldati polacchi, si fermava nel vicolo dirimpetto, a fianco al bar di zia Pasqualina, rimanendo in attesa di un invito ad entrare, come lei usava fare con un breve cenno, poggiando dorso e pollice della mano sinistra sulla fronte ed agitando le altre quattro dita, come se non volesse far notare al resto della famiglia l’ingresso di estranei in casa. Non biascicava solo preghiere nella sua stanza al primo piano, tappezzata di figurine di santi, mamma Lucia, ma donava quel poco che poteva con grande carità cristiana.

La guerra ci aveva sfiorati, benché il nostro fosse un piccolo borgo isolato dal resto del mondo, creando un’atmosfera che non lasciava tranquilli, come avevo capito dalle grida di terrore di nonna Peppina. Soltanto in un assolato pomeriggio di primavera avrei avvertito, a mo’ di sensazione, che essa era davvero finita. Ero appena uscito dalla casa di nonno Alfredo, intorno alle cinque, e giunto all’inizio dei Vasoli mi guardavo intorno per cercare qualche compagno di giochi, ma non c’era nessuno in giro. Solo sul piccolo davanzale della finestra bassa di palazzo Calò, rannicchiato in un angolo d’ombra, stava seduto zio Aniello, che aspirava avidamente meno della metà di una sigaretta senza filtro. Appena mi vide, si girò verso di me ed io gli sorrisi come sempre, ma lui si fece improvvisamente serio e con uno sguardo strano,  tra  l’incredulità  e  la  meraviglia,  disse  con  un tono cupo della voce, come se non parlasse a me: “Hann’ accis’a Mussolini!”.

Circa sette anni dopo, in un giorno delle feste di Natale, nonno Alfredo venne a pranzo a casa di nonno Gennarino. Si scambiarono l’augurio di rivedersi nella prossima festività, ma l’anno dopo morirono tutti e due. Il vecchio tavolo, che aprendosi a libro diventava ampio e quadrato, era stato imbandito nella camera grande al primo piano, perché nonno non poteva affaticarsi a scendere in cucina e risalire. Mesi prima gli era venuto un fortissimo dolore al petto mentre spaccava la legna per il camino e si era così improvvisamente ammalato di cuore. Portato a tavola, caldo e fumante un grande vassoio di maccheroni al sugo, nonna riempì col mestolo tutti i piatti, ma non ne avevamo mangiato neppure la metà che nonno Gennarino si sentì male. Me ne accorsi perché zia Lucia cominciò a chiamarlo a gran voce, ma lui non rispondeva, aveva gli occhi fissi nel vuoto e il viso pallido e sudato. Quando lo vidi immobile sul letto dove l'avevano adagiato, preso da una gran paura che morisse, mi precipitai a piano terra per il ripido scalone di legno e raggiunsi l’ingresso, dove, dalla finestra sul vicolo, si poteva vedere, sui tetti della casa vicina un pezzetto di cielo, dove sapevo che c’era Dio. Pregai con tutto l’animo che lo facesse vivere, lo scongiurai piangendo, e giunsi persino a mordermi le nocche delle dita, come se offrissi questo mio martirio alla salute di nonno. Mamma scese giù poco dopo per rassicurarmi, ma nessuno completò il pranzo.

Fu l’anno dopo, in autunno, che ci trasferimmo ad Ariano Irpino, come mamma mi aveva preannunciato proprio quel giorno, appena discesa dal piano di sopra. Era serena, anzi contenta, nel darmi quella notizia, mentre in me allo spavento appena provato si aggiunse il dispiacere di dover lasciare Frigento, i compagni di giochi, il viso di una fanciulla che mi tornava nel pensiero. L’Istituto Schettino di Frigento era una scuola, aveva detto papà, che sfornava solo maestri elementari, e non mi avrebbe dato delle buone basi per il liceo classico.

Sette anni di scuola insieme ai compagni di scuola e di gioco non erano stati pochi. Li ricordavo tutti, fin dalla prima elementare. Proprio nonno Gennarino aveva voluto accompagnarmi il primo giorno di scuola, tenendomi per mano, come per essere di buon augurio, mentre io lo seguivo di mezzo passo indietro perché faticavo a reggere la bella cartella che poco prima mi aveva regalato. Me l’aveva fatta trovare a casa sua come un dono della Befana, sospesa al grosso gancio sovrastante il caminetto, che serviva ad appendervi il paiolo per cuocere la pasta. Eravamo da qualche minuto davanti all'edificio della scuola elementare di Piazza Municipio che si affacciò sul balcone la bidella, con una vestaglia verdina stinta dal tempo, e incominciò a girare la manovella di una sirena, mentre dalla piazza noi bambini la guardavamo col naso per aria, divertiti da quel richiamo sonoro che scandiva il nostro ingresso a scuola. Qualche anno dopo, divenuti più grandicelli, ci incuriosimmo a guardare le sue gambe e, quando il vento che spirava da via Limiti sollevava appena la sua vestaglia, ridevamo e ci sussurravamo maliziosamente all’orecchio. E lei, vedendoci sempre entrare con allegria, ci accoglieva sulle scale col sorriso, compiaciuta del nostro amore per la scuola, e spesso esclamava: “Ma quanto sono bravi questi bambini!”

La maestra Filomena Pepino era molto severa. Per farsi ascoltare con attenzione, ci sbarrava in faccia i suoi grandi occhi neri, con uno sguardo penetrante che incuteva timore, ma quello che spiegava non lo scordavo più. Come non ho più scordato una sua dura lezione di vita. Un giorno io e suo nipote Roberto tentavamo di far volare un piccolo aeroplano dalla collinetta di via Limiti. Bisognava lanciarlo appena liberata l’elica da un doppio elastico che la bloccava, ma appresso al lancio rotolai anch’io giù, fino a fermarmi con la faccia tra un ciuffo di ortiche. Me la cavai solo con un viso tutto rosso. Corso a casa di nonno Gennarino per sciacquarmi con acqua fresca, ebbi la sfortuna di trovarvi mamma e la sua richiesta di spiegazioni. Timidamente dissi che mi aveva spinto Roberto, ma all’indomani la signorina Pepino venne di persona nel pomeriggio a rimproverarmi di quell’ingiusta accusa, e, davanti a quel suo sguardo, io e mamma restammo ammutoliti perché avevamo sbagliato tutti e due. La maggiore severità la usava con Tonino e Benedetto, i più monelli fra i miei compagni, poi persi per strada, che reagivano persino con calci negli stinchi ai suoi sonori ceffoni. Qualche mattina, dopo la rituale recita del Pater Noster e dell’Ave Maria, i due brindavano con i calamai, e, imitando l’eucarestia, recitavano insieme “Questo è il calice del mio sangue”, e poi bevevano in un fiato tutto l’inchiostro, mentre la scolaresca scoppiava a ridere di quello scherzo un po’ blasfemo, senza preoccuparsi per niente che potessero avere mal di stomaco. Dopo un duro, manesco rimprovero, la maestra Pepino chiamava subito la bidella per far rifondere l’inchiostro ed evitare scuse al momento del dettato. E quando lei entrava, il tempo sembrava fermarsi fino a quando non aveva terminato il lento riempimento dei calamai, sotto i nostri attentissimi sguardi, con una panciuta e pesante bottiglia che lei reggeva con entrambe le mani.

La prima pagella era piena di dieci, e alla fine dell'anno mi sentivo già il più bravo della classe. Anche nonna Peppina era stata la prima della classe, ma non aveva potuto continuare gli studi perché la sua famiglia era povera. Mi raccontava spesso di papà, che faceva i compiti in piedi, sul comodino della camera da letto, dove teneva quaderno, penna, calamaio, gomma, e libro sussidiario. Per non farlo studiare in una posizione così scomoda, gli aveva comprato un’antica scrivania dall’agente delle tasse. Era stato un grosso sacrificio sborsare quindici lire agli inizi degli anni ’20, ma aveva reso felice il suo Nicola, premiandone la bravura. In uno di quegli anni nonno Gennarino era ritornato dall’America, dov’era emigrato circa un decennio prima, ed erano poi nati zia Lucia e gli zii Angelo e Michele, ch’erano gemelli ma non si somigliavano per niente.

Nonno faceva il fattorino con la SITA e la mattina si alzava prestissimo perché la corriera per Avellino impiegava quasi due ore per attraversare i paesi, consegnare la posta e far salire i passeggeri, passando per la lunga e ripida salita della Serra, che iniziava a Venticano e finiva a Pratola Serra. A me piaceva molto ascoltare nonno che raccontava com’era andata quella scalata quando c’erano state delle difficoltà. Qualche volta, per il pericolo di slittamento per neve o pioggia, avevano fatto spostare in fondo tutte le persone per appesantire il carico sulle ruote posteriori, e così la corriera ce l’aveva fatta. Altre volte Peppino lo chauffeur era stato costretto addirittura a far scendere quasi tutti per alleggerire il carico e superare così lo “scivolatoio”, che era il punto più duro della salita, proprio alla fine di Dentecane. Giunti al culmine del dosso, dove la pendenza si attenuava, nonno cercava ai bordi della strada qualche grossa pietra per collocarla dietro una ruota posteriore, come un rudimentale freno di sicurezza. Imbarcati poi i passeggeri, che intanto avevano percorso a piedi il tratto di salita più dura, la corriera ripartiva, innestando la prima ridotta, che era una marcia più lenta ma più potente della prima, mantenendola per più di un chilometro. Questi racconti si colorivano così di avventura, perché quel tremendo passo della Serra, che non conoscevo, eccitava la mia fantasia e mio nonno e Peppino lo chauffeur, molto amici, mi apparivano come gli eroi di un’impervia e rischiosa traversata, usciti da una delle mie prime romanzesche letture, ma più reali e perciò, certamente, più veri e sofferti. Come il viso di nonno, sul quale anche i miei occhi di fanciullo riuscivano a cogliere la stanchezza di una giornata, ma anche la gioia di raccontarmela, sorridendo nel vedermi curioso e divertito.

Anche nonna Peppina si alzava presto la mattina e verso le otto preparava la colazione, solitamente due uova a zabaglione con molto zucchero per i due figli più giovani, mentre mio padre preferiva succhiarsi un uovo crudo, bucato sopra e sotto. Partivano poi per il lavoro, mio padre per Ariano Irpino, con la Topolino nera che aveva comprato a Mirabella Eclano nel ‘48, zio Michele per la Pretura di Vitulano e zio Angelo per la scuola media, dov’era professore di lettere. Avvicinandosi l’ora del pranzo, mia madre, colta dall’ansia, si portava sulla panoramica via Limiti per guardare se spuntava sul lontano orizzonte qualche macchina. L’inizio del lungo rettifilo che conduce al paese dista più di due chilometri in linea d’aria, per cui lei non poteva avvistare altro che un puntino nero che si muoveva. Però a quel tempo il traffico era così scarso, anche per l’ora, che le probabilità che si trattasse della Topolino del marito erano così alte che lei, appena avvistato quel puntino nero, tornava subito a casa a passo sveltissimo e metteva senz’altro a cuocere la pasta. Nonna Peppina l’ansia non la dava a vedere, ma quando i figli aprivano il portone di casa li abbracciava e ringraziava Iddio che glieli aveva riportati, come lei diceva, “in salvamento”, quasi che il viaggio fosse sempre una rischiosissima avventura da cui era difficile tornare vivi.

Ancora più presto si alzava, una volta a settimana, per fare il pane. Per fortuna il forno si trovava nel vicolo che fiancheggia la casa e questa aveva una porta che si apriva proprio dirimpetto. Quel vicolo brulicava di donne di prima mattina, che di solito si contendevano la precedenza. Con le mani impegnate a reggere sulla testa la tavola carica di panelle e con il calore che si sviluppava in quel punto, la situazione non era tuttavia di quelle ideali per poter litigare a lungo. Quando però appariva evidente che ci provavano gusto e gli scambi verbali assumevano toni oltremodo vivaci, correvo ad affacciarmi all’ultima finestra, che dava proprio sull’area critica, per godermi il finale di quelle scaramucce. A parte un dialetto più fiorito di quello dei miei compagni di gioco, provavo interesse e divertimento nell'osservare l’abile tattica di occupazione di alcuni scalini di accesso alle case vicine, due da una parte e due dall’altra, su cui, appena liberati dalla tavola di turno, un’altra donna piazzava subito la sua, come se stessero giocando ai quattro cantoni e io fossi lo spettatore di una gara dal risultato incerto. Mi divertivano alla fine gli interventi decisi della fornaia, che, avvalendosi di una perentoria verbosità ed anche di qualche energico spintone, riusciva a fare da arbitro della partita, riportando la pace fra le litiganti ed assicurando alle loro famiglie, per una intera settimana, il buon pane quotidiano.                                                                  

martedì 30 agosto 2016

SAGGIO (La poesia dal Rinascimento al Barocco)


LA  POESIA  TRA  CINQUECENTO  E  SEICENTO

Il quadro storico dell’Europa e dell’Italia



La critica situazione dell’impero germanico alla fine del XVI secolo, diviso dalle questioni religiose (la Riforma luterana: Lutero muore nel 1546), costituzionali, politiche ed economiche, provocò al principio del secolo successivo un conflitto europeo che ebbe nella Guerra dei Trent’anni (1618-1648: anno della pace di Westfalia) il suo epilogo più significativo. Alla fine del conflitto si delineò una nuova divisione del potere in Europa e si costituì una nuova cornice giuridica di relazioni internazionali nell’ambito della quale s’impose l’idea dell’uguaglianza politica di tutte le nazioni, in opposizione all’antica concezione dell’universalità dell’impero germanico. La Francia e la Svezia, gli stati garanti di questo nuovo ordine, divennero le nuove potenze egemoniche del continente, a discapito degli Asburgo.



Inquadramenti della poesia nel periodo storico ed artistico in genere



Ogni arte non può non risentire del clima culturale, in senso ampio, in cui vive e si manifesta e, più specificamente, del momento storico, filosofico e scientifico, delle evoluzioni delle condizioni economiche e sociali, dell’influenza esercitata dai grandi autori delle epoche precedenti.

Il momento importantissimo di transizione dell’arte italiana, che trova il suo sbocco nel barocco, vive una temperie che risente innanzitutto di eventi storici drammatici, primo fra tutti la frantumazione dell’equilibrio politico e religioso raggiunto da Carlo V, e poi la disastrosa Guerra dei trent’anni dalla quale tutta l’Europa fu sconvolta, e poi ancora le grandi scoperte scientifiche, note, in una sola parola, come la rivoluzione copernicana.

Sono questi gli eventi che segnarono il passaggio dell’atteggiamento dell’uomo rinascimentale, sereno nella rivisitazione e nella contemplazione dei fasti del mondo classico e delle immagini profondamente religiose che uscivano dal pennello di un Leonardo, di un Michelangelo, di un Raffaello, ed invece tormentato nella seconda metà del secolo XVI, nel quale si andava man mano accentuando la profonda trasformazione avvenuta nella società con la prevalenza, ad un secolo dalla scoperta dell’America, delle forze produttive borghesi, mercantili, imprenditoriali su quelle feudali. La crisi del Feudalesimo si avvertì particolarmente nell’Italia Meridionale, dove molti Signori ne soffrirono e dove quella del grande madrigalista irpino Carlo Gesualdo costituì una delle pochissime famiglie che, con parentele altolocate come il Cardinale Carlo Borromeo, con indovinate operazioni di acquisti all’asta pubblica e con studiati matrimoni di convenienza, riuscirono a salvarsi dal pauroso declino e dalle gravissime situazioni di indebitamento in cui vennero a trovarsi tanti altri feudatari.

Nel campo filosofico l’uomo aveva stabilito, attraverso l’umanesimo, l’antropocentrismo e l’individualismo, un nuovo rapporto con Dio, che non era l’ateismo, ma neppure la prostrazione che discendeva da un sentimento fideistico sottomesso, tipico del Medioevo (“State contenti umana gente al quia/ ché se possuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria”, scriveva padre Dante circa tre secoli prima). Nel suo anelito verso l’Infinito, che le scienze gli avevano fatto intravvedere, l’uomo del tardo Rinascimento si rapporta in modo diverso con la divinità, poiché sente il bisogno di una comunione più profonda con la sapienza infinita rappresentata da Dio. Significativo l’ “eroico furore” di Giordano Bruno, tra i più grandi filosofi del Meridione, anche se è vero che, specialmente in Italia, si ebbero a subire le costrizioni ideologiche della Controriforma e con essa un freno profondo all’esaltazione della libertà di pensiero, dei suoi valori e della sua creatività.

Nell’arte, le Corti rinascimentali non vantavano e non si accontentavano più di un circolo di intellettuali, alla maniera di quelle dell’Alto Medioevo, continuatori del mecenatismo della Roma dei Cesari, ma si circondavano di artisti di ogni genere, pittori, scultori, musici (si pensi alla corte degli Estensi, dove approdarono sul finire del ‘500 sia Carlo Gesualdo che Torquato Tasso), e soprattutto di architetti affinché si accrescesse la magnificenza delle città, fra le quali bisogna porre al primo posto, per l’influenza che ebbe sull’opera di tantissimi artisti, la Curia pontificia romana. Nelle corti rinascimentali il letterato doveva ormai dividere il suo spazio con gli artisti, poiché si cercava l’eleganza e la maestosità. Nei primi decenni del ‘600 si tendeva decisamente a stupire, con uno slancio delle sculture e delle architetture verso lo spazio esterno (come nel Gian Lorenzo Bernini del superbo Colonnato di S. Pietro o del Baldacchino che vi troneggia all’interno) o con l’isolamento delle figure, fissate ciascuna dalla intensità di fasci luminosi nel momento dei loro drammi esistenziali (come in Caravaggio).

Il poeta aderisce alla vita, perché quello della poesia è un tema aperto all’Infinito ed infinite sono le vie che permettono all’uomo di avvicinarsi a questa ferma situazione dello spirito in un determinato periodo della sua storia. Il poeta non rinnega mai la vita anche se attraverso la disperazione riconosce l’aridità e la dispersione del cuore degli uomini, perché gli uomini chiedono che il poeta canti la vita e la verità, la gioia se gioia, il dolore se dolore, il delitto, la psicosi, la miseria, l’amore. Gli uomini non sanno nulla della vita e della verità a loro contemporanee e si vogliono perciò confrontare con l’animo dei poeti, il più sensibile e capace di capire (è la poesia in ultima analisi la più alta delle arti, che non copia la realtà sensibile ma attinge alle idee universali e la intuisce: Platone), per sapere se quella che vivono è vita, se quella in cui credono è verità, e se il poeta ha le loro stesse visioni della vita e della verità (così Quasimodo).

E così, come per i poeti del “Dolce Stil Novo” il tema principale è l’amore e l’idealizzazione della donna che per sua natura più di tutti lo rappresenta, giacché quel secolo, venuto dopo Francesco d’Assisi, aveva ritrovato la gioia di vivere nella visione di un mondo in cui tutto e tutti erano Creature di Dio; come i poeti del Rinascimento esaltano l’uomo e la sua attività, ed anche la natura, che non vedono come luogo di peccato ma come luogo dell’agire e della realizzazione di tutte le potenzialità umane; così i poeti dell’epoca barocca, superata la fase del Manierismo, povera d’ispirazione perché dominata dalle opere dei grandi predecessori (Francesco Petrarca, soprattutto, con riguardo alla poesia d’amore in generale ed al madrigale in particolare), operano un ritorno alla teologia e alla scienza, innovano il canone estetico del rappresentabile, facendo divenire descrivibile, talvolta con un vero e proprio oltraggio al bello, anche il brutto ed il deforme, ed annoverano infine anche il merito di aver avuto per primi il senso di una “letteratura nazionale”. Alle grandi capitali dell’Umanesimo (Venezia e Firenze, Roma e Napoli), nuovi centri culturali si affiancano e si distinguono per vivacità e continuità di voci poetiche.

Il secolo cominciato con l’Accademia della scienza (i Lincei di Federico Cesi, Roma, 1603), si chiuderà con la nascita dell’Accademia d’Arcadia, il cui fondatore, Giovan Mario Crescimbeni, pubblicherà quella “Istoria della volgar poesia”, 1698, che è il primo documento che rivela anche la consapevolezza della varietà della letteratura italiana.              

                                                                                                     Gennaro Iannarone

Il Cinquecento (II metà del secolo)



Pietro Bembo



E’ il poeta-cardine da cui bisogna partire per comprendere il “Manierismo”. Opere principali sono “Prose della volgar lingua” (1525) e “Rime” (1530).

“Massimo artefice del classicismo volgare (funzione normativa della poesia del Bembo) e, nel contempo, depositario provocatore della combinatoria manierista che tenderà ad incrinarne la tenuta”. ”Egli fu tuttavia il sistematore di quell’ “Umanesimo volgare” che era lo sbocco naturale e necessario del Rinascimento”

(pagg. 709-710) : “Quando, forse, per dar loco….”



Baldassarre Castiglione



Opere principali sono “Il libro del cortegiano” e “Tirsi”

“Il tratto più caratteristico della lirica del Castiglione è la tendenza ad accentuare gli aspetti più grandiosi, più densi di “gravitas” del modello petrarchesco”

 (pag. 723: “Superbi colli e voi, sacre ruine,…….)”



Petrarchismo e Manierismo



Premesso che la lirica rappresenta la fase di transizione nell’arco temporale che congiunge la seconda metà del cinquecento ai primi decenni del seicento, e che segna il passaggio dal Rinascimento al Barocco attraverso il Manierismo, “occorre guardare al Bembo come l’antesignano dell’ortodossia e come suggeritore di possibili trasgressioni al suo interno (disimmetrie ritmico-sintattiche e logico-strofiche), onde evitare ogni rigidità storiografica nel contrapporre al petrarchismo il manierismo che ne è invece una riformulazione radicale, ma in termini già previsti, tutto sommato, dal codice”. In questa fase di transizione gli impulsi di Venezia e di Napoli sono attenuati da Firenze.

Poeti della transizione: Giovanni della Casa, Luigi Groto (749), Celio Magno, Bernardo Tasso, Bernardo Cappello, Gaspara Stampa (747), Galeazzo di Tarsia, Giovan Battista Strozzi, Chiara Matraini (779), Michelangelo Buonarroti, Francesco Maria Molza, Domenico Venier (745) (Venezia), Ascanio Pignatelli, Luigi Tansillo, Ludovico Paterno, Bernardino Rota, Angelo Di Costanzo, Ferrante Carafa (Napoli), Francesco Beccuti detto Il Coppetta.



Rime spirituali

Umanesimo e classicismo hanno tenuto sempre “fuori canone” gli scrittori religiosi, sulla scia di una lettura desanctisiana del nostro Cinquecento che, per un eccesso di vigore ermeneutico, cioè interpretativo dello spirito del secolo, aveva lasciato fatalmente in ombra tale area tematica, limitando l’indagine sul punto soltanto ai secoli XIII e XIV.

Determinante è stato anche il dominio del “codice petrarchesco”, ossia della lirica amorosa, rispetto alla quale un primo tentativo di lettura fu compiuto da Girolamo Malipiero (pag. 802) con il suo “Petrarca spirituale”(1536), cui seguirono i “Salmi” e  “La passione di Giesù” di Pietro l’Aretino, che si cimentò, stranamente, in una produzione di carattere sacro.

Il momento fondativo della lirica spirituale è tuttavia costituito dalle Rime spirituali (pag. 806) di Vittoria Colonna (1546), che influenzerà produzioni minori dello stesso carattere, nel quadro storico della Riforma e della Controriforma, da parte di personalità dottrinalmente irrequiete. Certamente non si è più a contatto con le certezze ed il misticismo del Trecento ed appare lontanissimo uno Jacopone da Todi. Interessante è sapere che, in questo clima, abbiamo un Michelangelo Buonarroti (812), che faceva parte del cosiddetto circolo di Viterbo, composto da elementi di spicco dell’evangelismo, dove nel 1538 aveva avuto modo di conoscere Vittoria Colonna.

Tuttavia, come conseguenza immediata del Concilio di Trento, si ha che a partire dalla fine degli anni 50 del secolo XVI avviene una trasformazione profonda ed un brusco cambiamento, riconducibili ad un enorme apparato di controllo, di repressione e di propaganda, con la comparsa di una fitta rete di figure come il confessore o la guida spirituale, e con il fenomeno dei libri messi all’Indice e dei processi penali intentati contro scrittori e poeti.

Pur sottolineando l’immediatezza espressiva e la trasparenza del dettato di Gabriele Fiamma (824), che attenua nel manierismo anche l’asprezza dell’esperienza mistica, o la sublimazione del codice lirico in un sentimento di perdita irreparabile che in Celio Magno (831), uno dei più significativi esponenti, è solo in parte compensata dalla speranza del perdono divino, in generale comunque si assiste, nella seconda metà del secolo, ad un ripiegamento interiore della lirica spirituale, all’accentuazione della dimensione del “patimento” individuale, che finisce per essere il necessario “esercizio spirituale” per poter ricostruire dentro di sé i “luoghi” fondamentali dell’itinerario devozionale.



TORQUATO TASSO

Occupa un posto a sé nella poesia dell’ultima parte del secolo poiché con la comparsa delle sue Rime avviene, più di due secoli dopo il Petrarca, la rifondazione effettiva della nostra tradizione lirica.

Poiché, tuttavia, a Torquato Tasso sarà dedicato dalla Fondazione più di un incontro culturale da parte di altri relatori, noi non ci soffermeremo in questa sede se non per richiamare un madrigale che Carlo Gesualdo musicò nel Libro secondo della sua opera musicale, nel periodo felice dei suoi rapporti con il poeta (pag. 855). Completando quel che dicemmo nell’incontro del 7 dicembre sulla poetica di Carlo Gesualdo e nel tracciare le differenze fra i due nell’atteggiamento di fronte alle pene amorose, trasformate assurdamente in “gioia del soffrire” in Carlo Gesualdo, e trascolorate dal dato umano a quello naturale del paesaggio, ma prive della componente gioiosa nel Tasso, vi leggeremo anche “Qual rugiada o qual pianto….(pag. 872)







Il Seicento (I metà del secolo)



Molteplici motivi inducono a considerare il secolo XVII come il periodo in cui muore la vecchia Europa e nasce una nuova identità europea. Sul piano storico non ci possiamo soffermare più di tanto, ma siccome possono ravvisarsi delle analogie con il momento che stiamo attualmente attraversando, è interessante osservare che tra la fine del ‘500 e il ‘600 la presa di coscienza della diversità e molteplicità delle forme di esistenza, di modi di pensare, di produrre ed organizzare la società, derivante dalla conoscenza delle popolazioni americane, asiatiche, africane, finisce per costituire un rafforzamento della coscienza di tutti gli Europei di appartenere ad una parte del mondo che diventa sempre più piccola nel confronto con gli altri continenti, ma nello stesso tempo appare dotata di specificità e di caratteri peculiari, quali la razza e molti fattori culturali, che ne determinano l’identità. Quanto alle analogie cui si accennava possiamo noi, oggi, affermare altrettanto? La nostra Europa attuale, quella dell’euro che fa tanto soffrire le nostre tasche, ci sembra una grande anche se difficile realizzazione, ma non è poi, in verità, che una piccola realtà di un mondo che pare aver acquisito dimensioni galattiche, di fronte al quale, pur nella notevole mescolanza di culture, conviene però racchiuderci in una dimensione etico-cristiana, rispettosa della scienza tecnologica e che non abusi di termini di cui piace riempirci la bocca, come la laicità, senza comprendere appieno dove portano, dato che sembra che portino ad un liberismo incontrollato (piace fare soltanto quello che giova a sé stessi, in una visione narcisistica del senso della vita, priva dei valori fondamentali dell’altruismo, del rispetto e dell’amore per gli altri), privo di punti seri di riferimento, che possono provenire soltanto dalla unità della cultura.

Anche per questi motivi di ordine storico, l’Europa del Seicento vive dunque un momento importante di unificazione culturale (che penso sia anche un effetto della universalità della scienza, che non soffre i limiti delle diversità linguistiche e culturali), soprattutto perché dappertutto si assiste ad una laicizzazione della cultura. Ciò può apparire in contrasto con un altro elemento tipico del secolo, cioè la diffusissima ripresa della spiritualità e di un accentuato fervore religioso. Tuttavia, riconoscendo, tra l’altro, che il Seicento è in realtà un periodo di forti chiaroscuri e di contraddizioni clamorose, i due fenomeni non entrano in conflitto proprio perché la laicizzazione si manifesta soprattutto come “emancipazione” di importanti branche della conoscenza, della ricerca scientifica e filosofica, dell’arte, dalle problematiche religiose e metafisiche, senza che questo vada ad interferire nel campo della fede. Si tratta in particolare del riconoscimento di ambiti diversificati ed autonomi nei quali la personalità umana si realizza compiutamente. Si tenga conto che l’elemento innovativo più rilevante che si manifesta in questo periodo nell’ambito della religiosità e della morale è il ruolo fondamentale che comincia ad essere attribuito all’atteggiamento etico individuale, fortemente interiorizzato; così che è sul piano personale che ciascuno  cerca di risolvere il problema di far convivere ed armonizzare fede e conoscenza, religiosità e ricerca di una verità scientifica o filosofica. Il Seicento è il secolo della rivoluzione scientifica, movimento che  coinvolge i gruppi intellettuali di tutti i paesi che si ritrovano impegnati su di un campo di ricerca comune e procedono mantenendosi in stretto contatto fra loro; è proprio in questo periodo che si gettano le fondamenta di quella comunità scientifica europea che, al di sopra dei confini, delle divisioni religiose, della diversità di costumi e di lingue, comincia ad essere il riferimento costante per chiunque eserciti il proprio ingegno e spenda le proprie energie nella ricerca.

Ma veniamo alla poesia!

La poesia del Seicento parte da uno squadernarsi del mondo nelle “sante meraviglie” della scienza del remoto, tanto nel tempo, come nei sonetti sul Genesi e sulla feracità della natura, quanto nello spazio, poiché, cannocchiale e microscopio, avvicina il macrocosmo al microcosmo, la luna alla lucciola. E’ una “poesia della scienza” che si allarga (si pensi alla serie di sonetti di Girolamo Fontanella: “Al diamante”: “Pietra che luminosa ardi tremante”, “Alla perla”, “Al corallo”, “Al garofano” , “Al muschio”, “All’api”………………………………………..

Come già si è accennato, dopo il primato della lirica petrarchesca un’attenzione nuova a generi e forme recenti e sperimentali caratterizza l’età del Concilio di Trento, che con il suo apparato apologetico rinnova la poesia propriamente teologica, nutre ed autorizza quella mistica (così come influenza l’arte figurativa: Gian Lorenzo Bernini, Caravaggio). Primeggia tuttavia l’intento della meraviglia tipicamente barocca.

Si ha così, con Gabriello Chiabrera, l’obliterazione dell’eredità petrarchesca, pur sottilmente presente attraverso il filtro sfigurante di Torquato Tasso ed il melismo manieristico, perché c’è l’impiego di versi brevissimi e il dilagare di estranee al modello di Pietro Bembo. Il “meraviglioso” non è ancora trasferito al livello delle immagini come in Giovan Battista Marino, ma nell’artificiare poetico della metrica e del ritmo, come nelle Canzonette (pag. 28: Fedeltà d’amore). 

Con Tommaso Campanella il verso filosofico (pag. 49) costituisce il più efficace strumento del pensiero. La sua poetica, che è un ritorno a Dante, come modello di una poesia che attinge all’unica vera sorgente di verità: quella rivelata dal Cristianesimo, vuole assumere il ruolo della “rappresentazione del significato del mondo”. Toccante è la “Lamentevole orazione profetale dal profondo della fossa dove stava incarcerato”, che è composta di otto madrigali (pag. 53: Madrigale I). Si sa che Tommaso Campanella, a causa delle sue visioni politiche e religiose (ricomposizione di una unità politico-religiosa dell’Europa, minacciata dai Turchi, sotto l’egemonia del Papa e della Spagna) fu più volte arrestato e trascorse gran parte della sua vita in carcere, 27 anni, i primi dei quali assunsero, in Napoli, forme mostruose di detenzione e di tortura. Anche in lui si può riguardare un’anima tormentata, ma le retrospezioni della sua poesia (il ritorno a Dante) rivelano momenti di ansia, di vagheggiamento di un ritorno alla natura e nel contempo di esaltazione della grandezza dell’uomo, che fanno pensare al rinascimento, piuttosto che al barocco.

Con Giovan Battista Marino, napoletano, maggiore esponente della poesia del secolo, oggetto allo stesso modo di apologie esaltate e di critiche feroci dirette non solo alla sua poesia ma anche e soprattutto alla sua vita, il progresso degli studi sul Seicento gli riconoscono una cultura eclettica ma superficiale, un gusto finissimo, una curiosità tale da renderlo febbrile ricercatore di novità letterarie e mondane, ciò che lo portò ad allontanarsi da Napoli, dove conobbe tra il 1588 e il 1594 Torquato Tasso e dove compì soltanto la sua prima formazione, per raggiungere poi i centri più all’avanguardia del Nord (da Venezia a Bologna, a Genova, a Torino e poi in Francia), nei quali poté intrecciare i rapporti più utili alla sua vita e ai suoi interessi. La sua poetica, le sue opere e quelle degli autori minori del Seicento saranno oggetto di un altro seminario.