martedì 18 ottobre 2016

IL CASO GESUALDO


IL CASO  GESUALDO



“IL CASO GESUALDO” è il titolo di un processo celebrato a Gesualdo il 12 settembre 2004 dalla Compagnia teatrale napoletana di Ciro Sabatino ed interpretato tra l’altro da magistrati togati, il Presidente Vincenzo Albano e il Pubblico Ministero Raffaele Marino del Tribunale di Napoli, e dal difensore on-le avv. Vincenzo Maria Siniscalchi. Si è trattato di un ipotetico processo di appello contro la decisione emanata dal vicerè spagnolo in Napoli, don Giovanni Zuniga de Miranda, qualche giorno dopo il ben noto duplice omicidio di Maria d’Avalos e di Fabrizio Carafa commesso nella notte fra il 16 e il 17 ottobre 1590 dal principe Carlo Gesualdo, che li aveva sorpresi in flagrante adulterio nella propria camera da letto del palazzo di piazza S. Domenico Maggiore. Il viceré bloccò le indagini, ed in particolare l’audizione di testi da parte dell’Ufficiale delle guardie Mastrodatti della Gran Corte della Vicaria, ed archiviò la pratica, ritenendo di trovarsi senz’altro di fronte ad un delitto di onore, che all’epoca non era punibile neppure con pene minori, poiché il fatto restava indifferente al diritto punitivo del Regno di Napoli. Avrebbe poi consigliato al principe assassino di allontanarsi da Napoli e di rifugiarsi temporaneamente in uno dei suoi feudi, per evitare il rischio di vendette da parte delle famiglie degli uccisi.

Per comprendere tuttavia la vicenda sotto il profilo giuridico, occorre fare attenzione all’artificio cronologico operato da questa sorta di spettacolo semiserio, che, nel celebrare a carico di Carlo Gesualdo quel processo che fu bloccato dal viceré spagnolo, ha finto di collocarsi in epoca anteriore alla legge 5 agosto 1981 n. 442, abrogativa dell’art. 587 del Codice penale, che era così formulato: Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge con la figlia o con la sorella”. E’ evidente infatti che con riferimento all’epoca attuale il problema della sussistenza o meno di un delitto di onore non ha più senso giuridico, ma potrebbe essere affrontato soltanto per accademia, come si tenterà di fare appunto con questo scritto. Tutto il dibattimento si è svolto, in uno scenario variopinto di perfetti costumi d’epoca con cui si celebra nel paese irpino il Palio dell’Alabarda, con le regole dell’attuale processo penale, attraverso l’esame dei testimoni non ascoltati dal Mastrodatti, per stabilire se vi era stata o meno premeditazione, sempre ritenuta incompatibile con il delitto di onore.

Tale aggravante veniva ravvisata dal diritto romano nell’omicidio commesso “frigido pacatoque animo”, punito più severamente per la maggiore riprovevolezza di una uccisione compiuta con freddezza d’animo, contrapponendo i delitti premeditati a quelli passionali o d’impeto. Più complessa la moderna elaborazione giuridica dell’aggravante della premeditazione. Essa viene costantemente configurata nella giurisprudenza italiana come una condizione personale soggettiva caratterizzata da un elemento cronologico, consistente in un apprezzabile lasso di tempo intercorrente tra l’insorgere del proposito criminoso e la sua pratica attuazione, e da un elemento psicologico basato sulla persistenza nel soggetto del proposito criminoso, senza alcuna interruzione e senza alcuna concessione ad idee ed a propositi diversi, cioè a far scattare la molla della resipiscenza, dell’altruismo, del recesso dalla tremenda idea di uccidere un proprio simile.

Passando ora a parlare del delitto d’onore, l’elemento che determinava la degradazione dell’omicidio doloso comune in tale figura speciale attenuata era costituito appunto dal movente dell’azione, la cosiddetta causa d’onore. L’azione cioè doveva essere compiuta al fine di evitare il disonore che si riteneva derivare dalla notorietà di una illegittima relazione carnale. La ragione per cui la causa d’onore diveniva meritevole di un trattamento meno severo era il perturbamento psichico, lo stato d’ira cagionato dalla scoperta della relazione carnale del coniuge o della sorella. Tale grande perturbamento aveva indotto il legislatore ad usare benignità verso chi agiva sotto la sua influenza, come si desume chiaramente dal tenore letterale dell’abrogato art. 587 Codice penale, che tuttavia aveva posto come condizione indispensabile per il più benevolo trattamento la immediatezza della reazione dell’omicida alla scoperta della relazione illegittima.

Come si è accennato poco sopra, se si pone attenzione da un lato alla definizione romanistica della premeditazione e dall’altro a quella moderna su cui ha fatto leva il pubblico ministero Raffaele Marino per affermare che a causa della premeditazione il principe assassino non poteva invocare la minor pena prevista per il delitto di onore, se ne coglie l’enorme differenza, che rappresenta un solco incolmabile tra i disvalori umani comunemente avvertiti dal popolo e quelli racchiusi in una norma giuridica, la quale poneva talvolta i giudici, proprio per il tecnicismo della interpretazione, di fronte al drammatico bivio di una decisione che poteva oscillare tra l’irrogazione di una pena dai tre ai sette anni di reclusione ( abrogato art. 587 del Codice penale) e quella di una pena non inferiore ad anni ventuno di reclusione, pur nell’ipotesi di concessione delle attenuanti generiche.

Dire infatti che Carlo Gesualdo uccise Maria e Fabrizio con animo freddo e pacato è un’affermazione assurda perché contraria alla realtà dei fatti, com’è stata ricostruita attraverso le testimonianze e le descrizioni delle ferite che recavano i corpi delle vittime, rivelatrici senza dubbio di furore omicida, come le numerosissime coltellate che furono inferte ai due amanti e, tra queste, l’avere il principe di persona conficcato nel basso addome di lei il pugnale contrassegnato da una V, sigla dei Venosa, come a stigmatizzare simbolicamente, con una sorta di marchio, le ragioni del delitto ed a rivelare, quindi, la rabbiosa determinazione che aveva presieduto alla sua esecuzione. Azione compiuta, quindi, nello stato di grande ira provocata dal tradimento di lei e quindi non freddamente ma nello stato di sconvolgimento psichico insorto in lui nel momento in cui, con la sorpresa in flagrante adulterio, aveva avuto la conferma di quanto riferitogli dallo zio Giulio. Secondo la più antica e tradizionale definizione romanistica, la premeditazione dunque non ricorrerebbe, con la conseguenza che, esclusa la menzionata incompatibilità con la causa d’onore, quest’ultima dovrebbe essere riconosciuta a pieno titolo al principe dei musici, con la conseguente applicazione, fingendo sempre di celebrare il processo quando vigeva ancora l’art. 587 e cioè oltre 25 anni fa, di una pena base molto più mite di quella prevista per il delitto di omicidio comune, anche se irrogabile più severamente per la intensità del dolo e per le crudeli modalità esecutive, e comunque da aumentare in considerazione della duplicità dei delitti (art. 81 Codice penale).

Dire invece che Carlo concepì il proposito criminoso qualche tempo prima dell’eccidio, che organizzò il delitto nei minimi particolari e lo eseguì a distanza di tempo, senza che in lui vi sia stato mai nell’intervallo un momento di resipiscenza, significa affermare che vi fu premeditazione per come viene attualmente definita tale aggravante dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Nell’ambito di tale diversa impostazione, nessuna importanza avrebbe il fatto che il principe fosse furibondo o meno nel momento in cui quella notte sorprese la moglie con Fabrizio Carafa, cioè non varrebbe a fargli riconoscere l’ipotesi del delitto di onore, così come non avrebbe rilievo che un siffatto stato d’ira fosse insorto in lui quando lo zio Giulio lo informò che Maria lo tradiva.

Orbene, continuando il discorso appena accennato, non è chi non veda quanto siano diversi e complessi, per non dire strani, gli aspetti giuridici di una vicenda umana e come non sempre concordino con la vita e con il comune modo di sentire. Il buon senso dell’uomo medio tende infatti ad attenuare la responsabilità ed a valutare con minor rigore gli omicidi passionali e d’impeto ed a ritenere invece maggiormente riprovevoli quelli compiuti per motivi diversi dall’impulso sentimentale, come ad esempio un omicidio a scopo di rapina, oppure quelli, addirittura programmati, di stampo mafioso. L’uomo della strada, cioè, forse non riesce a cogliere con il buon senso comune la maggiore riprovevolezza che c’è nella mancanza di una resipiscenza, di una recessione dall’idea omicida successivamente al momento in cui essa è insorta all’apprendimento di una notizia gravemente offensiva del proprio onore. Invece, con la immediatezza propria dell’animo popolare, egli dà maggiore importanza al motivo del delitto passionale, per cui è più disposto alla clemenza, se immagina di essere giudice del prototipo dei delitti passionali.

Perciò, tornando al processo celebrato postumo a carico del principe Gesualdo, e sempre collocandoci nell’epoca e nella sensibilità di circa trent’anni addietro, ci si rende conto che la condanna per delitto comune, con la sola concessione delle attenuanti generiche, fondate sul  successivo pentimento e sul contributo dato dall’imputato all’arte musicale, sembra essere il frutto soltanto di una sottile interpretazione del termine “premeditare”, che sembra stravolgere le ragioni di fondo della punizione attenuata di cui all’art. 587 del Codice penale. Interpretazione alla quale si può contrapporre la semplice osservazione che lo sconvolgimento psichico insorto nell’animo di Carlo allorché fu informato dallo zio Giulio della infedeltà della moglie può aver albergato in lui come un insopportabile tormento anche per un mese, fino all’esecuzione del duplice assassinio, ma non è stato accompagnato dalla certezza di una già avvenuta “scoperta” della illegittima relazione carnale, perché – occorre ribadirlo chiaramente e con forza – una cosa è la delazione dello zio Giulio, altra cosa è la “scoperta” fatta personalmente.

Ma anche a voler seguire l’impostazione giuridica data dalla Corte, ossia quella della incompatibilità, la sussistenza dell’aggravante della premeditazione appare sorretta da fragili elementi di fatto e più di una lacuna emerge nella ricostruzione dibattimentale della tragica vicenda. Diciamo però, insieme con il Presidente Albano, che è stata una rappresentazione giocosa ed aggiungiamo che ci rendiamo ben conto che non avrebbe avuto senso confermare la condanna per delitto d’onore, la quale avrebbe finito per coincidere con la decisione emanata dal viceré di Napoli, inquinata da un forte sospetto di favore verso un colpevole appartenente all’alta nobiltà. Tuttavia, pur considerando l’intento giocoso, non si può però giammai rinunciare ad una valutazione giusta delle azioni illecite, sol per prestare adesione ad astratte formule giuridiche, per giunta non fondate sul tenore letterale e sullo spirito delle norme, ma frutto di elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali molto spesso opinabili.

Infatti, chi ha seguito con attenzione “Il caso Gesualdo”, avrà notato che, a precisa domanda del pubblico ministero, lo zio Giulio rispose di aver informato il nipote Carlo del tradimento di Maria “pochi giorni, una settimana, forse un mese” prima del delitto. Lo zio Giulio ripetette nella deposizione la parola “mese”, come per raffermare il proprio ricordo e quindi per rappresentare ai giudici come più certo questo intervallo di tempo rispetto agli altri, di qualche giorno o di una settimana, da lui pur dichiarati. Inoltre, pur dando per certo che il principe sia stato informato della infedeltà della moglie circa un mese prima della tragica notte, sarebbe superficiale ritenere senz’altro che egli abbia creduto ciecamente a quanto gli era stato riferito. E’ nozione di psicologia ormai acquisita in questa materia tanto delicata che il tradito tende a scacciare dalla mente l’idea che la donna di cui è innamorato lo tradisca. Dato che quell’idea lo tormenta e lo fa soffrire insopportabilmente, egli tende nella gran maggioranza dei casi a non credere ai riferimenti altrui ed a pensare che si tratti solo di insinuazioni e di pettegolezzi.

Ma c’è di più. Secondo un vecchio detto, “quello del cane si vede, quello del gatto si sente, quello dell’uomo si suppone”. Perché, si suppone? Perché l’essere umano, a differenza degli animali, compie riservatamente l’atto sessuale. Per di più, la coppia che tradisce usa tutti gli accorgimenti per non farsi scoprire e solitamente gli amanti clandestini sono bravi strateghi nel mantenere lo stato di clandestinità dei loro incontri, non avendo nessuna importanza, nel nostro come in altri casi del genere, che Maria e Fabrizio si siano esposti a tal punto, negli ambienti della Napoli del tempo, da far “supporre” l’esistenza di una loro relazione sentimentale. Ed anche donna Maria avrà sempre confidato che il marito pensasse a pettegolezzi, giustificati dalla sua avvenenza, il che costituisce un aspetto psicologico classico al quale si affida la donna bella e infedele per “gestire” agevolmente la tresca e per togliere convincentemente dalla mente del consorte il dubbio che in tali casi solitamente lo assilla. Ed è per questo che costituiscono una “classica” in questa materia anche le finte partenze, i finti impegni che l’uomo rende noti alla moglie sospettata per tenderle una trappola e per sorprenderla poi sul fatto, ossia, in ipsis rebus venereis, proprio perché è questo l’evento che dà la certezza piena al coniuge tradito della relazione carnale adulterina, che cioè gliela fa “scoprire”, com’è nel dettato della legge, la quale, non usando altre formule, come ad esempio “nell’atto in cui ne ha conoscenza”, ha usato una locuzione (“…nell’atto in cui ne scopre …”) che fa intendere una conoscenza diretta o a questa pienamente equivalente, e non indiretta, come lo era pur sempre la delazione dello zio Giulio. Per tale motivo, in simili vicende, chi ha il sospetto ricerca sempre ed ansiosamente la certezza prima di prendere qualsiasi decisione, più o meno grave, fosse pure quella incruenta di cacciare via di casa la moglie fedifraga o, come ai tempi nostri – e meno male che ora sono molto più frequenti queste scelte civili – di intentare una causa di separazione per colpa dell’altro coniuge.

Dunque, si badi bene, di “scoperta” non si può parlare a proposito del colloquio tra il principe Carlo e lo zio Giulio, non risultando a tutto voler concedere che don Giulio abbia portato a conoscenza del nipote elementi così precisi circa l’infedeltà di Maria da poter essere equiparati ad una “scoperta” da parte di Carlo, come, ad esempio, l’avergli detto di aver visto, lui don Giulio, i due amanti “in ispsis rebus venereis”. Di conseguenza non si può essere rigorosamente certi che il proposito di uccidere i due amanti sia insorto dopo il colloquio con lo zio, cosicché viene evidentemente a mancare un punto fermo (momento di insorgenza del proposito delittuoso) per accertare, nella configurazione moderna dell’aggravante, se sussista l’estremo cronologico, cioè l’intervallo di tempo in cui il proposito di uccidere sarebbe rimasto irremovibilmente fermo nell’animo del principe.

In definitiva, è mancata la esatta impostazione giuridica del problema della incompatibilità tra premeditazione e delitto d’onore, la quale viene in tutta la sua evidenza quando si ipotizza, per fare degli esempi banali ma non infrequenti, che la persona tradita abbia “scoperto”, guardando attraverso il buco della serratura o anche leggendo una compromettente lettera della moglie, la di lei illegittima relazione carnale, ed abbia concepito in quel momento l’idea di uccidere, attuata successivamente mediante una organizzazione accurata dei mezzi, senza mai recedere da quella idea. In questo esempio si conciliano perfettamente il principio romanistico che più rigorosamente punisce la freddezza d’animo e quello moderno della fermezza e durata del proposito delittuoso. Al contrario, nessuna mente che governi un serio giudizio, nessuno sforzo logico può escludere che tutta la meticolosa organizzazione del duplice omicidio sia stata compiuta sotto condizione, cioè in vista dell’ipotesi che i due amanti venissero sorpresi in flagranza. Ed allora non può parlarsi più di “scoperta” se non nel momento in cui si è entrati in quella stanza nella famosa notte dell’ottobre 1590. Se è così, la reazione del tradito è stata immediata, a nulla rilevando che egli si fosse già minuziosamente preparato all’evento, poiché questo è rimasto sempre incerto nella sua mente, avendo egli concepito una esecuzione dell’eccidio sempre condizionata al raggiungimento di un’assoluta certezza del tradimento coniugale, non datagli – è bene ribadirlo – dai riferimenti dello zio Giulio, i quali a dire il vero hanno impressionato oltremodo la Corte giudicante.

Inoltre, non si può sottacere che il senso comune rimane indubbiamente perplesso di fronte ad ogni sentenza che possa apparire preconfezionata. Ancor di più da un processo governato dall’intento di condannare Carlo Gesualdo con il massimo rigore, per affermare l’indipendenza della Magistratura nei confronti del potere pubblico, o chissà quale altro principio immortale. E poiché non è stata indicata la pena irrogata dalla Corte all’imputato, occorre far capire al solito uomo della strada a quali concrete conclusioni implicite siano pervenuti i giudici in quel serale processo in piazza, tanto più che, escluso il delitto d’onore ed applicata la pena stabilita per l’omicidio comune, questa, con l’aggravante della premeditazione, raggiunge astrattamente il tetto dell’ergastolo, che meraviglierebbe ogni cittadino, e non certamente per amore della musica creata dal principe, ma semplicemente perché questi deve essere sempre considerato, senza dimenticarlo mai, come un essere umano, nel quale non si potrebbe pretendere un atteggiamento corrispondente, come da una felicissima espressione dell’avvocato Siniscalchi, ad una dimensione finnica o norvegese dello spirito, cioè a quella dell’uomo del Nord Europa, che accetta il tradimento del coniuge come una evenienza del tutto normale nell’evoluzione del rapporto di coppia. Perciò, considerando l’effetto diminuente delle attenuanti concesse, si può ragionevolmente ritenere che la Corte abbia inflitto complessivi anni venticinque di reclusione (pena base anni venti, più l’aumento che deriva dalla identità del disegno criminoso che ha presieduto ai due delitti, congruamente quantificabile in base alla proporzionalità e alla esperienza giudiziaria, in anni cinque di reclusione.

Ogni altra attenuante è stata negata. Ma in verità non si riesce a comprendere perché mai, oltre alle attenuanti generiche, di natura discrezionale e fondate unicamente sui meriti artistici e di mecenate del principe, non sia stata riconosciuta anche l’attenuante della provocazione, dato che il fatto ingiusto della infedeltà coniugale costituì senza alcuna ombra di dubbio la provocazione al delitto. Con l’attenuante della provocazione, la pena di anni venti sopra ipotizzata sarebbe scesa ad anni tredici e mesi quattro di reclusione, per poi risalire ad anni 18 e mesi quattro con l’aumento di cinque anni per la duplicità del delitto.

Del tutto diverse sarebbero state le conclusioni concrete se Carlo Gesualdo fosse stato giudicato anteriormente al 5 agosto 1981 e gli fosse stata riconosciuta l’ipotesi attenuata del delitto d’onore. Infatti, ipotizzando la massima clemenza dei giudici nei suoi confronti, la pena base di tre anni si sarebbe ridotta ad anni due per effetto delle attenuanti generiche (esclusa la provocazione perché già insita nella causa d’onore), e, con l’aumento per l’uccisione di Fabrizio, avrebbe potuto essere proporzionalmente elevata ad anni tre o quattro di reclusione.

Se poi una tale soluzione apparisse troppo blanda, si può pensare che giudici più severi, ferma l’ipotesi del delitto d’onore, avrebbero potuto irrogare, per l’intensità del dolo, la minuziosità della organizzazione, l’impiego di sicari, la crudeltà usata verso le vittime, letteralmente massacrate, e per l’esecrabile esposizione dei corpi di cui narrano le cronache, una pena base di anni sette di reclusione, il massimo di cui all’art. 587 Codice penale. Ridotta ad anni cinque per le innegabili attenuanti generiche, applicate in misura inferiore al terzo, e riportata in su per la duplicità degli omicidi, la pena finale si sarebbe potuta assestare su anni otto, considerando l’aumento di anni tre derivante dalla uccisione di Fabrizio. Questa è una soluzione giudiziaria ipotizzabile verso la fine degli anni ’70 e con la sensibilità di quei tempi, nei quali di lì a poco sarebbe stata cancellata dal codice la figura del delitto d’onore.

Prima di chiudere, per soddisfare la curiosità dei lettori ci si può chiedere quale pena avrebbe rischiato Carlo Gesualdo dopo l’abrogazione del delitto di onore, esclusa sempre la premeditazione. Ora, la pena base prevista per l’omicidio (anni 21 ex art. 575 del Codice penale) sarebbe scesa ad anni 14 per la provocazione e poi, per effetto delle attenuanti generiche, ad anni 9 e mesi 4 di reclusione, aumentati ad anni 14 e mesi quattro di reclusione sempre per la duplicità degli omicidi.

Giunti alla fine di questa lunga esposizione su un istituto giuridico molto travagliato nella storia del diritto penale e soprattutto nella coscienza degli italiani, piace allo scrivente ricordare, anche per far comprendere meglio il mutamento di sensibilità avvenuto nella nostra società nell’arco degli ultimi trent’anni, che quando esercitava le funzioni di pubblico ministero presso la Corte di assise di Avellino (si era nel 1977 o giù di lì), questa comminò la pena di anni due e mesi sei di reclusione ad un marito che, fingendo di recarsi ad una festa di paese ma rientrando dopo qualche ora a casa, sorpresa la moglie quarantasettenne a letto con il proprio settantatreenne genitore, staccò il fucile dalla vicina parete e, dopo aver esclamato: “Ah, papà traditore!”, rivolse l’arma, caricata con due cartucce, soltanto contro di lei e la uccise attingendola con un colpo al basso addome, simbolico come il pugnale del Venosa. Fu inutile tutto lo sforzo dell’organo di accusa per far capire ai giudici, fra cui due togati e sei popolari, che quell’uomo meritava una pena molto più severa, senza alcuna attenuante o con le sole generiche in misura ridottissima, perché, nonostante la scena  che gli si era presentata davanti agli occhi, ci aveva ragionato su ed aveva effettuato una scelta, immorale nella immoralità, quella cioè di far salva la vita al proprio padre-padrone, cioè alla figura più turpe di quella squallida vicenda, e di uccidere la ancor giovane consorte, segno chiaro che la scoperta della singolare relazione carnale non lo aveva tanto sconvolto e che quindi il suo stato d’ira, pur innegabile, non lo aveva ottenebrato ma era rimasto sotto un certo controllo (quasi “frigido pacatoque animo?”). Ricordo che fu richiesta una condanna alla pena di anni sei di reclusione, sempre nell’ambito della non escludibile figura del delitto per causa di onore, come non si poteva escludere, per tornare alla psicologia del principe Gesualdo nel momento dell’omicidio, che il marito, vivendo nella stessa casa del padre, avesse avuto sentore o addirittura una certa sicurezza della tresca, ed avesse perciò finto di recarsi alla festa e di attuare quella sorpresa che gli avrebbe dato la certezza piena, come Carlo Gesualdo alla finta caccia sugli Astroni.

Questo per dire che il fulcro del delitto di onore e, in genere, di quelli passionali sta sempre nella particolare condizione di emozione e di sconvolgimento psichico in cui versa il colpevole e che compito del giudice resta sempre quello di saper cogliere l’indole dell’uomo da giudicare e le vicende di vita che lo hanno indotto al delitto, per poter poi attribuire l’esatta qualificazione giuridica e le aggravanti e le attenuanti che le diverse situazioni meritano, vero e proprio bilancino per soppesare la giusta pena in qualsiasi epoca storica, giacché, pur nel cambiamento del costume sociale, la punizione resta sempre una esemplare lezione dettata dall’immutabile senso morale, diretta quindi all’animo del colpevole, piuttosto che alle sue azioni e agli irrimediabili effetti che hanno prodotto.

Avellino 27 settembre 2006                                                  Gennaro Iannarone

                                                                                                                                                                        


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