MORTE
DI UN GIORNALISTA
(Incontro
con gli studenti nel 20° anniversario della morte di Giancarlo Siani)
Ragazzi,
chi di voi vuol fare il giornalista? Qualcuno di voi probabilmente vuol fare il
medico o l’ingegnere, o il professore, ma penso che tra voi c’è qualche
aspirante giudice. E sono anche abbastanza certo che se chiedessi a lui se gli
piacerebbe esercitare quella professione nel campo civile o in quello penale, lui
opterebbe per il campo penale. E se insistessi ancora nel domandare se
preferirebbe fare il Giudicante oppure il Pubblico Ministero, colui che vuole entrare
in Magistratura risponderebbe molto probabilmente che aspira a lavorare in una Procura
della Repubblica perché attratto dal fascino della funzione di indagatore.
È
lo stesso fascino che ha subito Giancarlo Siani.
Ma
il problema è: a chi spetta tale funzione?
Riprendo
oggi, dopo un anno che sono uscito dall’ordine giudiziario, la veste di
magistrato anche perché, essendo stato pubblico ministero in Avellino per circa
nove anni e mezzo, ho avuto molti contatti con i giornalisti, che mi sono
sempre apparsi inclini alle investigazioni e qualche volta, a dire la verità,
ne sapevano più di me delle circostanze dei delitti su cui mi accingevo a
indagare. Torniamo piuttosto alle vostre aspirazioni professionali e a quel
sogno di fare giustizia, il quale potrebbe identificarsi sia con la volontà di
fare il Giudice sia con quella di diventare un Giornalista. Però non si possono
fare insieme l’una e l’altra. Un giudice può anche scrivere, ad esempio, una “Storia
della mafia” e pubblicarla, ma, mentre fa il giudice o il pubblico ministero,
non può fare anche il giornalista, cioè pubblicare l’esito delle sue indagini,
e neppure – credo – rilasciare interviste sui risultati conseguiti.
Voi
saprete senz’altro distinguere tra un giornalismo che si occupa di politica o
dà notizie di calamità pubbliche come un terremoto, e un giornalismo che si
dedica alla narrazione dei fatti delittuosi che avvengono nella società. E
anche in quest’ultimo campo vi apparirà diverso un giornalista che informa la
pubblica opinione dei delitti di mafia, accennando anche alle indagini in corso
da parte delle forze dell’ordine o dei pubblici ministeri, da altro giornalista
che, invece, aggiunge notizie da lui stesso apprese a seguito di indagini da
lui intraprese e condotte, come, ad esempio, l’interrogazione di persone, e per
di più scrive sul suo giornale di aver tratto personale convincimento sulla
colpevolezza di qualcuno per un dato delitto. Questo è il punto fino al quale si
era spinto Giancarlo Siani, che per amore della Giustizia, per la ferrea
volontà di raccogliere prove inconfutabili contro la famiglia Gionta che
infestava la sua città, ha finito per diventare più indagatore che giornalista,
sovrapponendo una passione all’altra.
Mi
spiego meglio. La passione per il giornalismo è diversa da quella che anima il
cosiddetto “giustiziere”. La prima confina con la passione dello scrittore e,
con riguardo alla cosiddetta cronaca nera, si potrebbe anche considerare come
una passione analoga a quella dello storico. La seconda nasce invece dal
convincimento che gli organi di giustizia dello Stato, dalle forze dell’ordine
fino ai più alti gradi della Magistratura, non siano sufficienti a soddisfare
il sentimento di giustizia che vorrebbe vedere puniti determinati fatti
criminosi. Allora il giornalista comincia a fare delle indagini non con l’animo
di chi vuol poi raccontare ma con l’intenzione di sostituirsi agli anzidetti
organi di giustizia, che egli ritiene inerti o incapaci di fronte alla
delinquenza, specie quella organizzata. Ma si può essere sicuri, prima di
tutto, che tale convincimento sia esatto, e cioè che i risultati raggiunti dal
giornalista indagatore coincidano con la verità? Che pensare, poi, se tali
risultati sono diversi dalle decisioni della magistratura competente?
Se
uno di voi sogna di fare un domani il Sostituto Procuratore alla Repubblica e
di indagare sulla malavita esistente nelle nostre zone, è senz’altro encomiabile
questa sua aspirazione, come lo è l’aspirazione di fare il giornalista e di
dedicarsi alla cronaca giudiziaria di quel che avviene, diciamo, in queste zone
della Valle dell’Ufita e nei paesi circonvicini. Inoltre, ad ognuno di voi può
capitare di venire a conoscenza, non dico di delitti di camorra, molto rari
nelle nostre zone, bensì di spaccio di stupefacenti, ad esempio per aver
rinvenuto nei giardini pubblici una siringa tipica per insulina. Allora un
impulso potrebbe scattarvi nell’animo: “Ah,
se io arrivassi a fare l’indagatore! Vorrei accertare chi è stato ad usare e a
lasciare per terra queste cose...”
In
verità, in ognuno vibra un’ansia di giustizia. Chi si controlla di più, pur indignandosi
inizialmente, poi si acquieta e finisce per confidare nelle forze dell’ordine e
nell’opera della Magistratura, ma in qualche altro che osserva con rabbia
quanti delitti rimangono impuniti, può scattare il proposito di fare il
giornalista con lo stesso entusiasmo e con la stessa passione con cui pensò di
farlo Giancarlo Siani. Ossia di fare il giustiziere.
Ora
devo farvi necessariamente una confidenza, essendomi sempre prefisso di essere
sincero nelle scuole e di dire chiaramente quello che penso sulle questioni di
giustizia, anche se le mie parole dovessero toccare la memoria o l’immagine di
qualcuno. Quando ho deciso di fare il Giudice non ho mai pensato di diventare
un accanito indagatore, ma di giudicare con umanità ed equilibrio. In altri
termini, sono uno di quelli che, se interpellato a scuola come ho ipotizzato di
farlo con voi, avrebbe espresso la propria preferenza per la funzione
giudicante. Giancarlo Siani ha pensato, credo inizialmente, di dedicarsi al
vero e proprio “giornalismo” e poi, osservando la triste realtà di Torre
Annunziata, è rimasto irretito da quel sogno di fare il giustiziere. Ragazzi, noi
lo commemoriamo oggi, a vent’anni dalla sua barbara uccisione, e ci commuoviamo
di fronte alla sua coraggiosa figura. Ci fosse nella società tanta gente come
lui, animata da passione e da laboriosità! Ci sono invece quelli che si
ricoverano nelle sacche d’inerzia del lavoro giudiziario e tirano a campare, refrattari
all’ansia di accertare e punire gli autori di gravi delitti. Ci può essere
invece in mezzo a voi qualche giovane più curioso di sapere chi delinque suo ambiente. Voglio dire che una passione
dell’indagine ci può essere più in uno di voi che in un Sostituto Procuratore
della Repubblica che, semmai, non si dedica alacremente allo studio dei
processi.
State
seguendo il mio discorso? La passione, l’ansia di giustizia, l’ansia di voler
modificare questo mondo per vederlo migliore è un sentimento innato
nell’individuo. Ma se ci si lamenta di magistrati inerti o negligenti, bisogna
d’altro canto temere di quei giovani sostituti procuratori che, animati da
eccessiva foga accusatoria, vedono colpe dappertutto e spediscono senza la
doverosa cautela avvisi di procedimento nei confronti di persone innocenti,
rovinandone la reputazione per sempre con l’immancabile pubblicazione sui
giornali. Quindi è necessario che chi abbia ansia di giustizia sia anche
prudente nel dare inizio a un processo penale. Il mio discorso di fondo è
netto: è normale che ce l’abbia un Pubblico Ministero, un Giudice, è normale
che ce l’abbia un Avvocato nel difendere un incolpato, dato che appartiene
anche lui al campo della giustizia, ed è normale che ce l’abbia anche un
giornalista. Sì, anche lui, perché è un diritto di tutti l’aspirazione ad una
società migliore ed è assai utile che i cittadini vengano informati dei delitti
che accadono e dei processi che vengono iniziati.
Ma
il giornalista può fare spontaneamente delle indagini? Io ritengo decisamente
di no e sono ben consapevole, come vi ho detto, che un giornalista, vivendo in
un mondo più vario, tra orizzonti più ampi, ha contatti con più fonti di
informazioni e può attingere maggiori conoscenze. Quante cose sa un giornalista
della società avellinese che io non so! Io non faccio più il Giudice, ma quando
lo facevo mi rendevo conto che nella società vi sono persone insospettabili che
diventano depositari di segreti importanti.
Anche tra voi ragazzi e ragazze c’è qualche persona che per sue particolari
doti di carattere raccoglie più confidenze. Talvolta, comunicando ad altri una
notizia, si ritiene di aver gettato un seme che porta frutti. Un tempo questo
seme si gettava nei confessionali, affidandolo al prete confessore. Ora si
comunica più spesso alla Stampa, con le stesse finalità.
Di qui qualche problema sorge nel
processo penale. Se il Pubblico Ministero sta indagando su un delitto e viene a
sapere che un prete, o un monaco, sa qualcosa che potrebbe giovare al risultato
delle sue indagini, può convocarlo e chiedergli che cosa gli è stato confidato
in confessione? La risposta dell’interrogato sarà quasi certamente questa: “Mi spiace, signor Giudice, questa notizia non
la posso riferire perché l’ho appresa in confessione”. Comunque la situazione,
che è di una certa delicatezza, è regolata dall’art. 200 del Codice di
procedura penale, che è una norma fondamentale nella materia di cui stiamo
parlando ed è diretta a tutelare il segreto professionale, fra cui anche quello
dei giornalisti. Infatti, mentre voi sareste tutti quanti tenuti a dire al
Pubblico Ministero o al Giudice una notizia della quale siete venuti a
conoscenza, perché, se tacete, il Giudice vi può processare per reticenza o
falsa testimonianza, vi sono alcune categorie di persone che sono protette, nel
senso che, anche davanti al Giudice, possono conservare il proprio segreto
professionale. E adesso, tornando al cuore del problema: il giornalista
indagatore è protetto e fino a che punto? Può trincerarsi, davanti al Giudice
che lo interroga, dietro il segreto professionale? Secondo l’art. 200: “Non
possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragioni del
proprio ministero, ufficio o professione, salvo i casi in cui hanno l’obbligo
di riferirne all’autorità giudiziaria (trascurando le altre professioni): “…i giornalisti professionisti iscritti
nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i
medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro
professione. Tuttavia se le notizie sono necessarie ai fini della prova del
reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso
l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista
di indicare la fonte delle sue informazioni”.
Anche
il giornalista può invocare, dunque, il segreto professionale, ma con delle
limitazioni. Se Giancarlo Siani fosse stato chiamato a testimoniare, poteva
essere obbligato dal Giudice ad indicare le fonti, ossia i nomi delle persone
da cui aveva saputo alcune notizie, soltanto se tali notizie fossero state
necessarie ai fini della prova del reato per cui si stava procedendo nei
confronti della famiglia Gionta per associazione camorristica. Se si fosse rifiutato
di indicarle, la sua deposizione non avrebbe avuto alcun valore. Sento però il
dovere di aggiungere che agli altri professionisti, come il medico, l’avvocato,
il ministro del culto, le notizie sulle responsabilità delle persone giungono
non perché siano cercate ma nell’esercizio della professione. Al giornalista,
invece, no. Egli è più esposto a subire, come dicevo, il fascino, l’attrazione
della ricerca della verità, e perciò, a differenza degli altri professionisti
elencati dall’art. 200 del Codice di procedura penale, egli va in cerca delle
notizie al fine di diffonderle, di pubblicarle per informare la pubblica
opinione. Ed è la stessa indole della sua professione che lo stimola a voler
sapere di più in materia di fatti illeciti. Come una malattia, contro la quale molti
di noi, molti di voi, siamo immunizzati.
Ad
ogni modo, noi oggi non commemoriamo Giancarlo Siani per le notizie che ha
assunto e ha poi pubblicato o tramesso ai giudici. Noi siamo qui per dire e
riconoscere che quello di Giancarlo Siani è stato un grande esempio di eroismo.
Possiamo immaginare che, muovendosi in quel mondo della camorra di Torre Annunziata,
abbia saputo non solo chi appartenesse alle cosche ma sia anche riuscito a
capire i loro legami e gli intrecci con il potere politico di Torre Annunziata,
il che spiegherebbe ancor meglio perché, avendo toccato i potenti, i clan
camorristici ne abbiano deciso l’eliminazione. Egli ha fatto, dunque, una
scelta solitaria, una scelta eroica di vita, nella speranza di conseguire dei
risultati nell’interesse dell’intera comunità in cui viveva. Per questa scelta,
che gli è costata la vita, noi commemoriamo il suo sacrificio, dettato
dall’aspirazione a veder migliorata la sua Torre Annunziata.
Grazie,
ragazzi, della vostra attenzione.
Gennaro Iannarone
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