domenica 30 ottobre 2016

Morte del giornalista Giancarlo Siani


MORTE DI UN GIORNALISTA

 (Incontro con gli studenti nel 20° anniversario della morte di Giancarlo Siani)



Ragazzi, chi di voi vuol fare il giornalista? Qualcuno di voi probabilmente vuol fare il medico o l’ingegnere, o il professore, ma penso che tra voi c’è qualche aspirante giudice. E sono anche abbastanza certo che se chiedessi a lui se gli piacerebbe esercitare quella professione nel campo civile o in quello penale, lui opterebbe per il campo penale. E se insistessi ancora nel domandare se preferirebbe fare il Giudicante oppure il Pubblico Ministero, colui che vuole entrare in Magistratura risponderebbe molto probabilmente che aspira a lavorare in una Procura della Repubblica perché attratto dal fascino della funzione di indagatore.

È lo stesso fascino che ha subito Giancarlo Siani.

Ma il problema è: a chi spetta tale funzione?

Riprendo oggi, dopo un anno che sono uscito dall’ordine giudiziario, la veste di magistrato anche perché, essendo stato pubblico ministero in Avellino per circa nove anni e mezzo, ho avuto molti contatti con i giornalisti, che mi sono sempre apparsi inclini alle investigazioni e qualche volta, a dire la verità, ne sapevano più di me delle circostanze dei delitti su cui mi accingevo a indagare. Torniamo piuttosto alle vostre aspirazioni professionali e a quel sogno di fare giustizia, il quale potrebbe identificarsi sia con la volontà di fare il Giudice sia con quella di diventare un Giornalista. Però non si possono fare insieme l’una e l’altra. Un giudice può anche scrivere, ad esempio, una “Storia della mafia” e pubblicarla, ma, mentre fa il giudice o il pubblico ministero, non può fare anche il giornalista, cioè pubblicare l’esito delle sue indagini, e neppure – credo – rilasciare interviste sui risultati conseguiti.

Voi saprete senz’altro distinguere tra un giornalismo che si occupa di politica o dà notizie di calamità pubbliche come un terremoto, e un giornalismo che si dedica alla narrazione dei fatti delittuosi che avvengono nella società. E anche in quest’ultimo campo vi apparirà diverso un giornalista che informa la pubblica opinione dei delitti di mafia, accennando anche alle indagini in corso da parte delle forze dell’ordine o dei pubblici ministeri, da altro giornalista che, invece, aggiunge notizie da lui stesso apprese a seguito di indagini da lui intraprese e condotte, come, ad esempio, l’interrogazione di persone, e per di più scrive sul suo giornale di aver tratto personale convincimento sulla colpevolezza di qualcuno per un dato delitto. Questo è il punto fino al quale si era spinto Giancarlo Siani, che per amore della Giustizia, per la ferrea volontà di raccogliere prove inconfutabili contro la famiglia Gionta che infestava la sua città, ha finito per diventare più indagatore che giornalista, sovrapponendo una passione all’altra.

Mi spiego meglio. La passione per il giornalismo è diversa da quella che anima il cosiddetto “giustiziere”. La prima confina con la passione dello scrittore e, con riguardo alla cosiddetta cronaca nera, si potrebbe anche considerare come una passione analoga a quella dello storico. La seconda nasce invece dal convincimento che gli organi di giustizia dello Stato, dalle forze dell’ordine fino ai più alti gradi della Magistratura, non siano sufficienti a soddisfare il sentimento di giustizia che vorrebbe vedere puniti determinati fatti criminosi. Allora il giornalista comincia a fare delle indagini non con l’animo di chi vuol poi raccontare ma con l’intenzione di sostituirsi agli anzidetti organi di giustizia, che egli ritiene inerti o incapaci di fronte alla delinquenza, specie quella organizzata. Ma si può essere sicuri, prima di tutto, che tale convincimento sia esatto, e cioè che i risultati raggiunti dal giornalista indagatore coincidano con la verità? Che pensare, poi, se tali risultati sono diversi dalle decisioni della magistratura competente?

Se uno di voi sogna di fare un domani il Sostituto Procuratore alla Repubblica e di indagare sulla malavita esistente nelle nostre zone, è senz’altro encomiabile questa sua aspirazione, come lo è l’aspirazione di fare il giornalista e di dedicarsi alla cronaca giudiziaria di quel che avviene, diciamo, in queste zone della Valle dell’Ufita e nei paesi circonvicini. Inoltre, ad ognuno di voi può capitare di venire a conoscenza, non dico di delitti di camorra, molto rari nelle nostre zone, bensì di spaccio di stupefacenti, ad esempio per aver rinvenuto nei giardini pubblici una siringa tipica per insulina. Allora un impulso potrebbe scattarvi nell’animo: “Ah, se io arrivassi a fare l’indagatore! Vorrei accertare chi è stato ad usare e a lasciare per terra queste cose...

In verità, in ognuno vibra un’ansia di giustizia. Chi si controlla di più, pur indignandosi inizialmente, poi si acquieta e finisce per confidare nelle forze dell’ordine e nell’opera della Magistratura, ma in qualche altro che osserva con rabbia quanti delitti rimangono impuniti, può scattare il proposito di fare il giornalista con lo stesso entusiasmo e con la stessa passione con cui pensò di farlo Giancarlo Siani. Ossia di fare il giustiziere.

Ora devo farvi necessariamente una confidenza, essendomi sempre prefisso di essere sincero nelle scuole e di dire chiaramente quello che penso sulle questioni di giustizia, anche se le mie parole dovessero toccare la memoria o l’immagine di qualcuno. Quando ho deciso di fare il Giudice non ho mai pensato di diventare un accanito indagatore, ma di giudicare con umanità ed equilibrio. In altri termini, sono uno di quelli che, se interpellato a scuola come ho ipotizzato di farlo con voi, avrebbe espresso la propria preferenza per la funzione giudicante. Giancarlo Siani ha pensato, credo inizialmente, di dedicarsi al vero e proprio “giornalismo” e poi, osservando la triste realtà di Torre Annunziata, è rimasto irretito da quel sogno di fare il giustiziere. Ragazzi, noi lo commemoriamo oggi, a vent’anni dalla sua barbara uccisione, e ci commuoviamo di fronte alla sua coraggiosa figura. Ci fosse nella società tanta gente come lui, animata da passione e da laboriosità! Ci sono invece quelli che si ricoverano nelle sacche d’inerzia del lavoro giudiziario e tirano a campare, refrattari all’ansia di accertare e punire gli autori di gravi delitti. Ci può essere invece in mezzo a voi qualche giovane più curioso di sapere chi delinque  suo ambiente. Voglio dire che una passione dell’indagine ci può essere più in uno di voi che in un Sostituto Procuratore della Repubblica che, semmai, non si dedica alacremente allo studio dei processi.

State seguendo il mio discorso? La passione, l’ansia di giustizia, l’ansia di voler modificare questo mondo per vederlo migliore è un sentimento innato nell’individuo. Ma se ci si lamenta di magistrati inerti o negligenti, bisogna d’altro canto temere di quei giovani sostituti procuratori che, animati da eccessiva foga accusatoria, vedono colpe dappertutto e spediscono senza la doverosa cautela avvisi di procedimento nei confronti di persone innocenti, rovinandone la reputazione per sempre con l’immancabile pubblicazione sui giornali. Quindi è necessario che chi abbia ansia di giustizia sia anche prudente nel dare inizio a un processo penale. Il mio discorso di fondo è netto: è normale che ce l’abbia un Pubblico Ministero, un Giudice, è normale che ce l’abbia un Avvocato nel difendere un incolpato, dato che appartiene anche lui al campo della giustizia, ed è normale che ce l’abbia anche un giornalista. Sì, anche lui, perché è un diritto di tutti l’aspirazione ad una società migliore ed è assai utile che i cittadini vengano informati dei delitti che accadono e dei processi che vengono iniziati.

Ma il giornalista può fare spontaneamente delle indagini? Io ritengo decisamente di no e sono ben consapevole, come vi ho detto, che un giornalista, vivendo in un mondo più vario, tra orizzonti più ampi, ha contatti con più fonti di informazioni e può attingere maggiori conoscenze. Quante cose sa un giornalista della società avellinese che io non so! Io non faccio più il Giudice, ma quando lo facevo mi rendevo conto che nella società vi sono persone insospettabili che diventano depositari di segreti  importanti. Anche tra voi ragazzi e ragazze c’è qualche persona che per sue particolari doti di carattere raccoglie più confidenze. Talvolta, comunicando ad altri una notizia, si ritiene di aver gettato un seme che porta frutti. Un tempo questo seme si gettava nei confessionali, affidandolo al prete confessore. Ora si comunica più spesso alla Stampa, con le stesse finalità.

         Di qui qualche problema sorge nel processo penale. Se il Pubblico Ministero sta indagando su un delitto e viene a sapere che un prete, o un monaco, sa qualcosa che potrebbe giovare al risultato delle sue indagini, può convocarlo e chiedergli che cosa gli è stato confidato in confessione? La risposta dell’interrogato sarà quasi certamente questa: “Mi spiace, signor Giudice, questa notizia non la posso riferire perché l’ho appresa in confessione”. Comunque la situazione, che è di una certa delicatezza, è regolata dall’art. 200 del Codice di procedura penale, che è una norma fondamentale nella materia di cui stiamo parlando ed è diretta a tutelare il segreto professionale, fra cui anche quello dei giornalisti. Infatti, mentre voi sareste tutti quanti tenuti a dire al Pubblico Ministero o al Giudice una notizia della quale siete venuti a conoscenza, perché, se tacete, il Giudice vi può processare per reticenza o falsa testimonianza, vi sono alcune categorie di persone che sono protette, nel senso che, anche davanti al Giudice, possono conservare il proprio segreto professionale. E adesso, tornando al cuore del problema: il giornalista indagatore è protetto e fino a che punto? Può trincerarsi, davanti al Giudice che lo interroga, dietro il segreto professionale? Secondo l’art. 200: “Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragioni del proprio ministero, ufficio o professione, salvo i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria (trascurando le altre professioni): “…i giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono necessarie ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni”.

Anche il giornalista può invocare, dunque, il segreto professionale, ma con delle limitazioni. Se Giancarlo Siani fosse stato chiamato a testimoniare, poteva essere obbligato dal Giudice ad indicare le fonti, ossia i nomi delle persone da cui aveva saputo alcune notizie, soltanto se tali notizie fossero state necessarie ai fini della prova del reato per cui si stava procedendo nei confronti della famiglia Gionta per associazione camorristica. Se si fosse rifiutato di indicarle, la sua deposizione non avrebbe avuto alcun valore. Sento però il dovere di aggiungere che agli altri professionisti, come il medico, l’avvocato, il ministro del culto, le notizie sulle responsabilità delle persone giungono non perché siano cercate ma nell’esercizio della professione. Al giornalista, invece, no. Egli è più esposto a subire, come dicevo, il fascino, l’attrazione della ricerca della verità, e perciò, a differenza degli altri professionisti elencati dall’art. 200 del Codice di procedura penale, egli va in cerca delle notizie al fine di diffonderle, di pubblicarle per informare la pubblica opinione. Ed è la stessa indole della sua professione che lo stimola a voler sapere di più in materia di fatti illeciti. Come una malattia, contro la quale molti di noi, molti di voi, siamo immunizzati.

Ad ogni modo, noi oggi non commemoriamo Giancarlo Siani per le notizie che ha assunto e ha poi pubblicato o tramesso ai giudici. Noi siamo qui per dire e riconoscere che quello di Giancarlo Siani è stato un grande esempio di eroismo. Possiamo immaginare che, muovendosi in quel mondo della camorra di Torre Annunziata, abbia saputo non solo chi appartenesse alle cosche ma sia anche riuscito a capire i loro legami e gli intrecci con il potere politico di Torre Annunziata, il che spiegherebbe ancor meglio perché, avendo toccato i potenti, i clan camorristici ne abbiano deciso l’eliminazione. Egli ha fatto, dunque, una scelta solitaria, una scelta eroica di vita, nella speranza di conseguire dei risultati nell’interesse dell’intera comunità in cui viveva. Per questa scelta, che gli è costata la vita, noi commemoriamo il suo sacrificio, dettato dall’aspirazione a veder migliorata la sua Torre Annunziata.

Grazie, ragazzi, della vostra attenzione.

                                                                      Gennaro Iannarone


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