giovedì 27 ottobre 2016

Poesia dei cinque sensi in Alessandro Di Napoli


Poesia dei cinque sensi in Alessandro Di Napoli



Un’analisi critica delle “Poesie d’amore” di Alessandro Di Napoli incontra senza dubbio non poche difficoltà, apparendone ostica la lettura prima che emerga con chiarezza il contenuto del componimento e l’ispirazione che gli ha dato vita. La difficoltà si accresce quando si ha una concezione della poesia come colloquio diretto con la divinità esteriore (Dio, la Natura) o con quella interiore (l’Anima), entrambe infinite. Da tale angolo visuale diviene infatti intollerabile ogni intermediazione nella interpretazione del testo, ed è inevitabile distanziarsi dai consueti inquadramenti in questa o in quell’altra corrente letteraria, per affidarsi soltanto ad una concreta adesione ai versi. D’altra parte, nella consapevolezza di doversi confrontare con un testo “oscuro”, il procedere con un’attenta lettura attraverso le varie liriche che compongono la silloge può apparire, per dirla con Eugenio Montale, e proprio in vista di un cammino tortuoso e non rettilineo, come “il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità”, quella squisitamente artistica che governa l’intera creazione poetica, sorretti dal convincimento che una raccolta di poesie racchiuse sotto una titolazione ben precisa abbia quasi sempre uno o al massimo due motivi ispiratori, che semmai sono sorti da un’unica fonte.

Fatta questa premessa, tanto più opportuna in quanto l’intento che ci si propone non è quello di una vera e propria recensione, va subito detto che le “Poesie d’amore” di Alessandro Di Napoli rivelano, già ad una prima lettura, una strana sensorialità, vale a dire che in esse è disseminata una miriade di percezioni dei sensi, che peraltro è difficile distinguere se provengano realmente dall’esterno o se costituiscano una emanazione tutta interiore del poeta. Non vi è infatti alcuno dei cinque sensi che non resti impegnato nelle impressioni che provengono dal mondo esteriore, così come non vi è alcuno dei comuni effetti prodotti dai sensi che non prendano origine all’interno di una complessa e malinconica psiche, per riverberarsi poi in una realtà esistenziale che sembra stringere l’autore come in una morsa, tanto sopportabile quanto connaturale alle sue intime pulsioni.

Campeggia in questa sensorialità la luce, interiorizzata o reale, ora calda ora fredda, a seconda dei sentimenti che evoca o dai quali emana. La luce è quasi sempre quella dell’alba, non del giorno pieno, perché il sole non è mai menzionato, come non lo è il tramonto, anch’esso sempre taciuto e forse una sola volta dissimulato nel “giorno stanco che si dilata nelle lucide pupille di un mosaico di ricordi”, se vi si vuol vedere il crepuscolo, che produce naturalmente la dilatazione delle pupille, ma psicologicamente induce ai ricordi e alla nostalgia (pag. 27: Oggi parlo di te).

E’ presente spesso la luce della luna, quasi sempre reale, anche se nella trasfigurazione poetica talvolta, in un raro momento di felicità amorosa, dipinge il cielo di un caldo cromatismo: “Riscaldati…dalla luce dell’alba dopo la notte d’amore trascorsa sotto un cielo caldo di lunaun’eco mi riporta l’odore irregolare del tuo respiroti sei spogliata per sempre dell’abito grigio della vita” (pag. 39: Ci ha riscaldati), mentre appare diversa nel contesto di un momento di rimpianto e di malinconia: “Trattengo dell’alba le luci più fresche che sanno di vento… gli odori remoti delle notti trascorse sotto gli occhi umidi della luna…riguardando le stelle più calde m’aggrappo al lenzuolo del tuo seno” (pag. 41: Della vita prigioniero in esilio). La luce è spesso mescolata o si accompagna a sensazioni uditive, olfattive e più raramente tattili o del gusto, e talvolta addirittura si fonde con la donna amata che la emana: “S’accende di te l’alba di un grigio sabato di paese” (pag. 32: S’accende di te l’alba), ma alla luce dell’amore si contrappone il grigiore della vita del piccolo borgo, quando le speranze deluse si sentono nel vociare appena percettibile che oscura i giorni sotto una luce lunare, stavolta fredda ed anche qui reale: “La gente ha speranze antiche che abbuiano i giorni nei riverberi delle voci silenziose mentre la luna stanca sosta sul davanzale”. Elementi immateriali ed inafferrabili giungono nell’area della percezione spesso nella tarda sera, quando “la mia ombra passeggia nella sera del mio paese…” (pag. 31: La mia ombra passeggia), o quando “stasera ho ascoltato il vento” (pag. 30: Stasera ho ascoltato il vento), o, addirittura, “l’anima del vento”, lasciando qui affiorare un’irrefrenabile ansia di ricerca del “trascendente” (pag. 33: Ti ho braccato senza sosta), e ancora quando: “..scende lungo lo schienale della sera l’ombra del dubbio..” (pag. 35: Piano piano scende lungo). Una vaga tristezza è pure indotta da altra “fredda luce che da poco avvampa l’orizzonte e lo confonde”, mostrando profili non netti e anticipando “moti e stasi che da soli mi parleranno in figurazioni di stagioni lieti di bianca innocenza” (pag. 28: Io so che nulla potrà mutare).

Qui, dove pure trapela un momento di intensa religiosità piuttosto che un dialogo di amore terreno, i messaggi che reca il giorno giungono vergini e forse ingannevoli, come un nuovo avvicendarsi delle stagioni, ma il poeta ben sa che nessuno di quei multiformi e multicolori aspetti “potrà mutare il corso antico della tua indifferenza”. Passata la contemplazione delle “rotondità della vita”, in cui “gli occhi sfitti di immaginiguardavano “le luci di un’ “alba diversa” e gioivano nel vedere un sorriso “nel silenzio morbido delle tue labbra carnose” (pag. 42: Le rotondità della vita), sarebbe venuto dopo, purtroppo, il tempo in cui si cominciava a “scoprire…che nulla dura…oltre la siepe del piacere” (pag. 40: Risucchiarsi la lingua ancora calda umida) e stava per sopraggiungere anche il momento del “muro contro muro”, nel quale “abbeverando le nostre seti senza gesti ispirati s’è divaricata la…convergenza lunare”, giacché tristemente “si spegneva in noi l’irreversibile odore allegro della prima sera” (pag. 37: Da stasera siamo di nuovo). Ciò accadeva però senza sorpresa, dato che “da sempre, nell’azzurro dei tuoi occhi si nascondono insidie di fantasmi” (pag. 34: Un qualsiasi giorno d’autunno capace) ed essendosi giunti ormai all’amara constatazione che “l’alveare della vita non contiene più miele” (pag. 36: Spreco con te). Come in un’allucinazione si sente allora il “bisogno della tua linfa, del respiro del tuo sangue…ho rivisto volti che non conosco…sguardi ciechi” (pag. 29: Ho bisogno della tua linfa), ma è ormai irreversibile il “gelo della decisione: la logica prevarrà sugli umori, sulle emozionil’ultima estate trascorsa tra lenzuola d’amore” è soltanto un ricordo di un anno prima, che si è risvegliato all’ascolto del “canto leggerissimo delle cicale tra i rami” (pag. 38: Ho ascoltato il canto leggerissimo). Altro non resta che un’acuta sofferenza e un muto dolore: “Sembra silenzio la mia immagine trafitta dalla tua assenza

ora che l’eco sommersa della tua voce lontana mi riporta il triste rumore della vita” (pag. 26: Sono prossimo, nel bianco).

Ancora con Montale si potrebbe dire qui che “il cammino finisce a queste prode che rode la marea col moto alterno”, sia per il poeta d’amore, sia per chi, disbrogliando il filo contorto della silloge, ritiene di avervi colto alla fine la malcelata e disordinata narrazione, autobiografica o meno che sia, di una storia sentimentale vissuta con profonda inquietudine, accompagnata spesso da un pensiero di morte e punteggiata qua e là dall’imperiosa esigenza di attingere un valore assoluto, condotta all’epilogo con fredda logica ma con indicibile tristezza. E ci si è accorti quasi con meraviglia che la “strana sensorialità” è assurta a strumento fondamentale di una impressionistica rievocazione dell’evolversi della vicenda amorosa, come se fosse stato delegato ai sensi e ai loro riflessi interiori tutta la rappresentazione dei momenti che ne intessevano la trama, lungo un percorso altalenante attraversato, più che da emozioni o stati d’animo, da una marea di “sensazioni”.

Perciò, accantonando ogni inquadramento nella poesia neo-ermetica o crepuscolare, si può azzardare a coniare per il nostro poeta una nuova classificazione che esula certamente dalla terminologia dei suoi critici e recensori, apparsi in verità alquanto indifferenti alle “Poesie d’amore”: quella di “poeta sensoriale. Come il famoso romanzo “Sanctuary” di William Faulkner, anche questa potrebbe essere definita una poesia dei cinque sensi. Ma diverso è il romanzo dalla creazione poetica, che solitamente non si propone come fine una narrazione, come certamente non se l’è proposta Alessandro Di Napoli. Eppure, queste poesie sembrano immettere il lettore nel percorso labirintico di un uomo che ci parla della nascita di un amore, dei pochi momenti di felicità ch’esso gli ha donato, di quelli più numerosi in cui lo ha fatto soffrire e delle fasi finali dello spegnimento e del doloroso rimpianto, attraverso un quasi ossessivo richiamo alla luce, ai rumori, agli odori, ai sapori e ai contatti corporei, attribuendo – questo vi è anche di particolare – ai quattro sensi minori una intensità ancor più tenue, talora appena percettibile (…il silenzio morbido di labbra carnose, l’odore irregolare di un respiro, ecc.) e alla luce dell’alba, invece, come all’oscurità della sera, il ruolo rispettivo di un frequente richiamo a immagini di vita e di morte. Ed è proprio questo inespresso sentimento del “Mistero” della Vita e della Morte (“La tarda sera ritaglia i fili della Vita. Nessuno sa di quale futuro sia chiave la morte“ (pag.30: Stasera ho ascoltato il vento) che dà una spiegazione del maggior respiro di ordine filosofico e della dimensione più universale che si ritrovano in qualcuna delle liriche d’amore, specie nella prima, che solo apparentemente, però, sembra discostarsi dall’atmosfera di cui è pervasa l’intera silloge: “Ho sofferto per Te/  nel pensarti esistente. /Vivi nella precarietà più ignota/ a questa mia luce/  che a stento Ti snida/ da quell’ombra fitta che ti copre”. (pag. 25: Ho sofferto per Te).

Rispetto al tema propriamente amoroso, qui s’impone una lettura diversa, “religiosa”, che tuttavia non si differenzia del tutto dalla fonte generatrice dell’emozione poetica che governa le altre liriche. Questa volta è una “luce” tutta interiore, quella di un intelletto sospinto da un’incontenibile ansia di conoscenza, che si confronta, senza riuscire a penetrarlo, con il “Mistero”, il quale rimane quindi, come l’Amore, ignoto all’uomo-poeta. Perciò egli prova sofferenza nel pensare che Dio esista e che per lui è anelante ma vano ogni sforzo per sciogliere il dubbio che lo tormenta. E’ la stessa sofferenza che ha governato il suo animo durante l’intero percorso amoroso, e che, pur donandogli varie e forti sensazioni, non gli ha tuttavia consentito di conoscere l’essenza dell’Amore, tanto che, persino quando la donna amata gli è apparsa in tutta la luminosità dei sentimenti (“il giorno”), il “mistero” non si è dissolto: “…tutto di te, anche il giorno, ha il sapore profondo dell’ignoto” (pag. 27: Oggi parlo di te).

                                                     Gennaro Iannarone

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