Poesia dei cinque sensi in Alessandro
Di Napoli
Un’analisi critica delle “Poesie d’amore” di Alessandro Di
Napoli incontra senza dubbio non poche difficoltà, apparendone ostica la
lettura prima che emerga con chiarezza il contenuto del componimento e l’ispirazione
che gli ha dato vita. La difficoltà si accresce quando si ha una concezione della
poesia come colloquio diretto con la divinità esteriore (Dio, la Natura) o con
quella interiore (l’Anima), entrambe infinite. Da tale angolo visuale diviene
infatti intollerabile ogni intermediazione nella interpretazione del testo, ed
è inevitabile distanziarsi dai consueti inquadramenti in questa o in
quell’altra corrente letteraria, per affidarsi soltanto ad una concreta
adesione ai versi. D’altra parte, nella consapevolezza di doversi confrontare con
un testo “oscuro”, il procedere con un’attenta lettura attraverso le varie liriche
che compongono la silloge può apparire, per dirla con Eugenio Montale, e
proprio in vista di un cammino tortuoso e non rettilineo, come “il filo da
disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità”, quella squisitamente
artistica che governa l’intera creazione poetica, sorretti dal convincimento
che una raccolta di poesie racchiuse sotto una titolazione ben precisa abbia
quasi sempre uno o al massimo due motivi ispiratori, che semmai sono sorti da
un’unica fonte.
Fatta questa
premessa, tanto più opportuna in quanto l’intento che ci si propone non è
quello di una vera e propria recensione, va subito detto che le “Poesie d’amore”
di Alessandro Di Napoli rivelano, già ad una prima lettura, una strana
sensorialità, vale a dire che in esse è disseminata una miriade di percezioni dei
sensi, che peraltro è difficile distinguere se provengano realmente
dall’esterno o se costituiscano una emanazione tutta interiore del poeta. Non
vi è infatti alcuno dei cinque sensi che non resti impegnato nelle impressioni che
provengono dal mondo esteriore, così come non vi è alcuno dei comuni effetti prodotti
dai sensi che non prendano origine all’interno di una complessa e malinconica
psiche, per riverberarsi poi in una realtà esistenziale che sembra stringere
l’autore come in una morsa, tanto sopportabile quanto connaturale alle sue
intime pulsioni.
Campeggia in
questa sensorialità la luce, interiorizzata o reale, ora calda ora fredda, a
seconda dei sentimenti che evoca o dai quali emana. La luce è quasi sempre
quella dell’alba, non del giorno pieno, perché il sole non è mai menzionato,
come non lo è il tramonto, anch’esso sempre taciuto e forse una sola volta
dissimulato nel “giorno stanco
che si dilata nelle lucide pupille
di un mosaico di ricordi”, se vi si vuol vedere il crepuscolo, che produce
naturalmente la dilatazione delle pupille, ma psicologicamente induce ai
ricordi e alla nostalgia (pag. 27: Oggi
parlo di te).
E’ presente spesso la luce della
luna, quasi sempre reale, anche se nella trasfigurazione poetica talvolta, in
un raro momento di felicità amorosa, dipinge il cielo di un caldo cromatismo: “Riscaldati…dalla luce dell’alba dopo la notte d’amore trascorsa sotto un
cielo caldo di luna…un’eco
mi riporta l’odore irregolare del tuo respiro… ti sei spogliata per sempre dell’abito grigio della vita” (pag.
39: Ci ha riscaldati), mentre appare
diversa nel contesto di un momento di rimpianto e di malinconia: “Trattengo dell’alba le luci più fresche
che sanno di vento… gli odori remoti delle notti trascorse sotto gli occhi
umidi della luna…riguardando le stelle più calde m’aggrappo al
lenzuolo del tuo seno” (pag. 41: Della
vita prigioniero in esilio). La luce è spesso mescolata o si accompagna a
sensazioni uditive, olfattive e più raramente tattili o del gusto, e talvolta addirittura
si fonde con la donna amata che la emana: “S’accende
di te l’alba di un grigio sabato di paese” (pag. 32: S’accende di te l’alba), ma alla luce dell’amore si contrappone
il grigiore della vita del piccolo borgo, quando le speranze deluse si sentono
nel vociare appena percettibile che oscura i giorni sotto una luce lunare,
stavolta fredda ed anche qui reale: “La
gente ha speranze antiche che abbuiano i giorni nei riverberi delle voci
silenziose mentre la luna stanca sosta sul davanzale”. Elementi
immateriali ed inafferrabili giungono nell’area della percezione spesso nella
tarda sera, quando “la mia ombra
passeggia nella sera del mio paese…” (pag. 31: La mia ombra passeggia), o quando “stasera ho ascoltato il vento” (pag. 30: Stasera ho ascoltato il vento), o,
addirittura, “l’anima del vento”,
lasciando qui affiorare un’irrefrenabile ansia di ricerca del “trascendente” (pag.
33: Ti ho braccato senza sosta), e
ancora quando: “..scende lungo lo
schienale della sera l’ombra del dubbio..” (pag. 35: Piano piano scende lungo). Una vaga tristezza è pure indotta da
altra “fredda luce che da poco
avvampa l’orizzonte e lo confonde”, mostrando profili non netti e
anticipando “moti e stasi che da soli mi parleranno
in figurazioni di stagioni lieti di bianca innocenza” (pag. 28: Io so che nulla potrà mutare).
Qui, dove
pure trapela un momento di intensa religiosità piuttosto che un dialogo di
amore terreno, i messaggi che reca il giorno giungono vergini e forse
ingannevoli, come un nuovo avvicendarsi delle stagioni, ma il poeta ben sa che nessuno
di quei multiformi e multicolori aspetti “potrà
mutare il corso antico della tua indifferenza”. Passata la contemplazione delle
“rotondità della vita”, in cui “gli occhi sfitti di immagini” guardavano
“le luci” di un’ “alba diversa” e gioivano
nel vedere un sorriso “nel silenzio
morbido delle tue labbra carnose” (pag. 42: Le rotondità della vita), sarebbe venuto dopo, purtroppo, il tempo
in cui si cominciava a “scoprire…che
nulla dura…oltre la siepe del piacere” (pag. 40: Risucchiarsi la lingua ancora calda umida)
e stava per sopraggiungere anche il momento del “muro contro muro”, nel quale “abbeverando
le nostre seti senza gesti ispirati s’è divaricata la…convergenza lunare”,
giacché tristemente “si spegneva in noi
l’irreversibile odore allegro della prima sera” (pag. 37: Da stasera siamo di nuovo). Ciò
accadeva però senza sorpresa, dato che “da
sempre, nell’azzurro dei tuoi occhi si nascondono insidie di fantasmi”
(pag. 34: Un qualsiasi giorno d’autunno
capace) ed essendosi giunti ormai all’amara constatazione che “l’alveare della vita non contiene più miele”
(pag. 36: Spreco con te). Come in
un’allucinazione si sente allora il “bisogno
della tua linfa, del respiro del tuo sangue…ho rivisto volti che non
conosco…sguardi ciechi…” (pag. 29: Ho bisogno della tua linfa), ma è ormai irreversibile il “gelo della decisione: la logica
prevarrà sugli umori, sulle emozioni…l’ultima
estate trascorsa tra lenzuola d’amore” è soltanto un ricordo di un anno
prima, che si è risvegliato all’ascolto del “canto leggerissimo delle cicale tra i rami” (pag. 38: Ho ascoltato il canto leggerissimo).
Altro non resta che un’acuta sofferenza e un muto dolore: “Sembra silenzio la mia immagine trafitta dalla tua assenza
ora che l’eco sommersa della tua voce lontana mi riporta il
triste rumore della vita” (pag. 26: Sono
prossimo, nel bianco).
Ancora con
Montale si potrebbe dire qui che “il cammino finisce a queste prode che rode la
marea col moto alterno”, sia per il poeta d’amore, sia per chi, disbrogliando
il filo contorto della silloge, ritiene di avervi colto alla fine la malcelata
e disordinata narrazione, autobiografica o meno che sia, di una storia
sentimentale vissuta con profonda inquietudine, accompagnata spesso da un pensiero
di morte e punteggiata qua e là dall’imperiosa esigenza di attingere un valore
assoluto, condotta all’epilogo con fredda logica ma con indicibile tristezza. E
ci si è accorti quasi con meraviglia che la “strana sensorialità” è assurta a
strumento fondamentale di una impressionistica rievocazione dell’evolversi della
vicenda amorosa, come se fosse stato delegato ai sensi e ai loro riflessi
interiori tutta la rappresentazione dei momenti che ne intessevano la trama,
lungo un percorso altalenante attraversato, più che da emozioni o stati
d’animo, da una marea di “sensazioni”.
Perciò,
accantonando ogni inquadramento nella poesia neo-ermetica o crepuscolare, si
può azzardare a coniare per il nostro poeta una nuova classificazione che esula
certamente dalla terminologia dei suoi critici e recensori, apparsi in verità
alquanto indifferenti alle “Poesie d’amore”: quella di “poeta sensoriale”. Come il famoso romanzo “Sanctuary” di William Faulkner, anche
questa potrebbe essere definita una poesia dei cinque sensi. Ma diverso è il
romanzo dalla creazione poetica, che solitamente non si propone come fine una
narrazione, come certamente non se l’è proposta Alessandro Di Napoli. Eppure, queste
poesie sembrano immettere il lettore nel percorso labirintico di un uomo che ci
parla della nascita di un amore, dei pochi momenti di felicità ch’esso gli ha donato,
di quelli più numerosi in cui lo ha fatto soffrire e delle fasi finali dello spegnimento
e del doloroso rimpianto, attraverso un quasi ossessivo richiamo alla luce, ai
rumori, agli odori, ai sapori e ai contatti corporei, attribuendo – questo vi è
anche di particolare – ai quattro sensi minori una intensità ancor più tenue, talora
appena percettibile (…il silenzio morbido di labbra carnose, l’odore irregolare
di un respiro, ecc.) e alla luce dell’alba, invece, come all’oscurità della
sera, il ruolo rispettivo di un frequente richiamo a immagini di vita e di morte.
Ed è proprio questo inespresso sentimento del “Mistero” della Vita e della
Morte (“La tarda sera ritaglia i fili
della Vita. Nessuno sa di quale futuro sia chiave la morte“ (pag.30: Stasera ho ascoltato il vento) che dà
una spiegazione del maggior respiro di ordine filosofico e della dimensione più
universale che si ritrovano in qualcuna delle liriche d’amore, specie nella
prima, che solo apparentemente, però, sembra discostarsi dall’atmosfera di cui
è pervasa l’intera silloge: “Ho sofferto
per Te/ nel pensarti esistente. /Vivi
nella precarietà più ignota/ a questa mia luce/ che a stento Ti snida/ da quell’ombra
fitta che ti copre”. (pag. 25: Ho
sofferto per Te).
Rispetto al
tema propriamente amoroso, qui s’impone una lettura diversa, “religiosa”, che tuttavia
non si differenzia del tutto dalla fonte generatrice dell’emozione poetica che
governa le altre liriche. Questa volta è una “luce” tutta interiore, quella di un intelletto sospinto da un’incontenibile
ansia di conoscenza, che si confronta, senza riuscire a penetrarlo, con il “Mistero”,
il quale rimane quindi, come l’Amore, ignoto all’uomo-poeta. Perciò egli prova
sofferenza nel pensare che Dio esista e che per lui è anelante ma vano ogni
sforzo per sciogliere il dubbio che lo tormenta. E’ la stessa sofferenza che ha
governato il suo animo durante l’intero percorso amoroso, e che, pur donandogli
varie e forti sensazioni, non gli ha tuttavia consentito di conoscere l’essenza
dell’Amore, tanto che, persino quando la donna amata gli è apparsa in tutta la
luminosità dei sentimenti (“il giorno”), il “mistero” non si è dissolto: “…tutto di te, anche il giorno, ha il sapore
profondo dell’ignoto” (pag. 27: Oggi
parlo di te).
Gennaro Iannarone
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