domenica 30 ottobre 2016

LA POESIA E LA DONNA (in alcuni poeti)


LA  POESIA  E  LA  DONNA 

(Stilnovisti, Petrarca, Manzoni, Leopardi, Proust, Montale)



E’ un luogo comune considerare moderno Francesco Petrarca, soltanto per il fatto che egli è, certamente, il poeta dell’inquietudine amorosa e il padre dell’Umanesimo. Questo non basta, infatti, perché un poeta possa definirsi moderno, nel senso in cui noi intendiamo la modernità, la quale consta di due fondamentali caratteristiche dell’uomo artista, letterato, poeta, di fronte alla realtà del mondo e, per quel che ci riguarda, di fronte al fenomeno amoroso, che è la stessa cosa che dire dinanzi alla donna: l’angoscia del vivere l’innamoramento, commista all’introspezione in sé stessi e nell’animo di lei.

Non si può negare che l’atteggiamento di Petrarca in tale campo della vita dell’uomo abbia superato la visione più serena degli stilnovisti, i quali a loro volta, pur avendo cantato della passione amorosa e dei tormenti dell’animo che ne scaturiscono, hanno finito, tuttavia, per idealizzare la figura femminile, si potrebbe dire ringraziandola di esistere, nel momento stesso in cui hanno visto in lei la cagione delle pene d’amore. E tra loro, prima fra tutte, c’è la Beatrice dantesca, distanziata dal sommo poeta più in terra (“…e gli occhi non l’ardiscono di guardare”) che in cielo.

Francesco Petrarca è inoltre il poeta che esprime meglio di ogni altro della sua epoca il tormento dell’amore non corrisposto. Non è però Catullo, che ha goduto delle gioie dell’amore e al quale il travaglio interiore e la paura di poter perdere Lesbia, la donna amata, fa dire “Odi et amo”. Non è Ovidio, che analizza il fenomeno dell’amore con l’occhio dello scienziato, come oggi il nostro Francesco Alberoni, che in “Innamoramento e amore”, “Il volo nuziale” e “Ti amo”, si sofferma a osservare il sorgere, l’evolversi e lo spegnersi del più complesso dei sentimenti umani; non è Leopardi che, pur scrutandole nell’animo, accomuna le donne di cui si è invaghito, Nerina, Silvia, nel proprio stesso destino d’infelicità (Ultimo canto di Saffo, Le ricordanze, A Silvia).

Francesco Petrarca è innamorato della bellezza di Laura, di cui esalta l’aspetto esteriore e sensuale, guarda molto dentro di sé, si scandaglia fino alla lacerazione interiore perché vorrebbe fisicamente Laura, ma non può, perché lei non può volere e lui non può chiederle amore, legato com’è ancora al cielo delle visioni medievali e incapace di abbracciare i piaceri terreni.

Gli manca tuttavia, per poterlo considerare poeta moderno nel senso indicato, l’introspezione nell’animo di Laura, che lui non ci fa conoscere. Non sappiamo se lei abbia mai pensato di ricambiare quell’amore, costante per tutta una vita, ispirato soltanto da lei. Non sappiamo nulla dei moti interiori dell’animo di Laura, del suo passato, cosicché unica cagione del travaglio amoroso sta soltanto in lui.

Moderna, in qualche passaggio de “I Promessi Sposi” è Lucia, come nell’ “Addio ai monti”, anche se alla fine Manzoni s’intromette e fa propri quegli introspettivi e poetici pensieri; è moderna, come si accennava, la Silvia di Leopardi, nella quale il poeta coglie insieme la lietezza e la pensosità della gioventù, il vago avvenire che lei in mente aveva. Lo è la Odette in “Un amore di Swann” di Marcel Proust, di cui l’uomo innamorato coglie i moti dell’animo fermandosi rispettoso nella indagine sul passato di lei, tormentato dal desiderio di appropriarsi della vita di una donna affascinante e misteriosa, ma consapevole che non sarà mai completamente sua.

Modernissima, infine, è la donna in Montale, soprattutto quella della Casa dei doganieri, che vi sosta per qualche notte con tutto lo sciame dei suoi irrequieti pensieri, ma poi non ricorda più, perché la sua memoria è frastornata, e non ride più lietamente come quando colà si soffermò. Lo è del pari Dora Markus, in cui, nonostante il presentimento della persecuzione nazista, le sue tempeste interiori e l’apparente “lago d’indifferenza del suo cuore”, sopravvive con il suo forte desiderio di perpetuazione, stesso motivo che poi il poeta trasformerà in un augurio per Paola Nicoli, dedicandole la stupenda lirica Casa sul mare.  

                                                          Gennaro Iannarone

Morte del giornalista Giancarlo Siani


MORTE DI UN GIORNALISTA

 (Incontro con gli studenti nel 20° anniversario della morte di Giancarlo Siani)



Ragazzi, chi di voi vuol fare il giornalista? Qualcuno di voi probabilmente vuol fare il medico o l’ingegnere, o il professore, ma penso che tra voi c’è qualche aspirante giudice. E sono anche abbastanza certo che se chiedessi a lui se gli piacerebbe esercitare quella professione nel campo civile o in quello penale, lui opterebbe per il campo penale. E se insistessi ancora nel domandare se preferirebbe fare il Giudicante oppure il Pubblico Ministero, colui che vuole entrare in Magistratura risponderebbe molto probabilmente che aspira a lavorare in una Procura della Repubblica perché attratto dal fascino della funzione di indagatore.

È lo stesso fascino che ha subito Giancarlo Siani.

Ma il problema è: a chi spetta tale funzione?

Riprendo oggi, dopo un anno che sono uscito dall’ordine giudiziario, la veste di magistrato anche perché, essendo stato pubblico ministero in Avellino per circa nove anni e mezzo, ho avuto molti contatti con i giornalisti, che mi sono sempre apparsi inclini alle investigazioni e qualche volta, a dire la verità, ne sapevano più di me delle circostanze dei delitti su cui mi accingevo a indagare. Torniamo piuttosto alle vostre aspirazioni professionali e a quel sogno di fare giustizia, il quale potrebbe identificarsi sia con la volontà di fare il Giudice sia con quella di diventare un Giornalista. Però non si possono fare insieme l’una e l’altra. Un giudice può anche scrivere, ad esempio, una “Storia della mafia” e pubblicarla, ma, mentre fa il giudice o il pubblico ministero, non può fare anche il giornalista, cioè pubblicare l’esito delle sue indagini, e neppure – credo – rilasciare interviste sui risultati conseguiti.

Voi saprete senz’altro distinguere tra un giornalismo che si occupa di politica o dà notizie di calamità pubbliche come un terremoto, e un giornalismo che si dedica alla narrazione dei fatti delittuosi che avvengono nella società. E anche in quest’ultimo campo vi apparirà diverso un giornalista che informa la pubblica opinione dei delitti di mafia, accennando anche alle indagini in corso da parte delle forze dell’ordine o dei pubblici ministeri, da altro giornalista che, invece, aggiunge notizie da lui stesso apprese a seguito di indagini da lui intraprese e condotte, come, ad esempio, l’interrogazione di persone, e per di più scrive sul suo giornale di aver tratto personale convincimento sulla colpevolezza di qualcuno per un dato delitto. Questo è il punto fino al quale si era spinto Giancarlo Siani, che per amore della Giustizia, per la ferrea volontà di raccogliere prove inconfutabili contro la famiglia Gionta che infestava la sua città, ha finito per diventare più indagatore che giornalista, sovrapponendo una passione all’altra.

Mi spiego meglio. La passione per il giornalismo è diversa da quella che anima il cosiddetto “giustiziere”. La prima confina con la passione dello scrittore e, con riguardo alla cosiddetta cronaca nera, si potrebbe anche considerare come una passione analoga a quella dello storico. La seconda nasce invece dal convincimento che gli organi di giustizia dello Stato, dalle forze dell’ordine fino ai più alti gradi della Magistratura, non siano sufficienti a soddisfare il sentimento di giustizia che vorrebbe vedere puniti determinati fatti criminosi. Allora il giornalista comincia a fare delle indagini non con l’animo di chi vuol poi raccontare ma con l’intenzione di sostituirsi agli anzidetti organi di giustizia, che egli ritiene inerti o incapaci di fronte alla delinquenza, specie quella organizzata. Ma si può essere sicuri, prima di tutto, che tale convincimento sia esatto, e cioè che i risultati raggiunti dal giornalista indagatore coincidano con la verità? Che pensare, poi, se tali risultati sono diversi dalle decisioni della magistratura competente?

Se uno di voi sogna di fare un domani il Sostituto Procuratore alla Repubblica e di indagare sulla malavita esistente nelle nostre zone, è senz’altro encomiabile questa sua aspirazione, come lo è l’aspirazione di fare il giornalista e di dedicarsi alla cronaca giudiziaria di quel che avviene, diciamo, in queste zone della Valle dell’Ufita e nei paesi circonvicini. Inoltre, ad ognuno di voi può capitare di venire a conoscenza, non dico di delitti di camorra, molto rari nelle nostre zone, bensì di spaccio di stupefacenti, ad esempio per aver rinvenuto nei giardini pubblici una siringa tipica per insulina. Allora un impulso potrebbe scattarvi nell’animo: “Ah, se io arrivassi a fare l’indagatore! Vorrei accertare chi è stato ad usare e a lasciare per terra queste cose...

In verità, in ognuno vibra un’ansia di giustizia. Chi si controlla di più, pur indignandosi inizialmente, poi si acquieta e finisce per confidare nelle forze dell’ordine e nell’opera della Magistratura, ma in qualche altro che osserva con rabbia quanti delitti rimangono impuniti, può scattare il proposito di fare il giornalista con lo stesso entusiasmo e con la stessa passione con cui pensò di farlo Giancarlo Siani. Ossia di fare il giustiziere.

Ora devo farvi necessariamente una confidenza, essendomi sempre prefisso di essere sincero nelle scuole e di dire chiaramente quello che penso sulle questioni di giustizia, anche se le mie parole dovessero toccare la memoria o l’immagine di qualcuno. Quando ho deciso di fare il Giudice non ho mai pensato di diventare un accanito indagatore, ma di giudicare con umanità ed equilibrio. In altri termini, sono uno di quelli che, se interpellato a scuola come ho ipotizzato di farlo con voi, avrebbe espresso la propria preferenza per la funzione giudicante. Giancarlo Siani ha pensato, credo inizialmente, di dedicarsi al vero e proprio “giornalismo” e poi, osservando la triste realtà di Torre Annunziata, è rimasto irretito da quel sogno di fare il giustiziere. Ragazzi, noi lo commemoriamo oggi, a vent’anni dalla sua barbara uccisione, e ci commuoviamo di fronte alla sua coraggiosa figura. Ci fosse nella società tanta gente come lui, animata da passione e da laboriosità! Ci sono invece quelli che si ricoverano nelle sacche d’inerzia del lavoro giudiziario e tirano a campare, refrattari all’ansia di accertare e punire gli autori di gravi delitti. Ci può essere invece in mezzo a voi qualche giovane più curioso di sapere chi delinque  suo ambiente. Voglio dire che una passione dell’indagine ci può essere più in uno di voi che in un Sostituto Procuratore della Repubblica che, semmai, non si dedica alacremente allo studio dei processi.

State seguendo il mio discorso? La passione, l’ansia di giustizia, l’ansia di voler modificare questo mondo per vederlo migliore è un sentimento innato nell’individuo. Ma se ci si lamenta di magistrati inerti o negligenti, bisogna d’altro canto temere di quei giovani sostituti procuratori che, animati da eccessiva foga accusatoria, vedono colpe dappertutto e spediscono senza la doverosa cautela avvisi di procedimento nei confronti di persone innocenti, rovinandone la reputazione per sempre con l’immancabile pubblicazione sui giornali. Quindi è necessario che chi abbia ansia di giustizia sia anche prudente nel dare inizio a un processo penale. Il mio discorso di fondo è netto: è normale che ce l’abbia un Pubblico Ministero, un Giudice, è normale che ce l’abbia un Avvocato nel difendere un incolpato, dato che appartiene anche lui al campo della giustizia, ed è normale che ce l’abbia anche un giornalista. Sì, anche lui, perché è un diritto di tutti l’aspirazione ad una società migliore ed è assai utile che i cittadini vengano informati dei delitti che accadono e dei processi che vengono iniziati.

Ma il giornalista può fare spontaneamente delle indagini? Io ritengo decisamente di no e sono ben consapevole, come vi ho detto, che un giornalista, vivendo in un mondo più vario, tra orizzonti più ampi, ha contatti con più fonti di informazioni e può attingere maggiori conoscenze. Quante cose sa un giornalista della società avellinese che io non so! Io non faccio più il Giudice, ma quando lo facevo mi rendevo conto che nella società vi sono persone insospettabili che diventano depositari di segreti  importanti. Anche tra voi ragazzi e ragazze c’è qualche persona che per sue particolari doti di carattere raccoglie più confidenze. Talvolta, comunicando ad altri una notizia, si ritiene di aver gettato un seme che porta frutti. Un tempo questo seme si gettava nei confessionali, affidandolo al prete confessore. Ora si comunica più spesso alla Stampa, con le stesse finalità.

         Di qui qualche problema sorge nel processo penale. Se il Pubblico Ministero sta indagando su un delitto e viene a sapere che un prete, o un monaco, sa qualcosa che potrebbe giovare al risultato delle sue indagini, può convocarlo e chiedergli che cosa gli è stato confidato in confessione? La risposta dell’interrogato sarà quasi certamente questa: “Mi spiace, signor Giudice, questa notizia non la posso riferire perché l’ho appresa in confessione”. Comunque la situazione, che è di una certa delicatezza, è regolata dall’art. 200 del Codice di procedura penale, che è una norma fondamentale nella materia di cui stiamo parlando ed è diretta a tutelare il segreto professionale, fra cui anche quello dei giornalisti. Infatti, mentre voi sareste tutti quanti tenuti a dire al Pubblico Ministero o al Giudice una notizia della quale siete venuti a conoscenza, perché, se tacete, il Giudice vi può processare per reticenza o falsa testimonianza, vi sono alcune categorie di persone che sono protette, nel senso che, anche davanti al Giudice, possono conservare il proprio segreto professionale. E adesso, tornando al cuore del problema: il giornalista indagatore è protetto e fino a che punto? Può trincerarsi, davanti al Giudice che lo interroga, dietro il segreto professionale? Secondo l’art. 200: “Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragioni del proprio ministero, ufficio o professione, salvo i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria (trascurando le altre professioni): “…i giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono necessarie ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni”.

Anche il giornalista può invocare, dunque, il segreto professionale, ma con delle limitazioni. Se Giancarlo Siani fosse stato chiamato a testimoniare, poteva essere obbligato dal Giudice ad indicare le fonti, ossia i nomi delle persone da cui aveva saputo alcune notizie, soltanto se tali notizie fossero state necessarie ai fini della prova del reato per cui si stava procedendo nei confronti della famiglia Gionta per associazione camorristica. Se si fosse rifiutato di indicarle, la sua deposizione non avrebbe avuto alcun valore. Sento però il dovere di aggiungere che agli altri professionisti, come il medico, l’avvocato, il ministro del culto, le notizie sulle responsabilità delle persone giungono non perché siano cercate ma nell’esercizio della professione. Al giornalista, invece, no. Egli è più esposto a subire, come dicevo, il fascino, l’attrazione della ricerca della verità, e perciò, a differenza degli altri professionisti elencati dall’art. 200 del Codice di procedura penale, egli va in cerca delle notizie al fine di diffonderle, di pubblicarle per informare la pubblica opinione. Ed è la stessa indole della sua professione che lo stimola a voler sapere di più in materia di fatti illeciti. Come una malattia, contro la quale molti di noi, molti di voi, siamo immunizzati.

Ad ogni modo, noi oggi non commemoriamo Giancarlo Siani per le notizie che ha assunto e ha poi pubblicato o tramesso ai giudici. Noi siamo qui per dire e riconoscere che quello di Giancarlo Siani è stato un grande esempio di eroismo. Possiamo immaginare che, muovendosi in quel mondo della camorra di Torre Annunziata, abbia saputo non solo chi appartenesse alle cosche ma sia anche riuscito a capire i loro legami e gli intrecci con il potere politico di Torre Annunziata, il che spiegherebbe ancor meglio perché, avendo toccato i potenti, i clan camorristici ne abbiano deciso l’eliminazione. Egli ha fatto, dunque, una scelta solitaria, una scelta eroica di vita, nella speranza di conseguire dei risultati nell’interesse dell’intera comunità in cui viveva. Per questa scelta, che gli è costata la vita, noi commemoriamo il suo sacrificio, dettato dall’aspirazione a veder migliorata la sua Torre Annunziata.

Grazie, ragazzi, della vostra attenzione.

                                                                      Gennaro Iannarone


LA FIGURA UMANA DI GESU' (Il processo a Gesù)


PROCESSO A GESÙ

(Incontro del Giudice Gennaro Iannarone con gli studenti sul Processo a Gesù e intervento di S.E. Mons. Giovanni D’Alise, Vescovo di Ariano Irpino)

“La figura umana di Gesù”



Giudice Iannarone

Cari ragazzi, la mia visione del Processo a Gesù è diversa da quella della Chiesa Cattolica. Io sono affascinato in modo sconvolgente dalla figura di Gesù e ritengo che, in generale, quando lo si riguarda come Figlio di Dio, quando lo si dogmatizza, la visione affascinata si appanna e la passione per lui si attenua. Perciò voglio tentare, attraverso il racconto del suo processo, di farvi riscoprire la figura umana di Gesù, perché lui si è rivelato come un uomo di grandezza incommensurabile proprio nel momento in cui ha sofferto di più, dandoci così modo di cogliere i valori della più alta dignità umana, del grande coraggio con cui affrontò i suoi giudici, dell’amore verso i discepoli, del perdono dei suoi carnefici.

Gesù fu arrestato la sera di un giorno che corrisponde al nostro giovedì santo, il giorno 12 del mese di nissan, il nostro aprile. Appena arrestato, venne condotto davanti al grande sacerdote Hanna, il quale gli domandò: “Quali sono le tue dottrine e chi sono i tuoi discepoli?” I discepoli erano tutti fuggiti via al momento dell’arresto, e perciò la domanda tendeva ad identificarli per poi catturare anche loro. Pare che sul posto sia rimasto per brevissimo tempo solo Pietro, che tentò anche una difesa armata, ma Gesù lo avrebbe fermato con le parole: “Chi di coltel ferisce, di coltel perisce”, dicendo nel contempo alle guardie del Sinedrio: “io sono la persona che cercate, sono io Gesù il Nazoreo, lasciate stare gli altri”, due grandi esempi di altruismo e di ripudio della violenza! Anche sotto la Croce non si ritrova neppure un discepolo... tranne Giovanni, che fin dal momento dell’arresto parla di un altro discepolo, oltre Pietro, che seguì Gesù fino al cortile del palazzo del Sinedrio, ove si svolse l’interrogatorio di Hanna. Il Vangelo di Giovanni è l’unico a dire che c’era con Pietro un altro discepolo, quello che Gesù amava, e questo fa capire che è proprio lui, Giovanni.

C’è di più. Fu lui che, essendo conosciuto dal gran sacerdote, chiese il permesso alla portinaia di far entrare Pietro nel cortile del palazzo. Si potrebbe qui azzardare una supposizione, e cioè che, frequentando il luogo dov’era la sede del Tribunale religioso, Giovanni potrebbe aver notato colà la presenza di Giuda quando si discuteva della necessaria cattura di Gesù e abbia perciò avvertito il suo Maestro del pericolo di tradimento, poi rivelato durante l’ultima cena. Sembra trovarsi un riscontro nel Cenacolo di Leonardo da Vinci, dove Pietro si accosta a Giovanni per chiedere se sa chi sia il traditore e Giovanni porge a Pietro l’orecchio destro. Ad Hanna, dunque, che lo interrogava Gesù rispose: “Ma a me lo chiedi? Io ho parlato liberamente a tutti, ho parlato nel tempio, non ho mai detto nulla di nascosto a nessuno, vai a chiederlo a quelli che mi hanno ascoltato che cosa io ho detto”. Notate, Gesù si comportò con tale superiorità e dignitoso distacco da apparire sprezzante. Si potrebbe dire che fu un imputato indisponente, tanto è vero che una guardia del Sinedrio gli mollò un ceffone, soggiungendo: “Così si risponde al grande sacerdote?” Lui allora rispose: “Se ho parlato male, spiegamelo; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”, altro grande esempio, di pacatezza e di coerenza (“Beati i miti...”), oltre che di razionalità, pur trovandosi in una situazione più che drammatica! In quel momento ci si trovava, come ho detto, nel palazzo del Sinedrio; al centro del cortile c’era un fuoco acceso perché faceva freddo e accanto a quel fuoco si era fermato a riscaldarsi Pietro, il discepolo più appassionato ed impulsivo, che lo seguì coraggiosamente, anche se proprio in quel cortile lo rinnegò tre volte. È lo stesso discepolo che, insieme a Giovanni, accorrerà al sepolcro quando Maria Maddalena li avverte che lì il corpo di Gesù non c’è più.

Portato davanti al Sinedrio, ebbe inizio il processo vero e proprio. Ma di quali reati accusavano quest’uomo? Guardate, ragazzi, un processo non si può fare senza i capi di imputazione, i quali erano in quel processo:

ha dissacrato il giorno del Signore perché ha detto che nel giorno del Sabato si può lavorare. Gesù aveva esaltato i principi di solidarietà e di fraternità, poiché aveva detto che di sabato si poteva lavorare se si trattava di compiere una buona azione. Pure adesso gli islamici fanno il Ramadan, stando digiuni e senza far niente. A quei tempi lavorare di sabato era un delitto grave. Narra Giuseppe Flavio, che ha scritto una storia della Palestina di quei tempi, che era stato condannato a morte un uomo sorpreso a spaccare la legna di sabato. E Gesù aveva detto invece che era fatto il Sabato per l’uomo, il che significa che la legge è fatta per soddisfare i bisogni dell’uomo e non l’uomo per il puro rispetto della legge. Sono i giudici formalisti, cioè strettamente legalitari, quelli che sottopongono ottusamente gli uomini all’imperio delle leggi, sacrificando i loro diritti inviolabili. Essi non fanno vera giustizia e perciò tante sentenze scontentano! Scontentano anche voi giovani quelle nelle quali è stata applicata la fredda regola contro ogni principio umanitario e di giustizia.

Si disse ancora: quest’uomo ha perdonato una donna sorpresa in flagrante adulterio. Si pensi che dopo duemila anni si è dovuto muovere un mondo intero per salvare dalla pena di morte Amina e Schatira, due donne condannate in Nigeria, paese di religione islamica, per lo stesso reato, abrogato negli anni ’60 dal nostro codice. In verità, quando i farisei, per provocarlo, gli portarono davanti una donna sorpresa in flagrante adulterio e gli chiesero se dovevano lapidarla o meno, Gesù si trovò in grande difficoltà, tanto è vero che per prendere tempo si mise a disegnare degli scarabocchi sulla sabbia con un pezzo di legno. Dopo aver meditato a lungo, se ne uscì con quella frase famosa: “Scagli la prima pietra chi è senza peccato”, che immobilizzò i presenti. Non fu, badate bene, un perdono vero e proprio. Egli trovò le parole più belle e più giuste per non far uccidere quella donna, perché Gesù era animato soprattutto da un sentimento d’amore che implicava necessariamente il massimo rispetto della persona umana.

Altra accusa grave fu la cacciata dei mercanti dal tempio, che colpiva gli interessi della ricca borghesia del tempo, ma il capo d’imputazione più grave fu pur sempre un reato di natura religiosa, quello di aver detto: “Io distruggerò questo tempio e lo riedificherò in tre giorni”. Su questa minaccia di distruzione del tempio s’incentrò, si può dire, l’intero dibattimento, nel corso del quale i testimoni chiamati a deporre non furono concordi, come prescriveva il Talmud, che disciplinava il processo ebraico. Vista perciò fallita tale prova, il grande sacerdote Caifa, il quale aveva capito la personalità non comune dell’imputato, governata dall’utopia di un mondo di amore e da una visione della vita altissima e spirituale, pose a Gesù una domanda di fondo, con energia: “Io ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se sei il Messia, il Figlio di Dio”, e quand’egli rispose “Tu l’hai detto, e vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra dell’Onnipotente”, il sommo sacerdote allora si stracciò le vesti e disse: “Ma che abbiamo bisogno più di testimoni? Costui ha bestemmiato ed è reo di morte”, ed il Sinedrio confermò la condanna.

Badate bene, ragazzi, Gesù non fu condannato per nessuno dei capi d’imputazione di cui vi ho detto. La dissacrazione del Sabato, il perdono dell’adultera, la cacciata dei mercanti dal tempio, la minaccia di distruggere il tempio, le frequentazioni di prostitute e di esattori d’imposte, di cui pure lo accusavano, ma per la grave bestemmia commessa davanti al Sinedrio nel proclamarsi Figlio di Dio. La condanna alla pena di morte non poteva però essere eseguita senza il beneplacito del governatore romano, Pilato, al quale tuttavia non aveva senso riferire: “Costui ha detto di essere il Figlio di Dio”. Pilato, se credente, aveva fede negli dei dell’Olimpo greco, ma non poteva concepire astrattamente il Dio degli ebrei. Perciò, allorquando lo portarono da lui, dissero: “Ti abbiamo portato un malfattore, costui sobilla il popolo, proibisce di pagare il tributo a Cesare, e dice di essere il Re dei giudei”, cambiando versione accusatoria rispetto alla condanna del Sinedrio: non “Figlio di Dio”, ma “Re dei giudei”. Nel presentarlo davanti alla sua persona, non accedettero al Pretorio, ch’era per loro zona d’infedeli, perché temevano di contaminarsi e di non poter poi consumare la Pasqua. Gli chiese Pilato: “Sei il Re dei giudei?” Allora Gesù disse: “Io sono Re, ma il mio regno non è di questo mondo e sono venuto a predicare la Verità”, al che Pilato domandò: “Ma che cos’è la Verità?” (“Quid est veritas?”). Guardate, io ve lo dico con questo tono come se avesse “snobbato” Gesù, perché Pilato era un romano e non era portato a concepire idee astratte come la virtù o la verità. Chiese “che cos’è la verità” quasi fra sé e sé, come se ripetesse una domanda a cui non era possibile rispondere, tanto è vero che, senza attendere risposta da Gesù, uscì subito fuori a parlare con i giudei. Poi tornò nel Pretorio e, mentre i giudei insistevano nel chiedere la crocifissione, gli disse: “Senti quante cose dicono contro di te”? Siccome Gesù taceva e questo silenzio lo meravigliava molto, e forse un poco lo seccava, il governatore romano gli parlò così: “Ma lo sai che da me dipende la tua vita o la tua morte? io ho il potere di farti crocifiggere oppure di salvarti”, ma Gesù con calma gli rispose: “Tu non avresti questo potere se non ti venisse dall’alto”, e furono le sue ultime parole nel processo. Sono di una forza non definibile, rivelano una statura tale che affascinò persino Nietzsche, che nell’Anticristo scrisse: “La pratica della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini: il suo contegno davanti ai giudici, agli sgherri, agli accusatori e a ogni specie di calunnia e di scherno, il suo contegno sulla croce. Egli non resiste, non difende il suo diritto, non fa un passo per allontanare da sé il punto estremo, fa anzi qualcosa di più, lo provoca... e prega, soffre, ama con loro, in coloro che gli fanno del male...” L’unico estremo tentativo di salvarlo, dovuto ad una raccomandazione che la moglie Claudia Procula gli aveva inviato tramite un’ancella mentre sedeva in Tribunale, fu quello di far scegliere un prigioniero da liberare, ma il popolo ebreo scelse Barabba, che era un rivoluzionario, dal quale si attendeva la liberazione dal dominio di Roma. In definitiva Gesù si vide vicina ancora una volta una donna. La Chiesa ortodossa l’ha elevata agli altari e celebra Santa Procula il 27 ottobre.

Pilato abbandonò dunque Gesù al suo destino. All’atto della crocifissione gli diedero da bere vino misto a fiele o vino mirrato, una sorta di narcotico che serviva a stordire il condannato e ad attenuare così le inimmaginabili sofferenze dell’inchiodatura sulla croce, ma lui lo rifiutò. Un uomo giusto, di nome Giuseppe di Arimatea, che pur essendo un membro del Sinedrio viene ritenuto nei Vangeli un discepolo occulto, si fece avanti a chiedere coraggiosamente a Pilato il corpo di Gesù e la sua richiesta fu accolta da Pilato. Tenete presente, ragazzi, che i condannati alla crocifissione solitamente duravano a lungo, per cui si usava talvolta il crurifragio, si spezzavano cioè le ginocchia, cosicché il corpo si abbassava e le braccia, comprimendo il torace, provocavano la morte per asfissia. Poiché era imminente la Pasqua, fu praticato ai due ladroni crocifissi con lui, ma non a Gesù perché si accorsero che era già morto. Sempre Giovanni si dichiara testimone oculare dell’episodio del soldato romano che trafisse con la lancia il costato, da cui fuoriuscì sangue e acqua e invita tutti con fermezza a credere a quanto lui asserisce, lasciando dedurre che forse era corsa qualche voce dubbiosa dell’effettiva morte di Gesù sulla Croce. Solo Giovanni parla di questa ferita che è l’unica mortale e che compare nella Santa Sindone. Ottenuto il corpo di Gesù, Giuseppe di Arimatea provvide a farlo deporre dalla croce e a farlo seppellire in un sepolcro che aveva da poco costruito nel suo orto. Anche Giovanni ne dà una indiretta conferma quando narra di Maria Maddalena che non riconobbe Gesù risorto accanto a lei, credendo che fosse l’ortolano.

Questo è il processo a Gesù, ma prima di lasciarvi intendo accennare, fra i tanti valori da attualizzare, alla grande rivalutazione della donna che c’è nei Vangeli. A quel tempo le donne non avevano la capacità di testimoniare. I Vangeli le hanno rese testimoni della Resurrezione. Chi va al sepolcro all’alba del terzo giorno? Sono solo donne, tranne che nel racconto di Giovanni. Lungo la “Via Crucis” c’è la Veronica, che gli asciuga il viso madido di sudore e macchiato di sangue. All’atto della crocifissione, “le donne osservavano da lontano”. È probabile che tra loro ci fossero, benché non menzionate espressamente, Marta e Maria di Betania. Betania è un paesino alle porte di Gerusalemme. Quando i farisei accusavano Gesù che se la faceva con le prostitute, probabilmente alludevano alle donne di quella casa di Betania, che lui frequentava spesso, talvolta pernottandovi. Si chiamava la casa di Simone il lebbroso, questa casa tanto chiacchierata ma a lui tanto cara. Fratello di Marta e Maria era Lazzaro, che lui aveva resuscitato da morte. Ma la donna che gli sta sempre a fianco è comunque la Maddalena, che egli aveva conosciuto probabilmente agli inizi della sua predicazione poiché Magdala è un paesino sul lago Tiberiade a 18 chilometri da Nazareth. Tutti e quattro gli Evangeli testimoniano la sua presenza sotto la Croce. Lo seguì fino alla visita al sepolcro e anche oltre, dopo la Resurrezione, avendo voluto lui mostrarsi per prima soltanto a lei, evidentemente perché le ricambiava lo stesso amore, come viene riferito nel Vangelo di Filippo, che è uno dei cosiddetti Vangeli Apocrifi.

Ragazzi, capirete che tra le tante esperienze della vita un vero amore è la più grande fortuna che si possa avere. Oggi voglio farvi anche un augurio, di trovarlo un amore così bello, vero, serio; di riuscire a concepire un amore profondo, immortale e irrinunciabile quale fu quello tra Gesù e Maria di Magdala.

Gesù era verosimilmente bello, o quanto meno aveva un aspetto maestoso, come si può dedurre dal fatto che le guardie che andarono ad arrestarlo, appena lo videro, indietreggiarono e caddero a terra. L’altezza dell’uomo della Sindone è di metri 1,77, e io all’autenticità della Sindone, ragazzi, quasi ci credo. Gesù aveva fama di essere amante della buona tavola ed anche del vino. Quest’uomo amava tanto la vita, era insomma un uomo vero! Perciò egli appare ancora più grande nel momento in cui va incontro alla croce e l’accetta con sfida, con quelle indimenticabili parole con cui rispose all’arroganza del potere.

Non sono ancora giunto a credere alla Resurrezione, ma ho il convincimento certo che quest’uomo era munito di poteri taumaturgici soprannaturali. Si può pensare che egli abbia emanato una grandissima irradiazione sul lenzuolo con cui fu avvolto il suo cadavere. Sulla Santa Sindone, infatti, l’immagine di Gesù è stampata come il negativo di una fotografia e si son fatte tante prove per riprodurre quell’immagine in negativo, ma nessuno c’è riuscito. Alcuni scienziati hanno anche detto che c’è stata una forte irradiazione di calore, un’energia fortissima che avrebbe impresso su quel lenzuolo l’immagine di lui, e qualcuno è giunto a dire che il maggior calco dell’immagine impressa sta sulla parte superiore del lenzuolo e potrebbe essere interpretato come un segno di elevazione..., cari ragazzi, io non credo alla Resurrezione, però a leggere queste constatazioni della scienza mi vengono i brividi e penso ci sia ancora da discutere a lungo per negare che la scienza possa dare sostegno alla fede. Questi segni di irradiazione verso l’alto potrebbero significare una... elevazione dal sepolcro... la Resurrezione!

Ma la razionalità riprende purtroppo in me il sopravvento, non riesco a credere ad una Resurrezione della carne, ma riesco tuttavia a concepire una Resurrezione in senso teologico. La Teologia mi consente una interpretazione di quel mistero che non è lontana dalla filosofia. Ebbene, ai ragazzi che dubitano io propongo: sulla Croce muore il Dio biblico, Javeh, il Dio che scaccia Adamo ed Eva dal giardino terrestre senza perdonare la loro disobbedienza, il Dio del diluvio, il Dio che ordina ad Abramo di uccidere il figlio Isacco, il Dio vendicativo al pari degli dei dell’Olimpo, e risorge il Dio del giardino terrestre che amava le due creature prima di scacciarle, il Dio misericordioso, il Dio dell’amore, che si era incarnato in Gesù: Il Dio buono è già risorto nel momento in cui, parlando per bocca di Gesù, dice: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Come Adamo ed Eva, che prima della disobbedienza non hanno attinto ancora la conoscenza, così i carnefici di Cristo “non sanno quello che fanno”, perché il sacrificio di Gesù li ha già purgati del peccato originale, riportandoli a prima che, disobbedendo a Dio, mangiassero il frutto dell’albero della conoscenza.

È una mia idea, naturalmente. Vi prego di accettarla come espressione sincera della mia “religiosità”.

Monsignor Giovanni D’Alise

L’avventura vissuta dalle persone che hanno incontrato Gesù in questi primi anni è stata questa: l’essere affascinati da un uomo che ti catapulta in un’altra dimensione: all’inizio tu non sai qual’è questa dimensione, poi scopri che essa è la dimensione divina, cioè è Dio. Non c’è altro segno sulla Terra per scoprire Dio, è inutile. Anche tutto il lavoro dei filosofi ci porta a un concetto, a una definizione di Dio, ma se vogliamo essere introdotti nella realtà di Dio non c’è altra possibilità se non quella di mettersi, occhi negli occhi, con Gesù, capirlo come uomo, e quando hai capito tutto il suo cammino allora t’accorgi che lui ti ha introdotto in una dimensione nuova.

Nello stesso processo il momento per me più alto, il momento che nessun aggettivo riesce a qualificare, è quello in cui si incontrano Gesù e Pilato, uno di fronte all’altro. Pilato, che rappresenta il potere più forte in quel momento storico, il potere dei Romani quasi padroni del Mondo, e Gesù che sembra un uomo qualunque, ma porta dentro di sé la dimensione dell’essenza divina. E Gesù ci coglie e ci porta piano piano con mano a farci scoprire una realtà profonda. E quella realtà che sta di fronte a lui e che è impersonale in Pilato, che dietro di sé ha tutto il mondo romano, è nient’altro che qualcosa di questo mondo. Quando dice: “non avresti questo potere se non l’avessi ricevuto dal Padre”, fa una distinzione chiara, cioè tu, Pilato, non sei al di sopra, tu fai parte di questa caducità del mondo. Il suo silenzio, il porsi davanti a lui e il non difendersi, per me significa una sola cosa: egli è Dio, è venuto e si è fatto uomo, non ha bisogno di difendersi. Perché non ha bisogno di difendersi? Perché lui ha posto delle domande e compiuto delle azioni che sono un pugno nello stomaco delle persone. Nessuno si sarebbe permesso mai di dire sul “Sabato” quelle parole, nessuno si sarebbe permesso di cacciar via i mercanti dal Tempio, nessuno si sarebbe permesso di fermare la condanna a morte di un’adultera. Lui si è permesso, attraverso un modo che ha trasmesso un valore senza usare violenza, di rispettare l’uomo prima che il Sabato, quello di rispettare la casa di Dio prima della vendita, etc. Allora sta dando dei segnali all’umanità di oggi per cogliere ciò che non si può cogliere qui sulla Terra, perché il discorso vero è: come faccio a cogliere il Divino? Mentre mi trovo qui in questo mondo che è tutto passeggero, caduco, mortale, come faccio a cogliere l’immortale? E allora guardatela quella figura, Gesù è mastodontico, per me non trovo un’altra parola, moralmente mastodontico davanti a tutta l’armata, a tutto l’armamento, a tutti gli orpelli del potere umano. E lui è lì, spoglio, completamente domato. Guardate, non si può fermare l’interrogativo su Gesù solo alla condanna. Va guardato tutto, perché quella condanna ci apre il passaggio a ciò che è il Divino che irrompe nell’umano, cioè la Resurrezione.

Allora io non mi stanco mai di contemplare quella scena tra Pilato e Gesù e c’è un discorso che il Giudice ha captato bene perché conosce molto bene il Vangelo. Io aggiungerei solo una cosa: “Lì, se una persona vuole veramente capire, può capire perché Gesù oppone il silenzio”. Il Silenzio insieme alla parola è il veicolo attraverso il quale Dio parla. E in quel momento, in un momento in cui tutti sono contro Gesù, compresa l’incertezza di Pilato, quella incertezza viene dal messaggio inviato, ma certamente a me piace vederla così: Pilato ha capito e ha colto che quest’uomo non è uno dei quei quattro ribelli velleitari che spesso arrivavano davanti a lui. Qui ci sta qualcosa di grande e comincia a temere. Perché? Non abbiamo toccato il momento in cui lui fa il tentativo di liberarlo, ma non perché ha capito fino in fondo, ma perché ha capito che tratta con una persona che è troppo grande, che lo affascina con quel silenzio. Chiunque avrebbe sgambettato, avrebbe detto o fatto qualcosa, lui perché non fa e non dice nulla? Perché lui non si deve difendere, lui è venuto per porsi in mezzo al Mondo e per chiamare tutti gli Stati, chiamare tutti quelli che vogliono incasellarlo. Quell’uomo Gesù non lo incaselleremo mai, perché è di questo mondo ma non è di questo mondo.

Qui è l’unica possibilità che abbiamo di cogliere profondamente la rivelazione del Divino. Quel breve discorso tra Pilato e Gesù per me è affascinante quando si parla della Verità. Gesù con il suo silenzio e il suo fascino porta Pilato a domandare: “Cos’è la Verità”? E allora, badate bene, da un lato c’è la verità che si proponeva allora: la forza, Pilato. Pilato è il rappresentante di un Impero che ha fondato tutto sulla forza delle armi e sulla divisione delle classi. Da quest’altra parte c’è un uomo spoglio, il quale dice: cos’è la Verità? la verità la devi cercare, sta lì, la verità è quella: non c’è potere umano che non venga da Dio, e non c’è potere umano che può mettersi al posto di Dio. In quella sua nudità, in quel suo silenzio e in quel dire “la Verità”, l’uomo deve continuare la ricerca. E la verità dov’è? È esattamente in Gesù. Lui aveva detto: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”, parole molto forti che troviamo nel Vangelo di Giovanni. Vedete che i Vangeli sono stati scritti vari anni dopo la morte e la Resurrezione di Gesù, e quando si è riordinato il materiale su Gesù – queste cose bisogna collegarle – quell’interrogativo rimasto in sospeso davanti a Pilato bisogna ricollegarlo al Gesù che ha detto: “Io sono la Verità”. E cioè a dire: c’è qualcuno che regge il mondo? C’è qualcuno che non lo puoi piegare neppure con un processo falso? Non l’hanno piegato perché Gesù è risorto.

Questo è il discorso vero, per questo io mediterei a lungo davanti a quella nudità di Gesù, a quell’essere con le mani legate, a quel silenzio, e dall’altra parte il rappresentante del potere, con i gendarmi, con tutta la sua prosopopea, ma non con la Verità. L’ha detto il Giudice, quel giudizio non contiene la verità, mentre quell’uomo contiene la Verità con la “V” grande, davanti alla quale ci dobbiamo confrontare, fratelli miei! Confrontare, e non possiamo dire: “Non mi interessa”. Ragazzi, non cadete in questo tranello, voi siete liberi di fare quello che volete, ma non cadete nel tranello di mettere subito da parte Gesù. Davanti a questa persona dobbiamo prendere una decisione. C’è uno scrittore francese, bellissimo, ha scritto i Pensieri...

Giudice Iannarone

Pascal...

Monsignor D’Alise

Sì, Blaise Pascal. Allora Blaise Pascal ha affermato che davanti a Gesù non si può dire: “Non m’importa”. Nel momento in cui dici: “Non importa” hai già preso la decisione. Allora guardate Pilato e Gesù: non ci potrà essere mai Legalità se non c’è la Verità. Per questo quel processo non è accidens nel discorso dei Vangeli, ma è ancora una fase rivelativa del Cristo, perché non c’è un’altra strada per incontrarsi con la Verità che ci immette in Dio.

Io voglio dire a tutti quanti: troppe cose si dicono su Gesù, ma troppe cose non sono secondo verità. A volte, permettetemi, anche all’interno della Chiesa non ufficiale, ma nella pratica di ogni giorno, molte cose attribuite a noi non sono la verità. E allora partendo dal processo – e ringrazio il giudice che si sta impegnando in questa cosa – bisognerebbe ripulire tantissime cose su Gesù e ritornare, come ha fatto il Concilio Vaticano II, alle radici, ma non l’hanno ascoltato in molti, perché lì veramente abbiamo la possibilità di prendere la strada per recuperare la presenza di Dio in questo mondo. E allora non seguite le mode, ve lo dico adesso. Io rispetto molto la libertà di tutti, ma seguite il vostro istinto di uomini e di donne, seguite quello che sentite dentro. Quando sentite dentro di voi l’interrogativo grande: “ma in questo mondo c’è una verità?”, perché noi vi stiamo riempiendo... di panini, di brioche, di serate, di suoni, strasuoni e vi stiamo togliendo, noi adulti, vi stiamo togliendo le uniche possibilità che avete per capire se in questo mondo c’è la Verità.

Un vescovo molto amico del giudice e mio, che non nomino, nelle sue battute più semplici diceva: “ ’A vita è nu Teatro”.

(Si sentono sorridere i presenti in Sala).

E la vita, senza la Verità, è un vero Teatro e invece Gesù ci ha voluto dire che la Vita è una meravigliosa realtà. Il discorso delle Beatitudini, mi piacerebbe farlo insieme perché è l’annuncio di come dovrebbe essere la Vita, quella Vita che rispecchia il Divino sulla Terra. Gesù ce l’ha presentato, e in lui sono già tutte le Beatitudini, quel silenzio, quella dolcezza nel rispondere mentre lo schiaffeggiano, quell’andare incontro alla morte: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. In lui sono concentrate tutte le Beatitudini, ma senza la Resurrezione non è possibile vivere le Beatitudini, non è possibile. Poi voi me lo dimostrerete, ma io vi dimostrerò che senza la Resurrezione non è possibile vivere le Beatitudini, perché se non c’è questo quadro di riferimento il discorso di Gesù non si comprende. Il discorso di Gesù si può vivere fino a un certo punto, ma nella sua globalità. Nella visione che lui ci porta è un discorso che è possibile se facciamo il passaggio da Gesù Uomo a Gesù Dio e con quegli occhi riguardiamo la Vita, tanto è vero che Gesù viene presentato da Paolo come l’Uomo nuovo, e noi di questo abbiamo bisogno. Dopo 2000 anni stiamo ancora alla ricerca di questo e non riusciamo. Vedete un attimo come la cultura umana scandaglia, arriva a delle verità profonde, si avvicina alla porta della Verità ma non può aprirla, perché la porta della Verità si apre dall’altra parte e Gesù è venuto per aprire questa porta, però è molto importante che noi facciamo l’itinerario. Per cui questi tentativi, i tentativi personali per cercare in questo mondo ed arrivare a quella verità sono lodevoli.

Io vi benedico tutti, sono contento, sono veramente questi gli itinerari che portano a maturità. Quando infatti l’uomo si chiude e si accontenta solo di mangiare, bere e fare l’amore, si è già chiuso, cioè è finito tutto, ma in tutto questo si può scoprire la profondità della Vita perché dietro il mangiare, il bere, il procreare, etc., ci può essere anche un modo diverso di vivere. Quello che io vi auguro è che possiamo anche noi tentare di presentare l’Uomo nuovo, quello di cui gli uomini e il mondo hanno bisogno, perché gli uomini che conosciamo sono veramente vecchi. Grazie.

(Intervento di studenti con domande varie...)

Monsignor D’Alise

Cercherò di essere il più breve possibile, però chiedo a voi qualche istante di ascolto, non con le orecchie, ma con il cuore, perché quello che mi avete chiesto sulla Resurrezione è il cuore stesso dell’annuncio cristiano. Della Resurrezione non si può parlare come un qualcosa da spiegare a livello scientifico o attraverso i normali canali della razionalità. Quando noi parliamo della Resurrezione siamo a quel momento in cui si è fatto con impegno il cammino di ricerca e si è alla porta del Divino, ma poi ci deve essere una gran mano di Dio per entrare. Ricordiamo che la Fede è un dono di Dio che bisogna meritare, che arriva nel momento in cui c’è stato tutto il cammino della ricerca umana. E allora andiamo e insieme sotto la Croce, mettiamoci tra la gente che è andata lì, tra quelli che guardavano da lontano o addirittura tra quelli che hanno inchiodato le sue mani.

Quel discorso, quello che è successo sulla Croce, è comprensibile all’interno di tutto il cammino biblico, altrimenti si resta fuori. Oltre agli apostoli e a circa 500 discepoli, nessun altro ha visto Gesù risorto. Dunque, se non c’è il cammino biblico, non è comprensibile quella morte e non è comprensibile quella Resurrezione. Che cosa ci dice il Vangelo? Che Gesù ha annunciato tre volte quel momento e nel Vangelo di Giovanni dice: “È la mia ora”. Gesù è partito dal seno del Padre con una missione sulla Terra, quella di riunire l’Umanità dispersa e far capire a tutti che hanno un Padre. Se noi togliamo questo progetto per il quale è venuto, non capiamo quasi nulla. La lettera agli Ebrei dice: “Dammi un corpo, vado io”. “A fare cosa”? A riunire i fratelli dispersi. Questi fratelli, Dio aveva già tentato di riunirli attraverso questo popolo particolare che si era scelto, attraverso quel passaggio del Mar Rosso, attraverso la Pasqua ebraica, immagine e simbolo di quella Pasqua finale di Cristo, del passaggio attraverso la morte per arrivare alla vita.

Ora ritorniamo sulla Croce, Gesù sa che il Padre non lo abbandonerà e nonostante l’abbandono di tutti, Gesù non smette quel discorso cominciato con il dare la vita, cioè il discorso dell’amore senza misure, perché del Cristianesimo non è solo il comandamento dell’amore ma è il concepirlo senza misura. Gesù sale sulla Croce, abbandonato da tutti e si mette nelle mani del Padre “Nelle tue mani io rimetto il mio spirito”. È il segno dell’obbedienza che parte dal senno della Trinità, passa attraverso tutti gli stadi della vita terrena di Gesù e sulla Croce quell’obbedienza fatta al Padre cancella la disobbedienza del giardino dell’Eden, la disobbedienza di Adamo e di Eva perché fino a quell’attimo non c’è stato un sì pieno al Dio Creatore, non c’è stato un sì pieno al Dio Salvatore. E allora lui, carico di tutta l’umanità – perché non dobbiamo dimenticare che Gesù sale sulla Croce carico di tutta l’umanità – fino all’ultimo dice il suo “Sì” e anche quando ha paura e recita il Salmo 23 per esprimere la sua paura, come uomo lui sperava: “Il Padre troverà uno stratagemma per salvarmi”, ma quando si è visto inchiodato sulla Croce ha capito che questo non sarebbe avvenuto. E allora ha detto: “Padre nelle tue mani rimetto il mio spirito”, ma prima ha usato un Salmo che è parola di Dio, per gridare in quell’istante il lamento dell’umanità intera: “Perché mi hai abbandonato”? Perché l’umanità non l’ha più visto, Dio. Gesù sente il silenzio dell’abbandono del Padre, quello che è stato il dolore più grande dell’umanità. Il dolore più grande della sua umanità non è stata la condanna ingiusta, neppure l’abbandono dei discepoli, ma l’aver sentito anche l’abbandono del Padre. Gesù è solo sulla Croce e nonostante tutte le ragioni per ribellarsi è rimasto nell’obbedienza al Padre. Dice San Paolo, quando spiega la Resurrezione: “Questa cosa è talmente piaciuta al Padre che lo ha resuscitato dai morti”, cioè il Padre non ha usato quello stratagemma che pur si aspettava lui, ma ha dato una risposta prudente per l’umanità intera: “La morte è stata vinta”.

Questo ha da annunciare il Cristianesimo: che la morte non è l’ultima sconfitta dell’uomo, ma è la possibilità di entrare nella Vita. Nient’altro. Nel momento in cui Dio ha sconfitto per noi la madre di tutte le paure, che dà il nonsenso a tutte le cose, ecco che abbiamo un ordine nuovo del Mondo, ecco che comincia la Vita. Quando noi andiamo a Messa e rinnoviamo il mistero della morte e della Resurrezione del Cristo, noi diciamo: “Nuova ed Eterna Alleanza”. Cioè è ritornata quell’Alleanza definitiva di Dio con l’Umanità. Vedete che cosa grandissima dice il Cristianesimo? Gesù è entrato in Cielo alla destra del Padre con il nostro corpo trasformato dalla Resurrezione. Quella Umanità che era lontanissima da Dio Gesù l’ha ripresa e l’ha riportata dentro la Trinità stessa. Se noi spezziamo queste cose, non capiremo. Questo è l’itinerario che attraversa veramente la ricerca dell’uomo: “A chi mi ama mi manifesterò”, attraverso l’amore, il sentimento che è la via più grande per poter fare quest’ultimo percorso. Senza quest’ultimo percorso la figura grandiosa del Gesù può anche affascinare ma è incompleta. Qui nasce la Fede, cioè come Gesù si è abbandonato nelle mani del Padre rivivendo quello che aveva vissuto Abramo quando stava per uccidere il figlio Isacco. Contro ogni speranza, dice San Paolo, Abramo ha creduto, e Gesù, contro ogni negatività umana, inchiodato sulla Croce, ha creduto all’amore del Padre e il Padre glielo ha dimostrato attraverso la Resurrezione.

Intervento degli studenti

Molti di noi si stanno avvicinando a un traguardo importante della vita, l’esame di Stato, una volta erano chiamati gli esami di Maturità. È un momento di crisi, un momento in cui ci si sente squassare dentro, siamo chiamati a decidere della nostra vita. Sappiamo di non poter trovare da soli la nostra strada perché il problema principale non è porsi la domanda come il titolo di un noto film: “Che ne sarà di noi” ma la domanda essenziale: “Chi saremo noi”? In un mondo sempre più difficile da vivere, dove la paura sembra prendere il sopravvento, la paura di non trovare un lavoro stabile, la paura di non trovare corrispondenza al bisogno di affetti veri che abbiamo, la paura che il tempo ci scorra addosso e corra via senza lasciare traccia, la paura che la violenza, il fanatismo e l’egoismo diventino la regola, guardiamo a Lei come guida che abbiamo sempre seguito, perché abbiamo sempre più bisogno dei discorsi degli adulti che ci offrono la speranza.

Stiamo facendo con i nostri insegnanti di religione un cammino di riflessione proprio su questo: cosa c’entra il Cristo e la certezza di essere figli di Dio con la nostra vita e con il desiderio di felicità, turbato dalla certezza di dover soffrire e di dover morire, che è nel cuore di tutti noi? Per questo l’incontro di oggi su un tema così affascinante come “Il Processo a Gesù”, ci ha aiutato più che a soddisfare delle curiosità a poter conoscere con lui l’ipotesi positiva su cui, volendo, si può costruire il futuro. Ringraziamo la Preside e i Docenti che mostrano grandissima sensibilità e disponibilità a che questi temi vengano immessi nel cuore del cammino educativo.

Eccellenza, abbiamo deciso di regalarle un calice e una catena fatta da noi, è un piccolo segno della nostra amicizia. Sarebbe bellissimo se potesse celebrare l’Eucarestia almeno una volta in questa scuola, con questi oggetti che esprimono la nostra piccola Fede ma anche il nostro grande affetto.

Grazie ancora.

(Applausi da parte di tutti i presenti)

SAGGIO (Commento al Saggio di Mirella Napodano SOCRATE IN CLASSE)


IL LIBRO DI MIRELLA NAPODANO "SOCRATE IN CLASSE"



(Commento di Gennaro Iannarone)



Il desiderio di esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo si intuiscono e le fa trovare a noi e agli altri è amore. Perciò essere maestro, esser sacerdote, esser cristiano, essere artista, essere amante ed essere amato sono in pratica la stessa cosa(don Lorenzo Milani)



         Il proposito di fare filosofia con i bambini potrebbe suscitare a una prima reazione psicologica scetticismo o meraviglia. A tutt’altro convincimento si perviene, invece, dopo aver letto lo straordinario libro di Mirella Napodano: “Socrate in classe”, editore Morlacchi-Perugia, già pervenuto alla ristampa.

         Mirella Napodano e il marito Gigi Iandoli, entrambi docenti di filosofia, coltivano l’idea di diffondere le tematiche filosofiche al di là delle mura scolastiche o anche universitarie. Approdano così per prima nelle carceri, per discutere con i detenuti del senso della colpa e della pena. Poi, in collaborazione, si spostano fra i bambini del II° ciclo (terza, quarta e quinta) della scuola elementare e inventano la “Lezione di filosofia”, convinti che bisogna “recuperare l’idea socratica di verità come frutto del dialogo”.

         Ha inizio così nella Scuola Primaria Paritaria “S. Chiara d’Assisi” di Avellino un vero e proprio laboratorio di idee semplici ma essenziali per una vita morale, la cui organizzazione, non priva di videoregistrazioni o della redazione di “Diari di bordo” ad opera degli stessi alunni, si fonda su tre principali cardini:

a) riuniti i bambini sotto la guida di due o tre insegnanti e la direzione del prof. Gigi Iandoli, si racconta loro un mito, una favola, si legge una poesia o una frase tratta da testi filosofici, e comunque si propone un tema idoneo a suscitare considerazioni di ordine etico e comportamentale di notevole valore educativo;

b) i bambini vengono stimolati ad esprimere liberamente il loro pensiero e a ricercare i significati desumibili dal tema proposto, donde nasce un interessante dialogo, quasi un dibattito, tra di loro;

c) gli insegnanti ne seguono attentamente lo svolgimento, e intervengono soltanto per porre ordine nelle discussioni, talora animate da vivaci contrapposizioni di idee, o anche per evitare divagazioni e orientare gli alunni verso una conclusione del discorso, possibilmente conciliativa delle eventuali divergenti opinioni, ma in ogni caso portatrice di forti messaggi.

         L’idea viene accolta e realizzata con entusiasmo dagli scolari, che partecipano assiduamente e con intelligenza ad oltre cinquanta sedute, giungendo a definire la “lezione di filosofia”, molto significativamente, come “l’ora della libertà”. A distanza di qualche anno, scomparso il prof. Gigi, la moglie Mirella ne continua l’opera con grande professionalità, alimentata dall’appassionato ricordo del marito e delle sue originali e interessanti sperimentazioni. Dà quindi alle stampe “Socrate in classe”, nel quale riannoda magistralmente i concetti e i metodi pedagogici fondati sulla efficacia dell’apprendimento dialogico. In particolare, ponendo a base le autentiche “lezioni di filosofia”, ella opera in modo che, per dirla con Goethe, “la macchina dei pensieri sia come il telaio del tessitore, dove i fili scorrono invisibili ed un colpo genera mille collegamenti”. E infatti dal libro di Mirella Napodano è possibile enucleare degli “argomenti-chiave” intorno ai quali ruota tutta l’opera e le considerazioni filosofiche dell’autrice, che non prescindono mai dai dialoghi dei ragazzi, ma ne fanno la trama principale da cui si dipartono a raggiera notevoli riflessioni politiche, pedagogiche e morali, dominate dal principio che la conoscenza si costruisce con il dialogo e l’argomentazione (concetto della “metacognizione”), inframezzate, con discrezione, da alcune massime di grandi pensatori.

         In un primo capitolo (“La filosofia con i ragazzi come nuova paideia”) viene posto in evidenza l’utilizzo del mito nella pratica della filosofia dialogica a scuola e riportato, come annotato nel Diario di bordo, il “Mito di Eros” da Platone, che verrà ripreso anche nel capitolo sesto (“Esplorare l’immaginario”). Rileggendo i passaggi fondamentali le ragazze si soffermano su Eros, figlio di Poros, l’abbondanza, e di Penìa, la povertà, il quale diventa amico di Afrodite. Per le caratteristiche prese da entrambi i genitori, Eros saprebbe apprezzare tutti, sia i sapienti che gli ignoranti e saprebbe parlare sia con il ricco che con il povero. E poi amerebbe l’arte, il bello. Un alunno dà una sua interpretazione: gli dei non invitavano mai Penìa sull’Olimpo perché non volevano conoscere la povertà, ma intanto in tal modo restavano ignoranti. Qualche altro osserva che gli dei erano in errore nel ritenere di sapere già tutto. L’analisi del mito sollecita poi tra i ragazzi molti scambi di battute: considerazioni sul desiderio di conoscere, che può portare anche ad una svolta di vita, sul desiderio di amore che evita un’esistenza vuota, sui desideri positivi e negativi che conducono rispettivamente a scegliere il bene e il male, sulla differenza tra amore e piacere. I docenti bloccano le divagazioni per ricondurre il discorso sul tema centrale: Eros aspira, ama e desidera diversamente dagli altri dei. Poi il dibattito continua sulla differenza tra amore e desiderio e i più si esprimono nel senso che il desiderio è diverso dal sentimento di amore, mentre solo qualche ragazza afferma che nel desiderare c’è sempre un sentimento. Alla fine, dopo una ulteriore rianimazione del dialogo, il conduttore tenta di dare una conclusione: “Desiderare va a braccetto con amare quando lo leghiamo a cose importanti (e spirituali), se invece lo riferiamo a qualcosa di non importante (e materiale), allora no”. Nello stesso capitolo primo, anzi, già dapprincipio è sottolineata l’importanza del dialogo come fonte di rispetto dell’idea dell’altro, che si traduce poi in rispetto dell’altro, dopo l’interessante considerazione di un’alunna (Mariangela) che ci sarebbe monotonia in un mondo in cui tutti gli esseri umani abbiano lo stesso carattere e le stesse idee. Immaginando di essere intervistata sull’esperienza compiuta nel “laboratorio di filosofia” ed interrogata su che cosa ha appreso, la stessa risponde: “Di tutto: a rispettare l’idea dell’altro”.  

         Nel secondo capitolo (“Comunicare, ovvero navigare nel mare delle idee e dei perché”), dopo un accenno all’ “educazione sentimentale” che è stimolata dalla cooperazione laboratoriale l’autrice riporta una seduta nella quale gli alunni (una quinta elementare) sono partiti dal racconto di Pinocchio. C’è subito da meravigliarsi nel notare che essi hanno impostato più di una “quaestio” con la relativa “disputatio”, usando tali termini della filosofia scolastica con inusitata disinvoltura, una volta che li hanno ascoltati dai professori. Alla domanda “è bene farsi sempre convincere?” emerge come risposta quasi unanime il valore della riflessione su ciò che nel dialogo vien detto dall’altro. Il paese dei balocchi è apparso dapprima come quello in cui regna la libertà ma poi, disputando, si è rimasti convinti che piuttosto è “un mondo in cui non ci sono regole ma c’è caos”; un altro bambino ha preferito una definizione più etica che politica: “è quello in cui viviamo che ha tanto di cattivo e vogliamo eliminare”. Su una “quaestio” di tipo differenziale (ricorrente in tutte le “lezioni di filosofia”) concludono nel senso che l’ammaestramento lo si fa senza amore e con la sferza; l’insegnamento lo si fa con amore e perciò gli insegnamenti lasciano l’impronta nella vita. Seguono pagine di riflessione sull’approccio precoce alla metacognizione, essendosi collocato il laboratorio di filosofia dialogica, in cui si impara discutendo, tra Comunicazione, Argomentazione e Metacognizione.

         Nel terzo capitolo (Una relazione dialogica per educare all’ascolto e alla reciprocità), abbandonata la tradizionale credenza che l’educazione si realizza attraverso una sorta di travaso del sapere (che già Socrate aveva contrastato in un divertente episodio narrato da Platone nel “Convito” e riportato dalla stessa Mirella Napodano nel suo precedente libro “Philosophy for children”), e affermato il principio che “la conquista della relatività dei punti di vista costituisce un progresso notevolissimo della personalità infantile”, la lezione di filosofia eleva i suoi livelli, ponendo i piccoli allievi, nel novembre 2002, al confronto con il famoso “Mito della caverna”. Dopo la narrazione, l’ipotesi posta dal docente è che uno degli schiavi legati nella caverna esca fuori: sensazioni di sole, luce, chiarezza, conoscenza, sapienza, contrapposte a tenebre, ignoranza, mancanza di comunicazione. Uscire dalla caverna è una scelta di coraggio anche se rischiosa, mentre è codardo chi resta nella caverna. Nel seguito del dialogo emergono idee quali: contrapposizione tra sole e caverna, dove vengono evidenziati alcuni aspetti positivi della caverna (senso della protezione e della casa, restando nella quale non si conosce però il mondo) e negativi del sole (induzione alla vanità nella supposizione di essere gli unici a conoscere). Da sottolineare il clima collaborativo e la concentrazione costante dei bambini sul problema posto all’inizio dopo la narrazione del “Mito”.



PRESENTE, PASSATO, FUTURO



a)     Si è partiti dalla poesia “In viaggio per Itaca”. Dopo un dialogo tra i bambini si giunge al comune convincimento che non bisogna dimenticare il passato perché è utile per vivere il futuro.

b)    Poi l’esperienza, che è conoscenza, cambiamento, arricchimento, ad un “viaggio”, nel quale bisogna apprendere “Tutto di un po’ “, avendo gli scolari scartato le scelte di apprendere “Di tutto un po’ ” o “Un po’ di tutto”. Il professore conclude nel senso che il presente è la via di mezzo, “la medietà”, tra uno “Spazio d’esperienza” e un “Orizzonte di attesa”, mutuando l’espressione dal filosofo francese Ricoeur.

c)     Esperienza di solitudine e di mancanza di dialogo narrata da un bambino.



AMICIZIA



a)     Partendo dal testo di Aristotele dal titolo “L’Amicizia”, è sorto un dialogo molto articolato sui concetti di affetto, di amicizia come legame d’affetto disinteressato, di compagnia che non si identifica con l’amicizia. Qualcuno ha detto che si può essere disposti a cambiare carattere se così viene chiesto da un amico considerato vero. Di qui qualche altro è passato ad affermare che l’amicizia c’è soltanto quando c’è il rispetto per l’altro. I bambini hanno quindi espresso i seguenti concetti: 1) l’amicizia ha bisogno di equilibrio tra due persone; 2) l’amicizia è un legame familiare; 3) è il pezzo finale di un puzzle che compone una persona; 4) è come il sapere di un contadino ricco di esperienze; 5) è come una maratona. Una ragazza ha finito con l’osservare che l’amico vero trova i tuoi difetti e te li fa notare, mentre l’amico falso li fa notare agli altri.

b)    Partendo dall’idea di uno scolaro per il quale l’amicizia è fondamentale perché rappresenta uno sfogo, il docente ha invitato a riflettere sulla differenza tra sfogo come bisogno e desiderio. Si è parlato poi dell’addomesticamento tra amici e della perdita della indipendenza. Si è concluso dicendo che l’amicizia non deve comportare il soffocamento dell’altro.



LIBERTA’



a)     I bambini hanno svolto alcune considerazioni sulla base della favola “La capra del signor Seguin”, scritta da A. Daudet. Concetti centrali quelli della libertà, del rubare per necessità, della sicurezza e della ingiustizia.

b)    Il dialogo si è poi concentrato ancor di più sulla differenza tra libertà “di” e libertà “da”, in quanto la prima è stata chiamata libertà positiva e la seconda libertà negativa. I ragazzi invece hanno preferito soffermarsi un po’ sulla differenza tra libertà interna, che secondo alcuni di loro sussisterebbe sempre, e libertà esterna. Qualcuno ha osservato che la libertà interna esiste se c’è la conoscenza; qualche altro ha posto l’accento sulla libertà negativa, che sarebbe la più difficile da mettere in atto, come proverebbero i martiri del Risorgimento italiano.



SAPIENZA E SAGGEZZA



a)     Dopo la lettura di una frase di Aristotele (“I giovani diventano sia geometri, sia matematici e sapienti in queste cose, ma sembra che nessuno diventi saggio”) uno dei bambini apre il discorso dicendo che “l’apparenza inganna” e dopo di lui un altro vorrebbe sostituire alla parola “nessuno” del testo aristotelico la parola “alcuni”. Entrambi i ragazzi tentano di sostenere che anche il giovane può essere saggio. I docenti fanno capire ai bambini che la sapienza può essere paragonata alla conoscenza, mentre la saggezza all’esperienza, al comportamento e al modo di essere.

b)    Mentre gli scolari hanno continuato a porsi la domanda se i piccoli o i giovani possono essere saggi, si è risposto loro con un’espressione filosofica: “La conoscenza è necessaria ma non sufficiente per essere saggi”. Qualcuno ha detto che una persona deve essere saggia con il cuore e deve mettere a disposizione le proprie conoscenze per gli altri, aggiungendo che questo significa anche essere "paterni". Ad una domanda provocatoria: “Sarebbe positivo o negativo se tutti nascessero con un manuale di istruzioni per l’uso?”, tutti hanno risposto che sarebbe negativo, perché ognuno saprebbe il proprio destino.





RELAZIONE IN TEMA DI STUDIO DEL COMPORTAMENTO





a)     I bambini vengono interessati a commentare le relazioni intersoggettive che emergono dal racconto “L’ochetta Martina” di K. Lorenz. Vengono colti vari aspetti del dialogo che tra loro si stabilisce, annotando le diverse opinioni dei bambini sul concetto di Imprinting. Si conclude nel senso che esso è importante per entrambi i protagonisti della storia, nel senso che, verificandosi che il comportamento dell’uno “impronta” quello dell’altro, ciascuno riesce a comprendere il comportamento e i modi espressivi altrui, anche nel rapporto tra l’uomo e l’animale. 

b)    L’insegnante arriva a chiarire con l’aiuto dei bambini come l’imprinting sia importante per avere un esempio di come fare le cose, ma sottolinea l’esigenza che per migliorare sé stessi bisogna impegnarsi in prima persona e non subire pedissequamente l’ “impronta” che si riceve dall’altro.

c)     La relazione annota che non tutti gli alunni partecipano attivamente alla discussione.





RELAZIONE SULLE METODOLOGIE DEL DOCENTE





a)     Nel primo incontro la discussione è stata stimolata dalla domanda: “Sarebbe meglio se tutti parlassero la stessa lingua?” Dopo qualche intervento riguardante l’utilità della conoscenza delle lingue, di interessante è emersa qualche metafora, come quella che “Le lingue diverse possono costituire un muro, mentre le lingue uguali possono essere la libertà”.

b)    Nel secondo la domanda dell’insegnante è stata: “E’ possibile vestire i panni dell’altro?” Dopo che i bambini hanno quasi sempre ripreso quanto detto dai compagni, l’insegnante ammonisce che “dentro di noi c’è qualcosa di nascosto che non viene mai fuori perché noi non vogliamo che venga fuori". Un’alunna ha stigmatizzato “qualcosa di nascosto che non è visibile”.

c)     Nel terzo incontro la discussione è partita invece da una favola: quella della cicala e della formica. Si è notata la tendenza alla identificazione di alcuni alunni nella diversa indole dei due insetti. Alla fine i bambini hanno tentato una ipotesi conciliativa: bisogna far sì che tra i due animali si giunga ad un rapporto di amicizia, anche dopo un litigio, come tra persone diverse e che nella vita, come ha detto uno degli scolari, “bisogna lavorare e bisogna divertirsi”.



IL PENSIERO NARRATIVO



a)     Il pensiero narrativo viene ritenuto utile strumento di conoscenza. Lungi dall’essere superato, esso può essere inserito ed utilizzato nel laboratorio di filosofia dialogica, sia perché la narrazione implica l’impegno dell’esperienza e della memoria, sia perché può essere sfruttata per dar vita a prodotti di scrittura creativa che lascia intravedere vissuti autobiografici di notevole intensità emotiva.

b)     In questa “avventura del racconto” si è tornati al “Mito della caverna”. I bambini si sono di nuovo soffermati sulla contrapposizione tra luce e tenebra, tra ignoranza e conoscenza, tra protezione e rischio, tra coraggio e vigliaccheria. Alla fine i bambini hanno in maggioranza affermato di aver capito che sono importanti sia la luce (il sole) che le tenebre (la caverna) ai fini della conoscenza e che, pur dovendo affrontare il nuovo (esempio dello schiavo che viene liberato o preferisce fuggire dalla caverna), nello stesso tempo bisogna conservare le proprie radici.



ESPLORAZIONE DELL’IMMAGINARIO



a)     Nel seguire il percorso della interpretazione di simboli, metafore, allegorie, ancora una volta è apparso utile richiamare l’attenzione degli scolari sui personaggi del “Mito della caverna” e sui possibili significati di quella particolare situazione.

b)    E’ stato interessante notare che i bambini sono riusciti ad affrontare un argomento di non facile comprensione e hanno saputo trasferire spesso il discorso al loro contesto quotidiano. Infatti, un ragazzo ha osservato che stare nella caverna è come stare sempre chiuso nella propria stanza; un altro ha detto che la catena è una metafora, significa che non sono liberi di vedere e capire quello che succede fuori, ciò che è la vera realtà; una bambina ha fatto il paragone con il brutto anatroccolo che la mamma porta sempre nello stagno (la caverna); un’altra disegna la caverna alla lavagna per poi chiedere se ha capito bene la situazione in cui vi sono gli incatenati; un altro ancora dice che "la caverna è come la televisione che a furia di fare pubblicità di un prodotto convince gli spettatori che la bontà del prodotto è proprio quella rappresentata"; infine, a parte qualche divergente osservazione, una bambina ha concluso che si ha una idea iniziale che ci condiziona, bisogna cercare altre notizie (uscire dalla caverna, cioè) per superarla.

c)     Ritornando sul punto da cui si era partiti, ai bambini viene ricordato che a loro viene affidato il compito di inventare un mito.

d)    Infine viene esplorato l’immaginario anche sotto il profilo corporeo e ludico.



LA PAIDEIA RITROVATA



         Il problema educativo – nella prospettiva del dover essere della cultura occidentale – ha avuto a che fare fin dalle origini con l’UTOPIA, espressa nell’Atene di Pericle con la metafora della città perfetta e nella sua capacità di trasformare gli individui in cittadini. Un’intima connessione caratterizza i concetti di repubblica e paideia in Platone, come pure una forte valenza formativa connota la politica in Aristotele. Per contro, la post-modernità ipercomplessa dei nostri giorni sconta l’asimmetria fra un dilagante sviluppo scientifico-tecnologico e una stentata rincorsa etico-politico-educativa, inficiata da relativismo, sfiducia e carenza di senso – che inevitabilmente ricadono sull’antropologia dell’educazione.

         In questa situazione non c’è posto per l’UTOPIA PEDAGOGICA.

         Spettando comunque alla scuola educare i giovani alla cittadinanza etica, ricreando la consapevolezza di un bene comune che merita di essere perseguito con buone pratiche, tra le buone pratiche il LABORATORIO DIALOGICO A VALENZA FILOSOFICA E’ UNA PROPOSTA INNOVATIVA, emotivamente coinvolgente, anche se radicata nella tradizione dialettica ed etica di una cultura ancorata ai valori fondanti della ricerca e della prosocialità.

         Il libro "SOCRATE IN CLASSE" di Mirella Napodano ha un notevole valore pedagogico e sociale. Se la dimensione fondamentale dell’educazione è l’amore per la crescita e la piena autorealizzazione delle creature umane, non vi può essere cura e premura più grande di quella di:

INSEGNARE A PENSARE IN AMBITO COMUNITARIO, FACENDO SPERIMENTARE IL PIU’ PRESTO POSSIBILE L’APPROCCIO FILOSOFICO ALLA CONOSCENZA E ALL’ESISTENZA, RECUPERANDO, ATTRAVERSO FIGURE EMBLEMATICHE DI MITI, FIABE E FAVOLE, IL RAPPORTO AUTENTICO CON LA VITA E LA REALTA’ QUOTIDIANA, UNITAMENTE AL DIRITTO ALLA RIFLESSIONE METACOGNITIVA E FILOSOFICA.



Lavorare a pensare bene: ecco il principio della morale

B. Pascal

Avellino, 25 ottobre 2008                                              Gennaro Iannarone