domenica 6 novembre 2016

Il caso Erika


Il caso Erika

Nel Codice penale la disciplina dell’imputabilità si fonda sulla tripartizione classica delle funzioni della mente: intelletto, volontà e sentimento, in cui si avverte una qualche analogia con l’anima sensibile, irascibile e concupiscibile della filosofia platonica. Non si è imputabili soltanto se le prime due funzioni (intelletto e volontà) siano alterate, o per non essere pervenute alla piena maturazione (come si presume in senso assoluto negli infraquattordicenni, e in senso relativo negli infradiciottenni, nei cui confronti è necessario accertare se sia avvenuta la suddetta maturazione), o per essere escluse a causa di un vizio totale di mente, o grandemente scemate a causa di vizio parziale di mente. Gli stati emotivi o passionali, riguardanti il sentimento, non escludono né diminuiscono l’imputabilità. Essi possono eccezionalmente aver rilievo, ai fini della esclusione o dell’attenuazione della capacità d’intendere e di volere, solo quando, esorbitando dalla sfera psicologica, degenerino in un vero e proprio squilibrio mentale. Se n’è discusso con riferimento al tema della gelosia, per ritenere che essa, sebbene sia un sentimento morboso, non incide sull’imputabilità se non quando provochi disordini nelle funzioni della mente e assurga ad una vera e propria forma psicopatologica, nonché con riferimento al tema della paura, la quale, se è pure compatibile con le libere scelte e con l’integrità mentale dell’autore di un reato, menoma peraltro la sua imputabilità solo se dilatata in una dimensione morbosa di infermità o seminfermità psichica. Se dal campo della capacità d’intendere e di volere ci si sposta in quello ontologicamente diverso della coscienza e volontà dell’azione, si passa dalla considerazione della mente presa di per sé sola, cioè come il complesso di tutte le facoltà psichiche dell’uomo, dalla memoria alla coscienza, dall’intelligenza alla volontà, dal raziocinio al senso morale, a quella della relazione tra la mente e le sue idee. In tale relazione consiste la volontà, la quale non è solo il potere d’impulso che la mente dà alle sue idee per far produrre loro un effetto nel mondo esterno, ma è altresì potere di inibizione, cioè di arrestare l’azione quando la volizione cosciente pone l’uomo in condizioni di valutare la portata immorale e comunque negativa delle proprie scelte.

         Se questi sono i principi fondamentali che le attuali dottrine giuridiche hanno posto a base delle teorie sull’elemento psicologico del reato, ci si domanda se può l’uomo di oggi essere ancora giudicato con categorie del diritto penale che fondano la colpevolezza sulla coscienza dell’azione da parte del reo, ovvero se, oltre la coscienza, possano venire in gioco nel campo penale anche manifestazioni ricollegabili all’inconscio e al subconscio, che cagionino alterazioni della visione del mondo esterno e conseguenti spinte all’azione non controllate dal potere di inibizione.  

         Appare subito evidente, entrati in queste tematiche, che non si può prescindere dalla psicoanalisi, dato che la “scienza nuova” di Sigmund Freud non era stata compiutamente esposta all’atto della regolamentazione dell’elemento psicologico nel Codice del 1930. Essa avrebbe infatti sconvolto il comune convincimento che l’uomo avesse la piena conoscenza della propria interiorità e potesse cioè governare e dirigere le proprie azioni, insegnando, invece, quanto complessa e quasi insondabile fosse la psicologia dell’essere umano. Era stata questa la scoperta rivoluzionaria dell’ “inconscio” e del “subconscio”, serbatoio di tutte le “rimozioni”; donde era venuta la spiegazione di molte manifestazioni umane, dai sogni ai lapsus e ad altre “psicopatologie della vita quotidiana”, mentre la punibilità delle azioni illecite rilevanti per il diritto penale rimaneva sempre ancorata alla “coscienza” e alla “volontà” dell’agire.

         Ora invece, e da qualche tempo, non si è più sicuri dell’esattezza di tali relazioni poiché si sono verificati nell’epoca contemporanea, in Italia ed in altri paesi del mondo, delitti così efferati, così orrendi e mostruosi, con una particolare specificità per i serial killer e per gli omicidi in famiglia, che gran parte della pubblica opinione ne è rimasta sconvolta al  punto da non credere ad una responsabilità “umana”, cioè riconducibile ad una persona consapevole del bene e del male e cosciente della portata delle proprie azioni, e al punto, altresì, da rimanere talora persino incredula di fronte ai responsi di periti psichiatrici che avevano ritenuto capaci di intendere e di volere soggetti condannati per siffatti delitti, giacché si è dubitato del fatto che alla loro commissione avesse potuto presiedere la “coscienza” di un uomo. Peraltro qualche studioso, confermando, per così dire, le “sensazioni a pelle” dell’opinione pubblica, è rimasto dubbioso sull’attuale validità dei canoni della psicologia e della psichiatria classica, ai quali le nuove raccapriccianti realtà sembravano aver dato un forte scossone. Così si è giunti a chiedersi, guardando a casi concreti fra i più impressionanti come quelli di Novi Ligure (il caso Erika), di Cogne (il caso Franzoni), di Ancona (Donato Bilancia), se la psiche dell’essere umano non abbia subito profonde trasformazioni, ossia se non siano insorte nell’uomo, divenuto “non umano”, e forse già “post-umano”, nuove psicopatologie non catalogabili in quelle tradizionali.

         Volendo analizzare il caso di Novi Ligure, che più degli altri ha sconvolto gli italiani, ed entrando subito in argomento, un aspetto posto in evidenza nella personalità di Erika Di Nardo sarebbe l’indifferenza verso la madre, un sentimento espresso più volte quando il perito le ha chiesto perché Omar l’aveva plagiata e convinta – come lei dapprincipio asseriva – ad ammazzare sua madre. Ad una prima valutazione l’indifferenza poteva essere equiparata all’anaffettività, non riconducibile però ad una forma di schizofrenia, della quale mancavano del tutto gli altri caratteristici sintomi, anche perché gli stessi periti, evidenziando nella ragazza chiare “note di narcisismo” (che si nutre pur sempre di amore), avevano accertato una caratteristica della personalità inconciliabile con la schizofrenia, in cui sono sintomatiche le sensazioni di “assedio”, di “ostilità” del mondo, le connesse manie di persecuzione. Altri studiosi hanno ravvisato nella ragazza una visione piatta della realtà, priva di emozioni e di affetti, ma ricca di fatuità e di manierismo, dove il rispetto delle regole formali sarebbe apparso addirittura superiore al valore della vita umana (da uno dei colloqui con Erika: “…avrei dovuto prendere qualcosa, come dice mio padre, e tirarlo dietro ad Omar, anche se sarebbe stato brutto…” e ciò mentre stava raccontando che Omar sgozzava madre e fratello), e hanno ipotizzato un pensiero totalmente “dereistico”, dove non vi sarebbero differenze di valori, dove tutto sarebbe uguale a tutto, dove la realtà verrebbe vissuta come una realtà virtuale, tanto che si tratterebbe di una psicopatologia nuova, non incasellabile né nelle banali etichette della psicopatologia moderna, né in quelle della psicopatologia classica, determinando così un contenzioso tra psichiatria e legge e un conseguente auspicio ad una modifica dello stereotipato quesito “era il soggetto capace d’intendere e di volere?”, il quale non riuscirebbe a comprendere interamente il complesso quadro delle psicopatologie.

         Sorge allora spontanea e immediata in chi deve giudicare un imputato la preoccupazione che con l’attuale disciplina penalistica più si amplia il campo delle psicopatologie, maggiori diventano le probabilità che i più efferati assassini restino impuniti a seguito del riconoscimento di una loro totale infermità di mente. Ma invece di rifiutare in tal modo il dialogo con la scienza, sembra opportuno osservare che lo stesso va instaurato su un piano del tutto diverso, pur di sviluppare un confronto che, prendendo sempre a base il caso concreto di Erika e Omar, tenti di darne una spiegazione la quale, pur non offrendo soluzioni certe, contribuisca ad indicare le basi programmatiche per fondare una nuova disciplina dell’imputabilità.              

         Partendo dallo stesso dato dell’affermata “indifferenza” verso la persona della madre, occorre domandarsi prima di tutto se Erika sia stata sincera nelle risposte oppure abbia mentito sui propri sentimenti. Interessante è notare in proposito che, fra le espressioni riportate dal Collegio di periti, vi è quella con cui lei si autocolloca nella famiglia e si autodefinisce, dicendosi: “Figlia di genitori modello, inserita in una famiglia felice, studentessa discreta, comunque dotata di alti valori morali trasmessigli da una madre affettuosa, vicina ed amica meravigliosa”. La stessa Erika però riferisce altrove di “incomprensioni” con la madre, a seguito delle quali lei si ritirava “sdegnosa” nella sua camera, dove la madre poco dopo la raggiungeva, parlavano “come amiche”, e “tutto diventava come prima” ed afferma poi, in altro significativo colloquio con i periti, che tutti quelli che ammazzano le persone “tanto a posto non sono”. Inoltre riconosce, su precisa domanda del perito, che un segno di anormalità è il precedente (non attuale) suo assoluto non attaccamento alla madre, e al perito che le comunica che “tutti pensano che lei odiasse sua madre”, risponde: “No, odiare no…era indifferenza…perché dovevo odiare la mia mamma?”.

         Orbene, a questo punto non si può tralasciare di osservare, nell’accingerci a rispondere al preliminare quesito sulla sincerità delle risposte di Erika, sincerità che costituisce una base operativa di cui occorre esser certi, che, pur perseguendo periti e giudici il medesimo fine di accertamento della verità, solitamente il magistrato è incline a battere strade diverse per comprendere la psicologia dell’autore di un delitto e i moventi che lo hanno spinto ad agire. Più precisamente, se il giudice fosse chiamato pronunciare una sentenza soltanto sulla base di una indagine psicologica, non porrebbe alle persone indiziate domande relative al delitto, com’è invece accaduto in alcuni dei colloqui dei periti con Erika, i quali (ci si perdoni questa franca opinione) si son quasi sostituiti ai giudici nello scandagliare se quei delitti avessero un movente e quale, mentre si sarebbero dovuti limitare a un campo d’indagine unicamente psicologico, del tutto diverso da quello che richiamava alla mente dei ragazzi il delitto di cui erano indiziati, in quanto in tale campo essi avrebbero avuto remore ad aprirsi ad un interlocutore.

         D’altra parte, se i periti hanno posto alla ragazza anche domande che riguardavano i suoi rapporti con la famiglia, e in particolare con la madre, e quelli che la legavano ad Omar, non è questa parte dei test che poteva essere utilizzata per uno studio sulla vera psicologia di Erika per capire i rapporti tra la sua “coscienza” e i gravissimi fatti commessi, poiché il condizionamento derivante istintivamente dal nesso tra quanto riferito e gli esiti di un processo, ha inciso certamente sulla spontaneità delle risposte e quindi sull’affidabilità dei risultati del colloquio.

         Perciò, fino a quando in questi straripamenti di campo incorreranno psicologi e psichiatri, fondandosi in ultima analisi su materiale infido, non vi potranno mai essere le condizioni per una reciproca comprensione tra la psichiatria e il giudice. La ragione della distanza che ancora divide è che per il perito punto di partenza e fondamento della sua indagine sono le risposte del soggetto interrogato o sottoposto ai test di cui dispone la sua scienza, che egli considera senz’altro come espressioni corrispondenti all’interiorità, spontanee e sincere, per cui vi costruisce sopra, con una sicurezza che certamente pecca d’ingenuità, il proprio teorema (ad esempio quello del pensiero “dereistico”), mentre il giudice, al contrario, parte dal punto fermo che l’interrogato, se colpevole, tende innanzitutto a escludere la propria responsabilità, per cui naturalmente nasconde il proprio pensiero e non rivela i moventi che hanno dato luogo al delitto, quando i sentimenti che sono alla base di quei moventi appaiono in tutta la loro riprovevolezza. Nella fase in cui subentra il senso di colpa, egli avverte un rimorso che non gli dà pace, e compaiono nella sua mente, a volte in una mescolanza che può sembrare assurda ma non lo è, da un lato un certo bisogno di espiazione, e dall’altro la paura del castigo stesso, che è di duplice natura: a) quello che infligge la generale riprovazione e si riflette nella coscienza. Erika infatti ha sentito un “rimorso proprio dentro”, nel contempo si è vista “un mostro fuori” (e perciò ha dichiarato ai periti che “aveva tutte le ragioni del mondo di starsene calma e sorridente ad aspettare che si facesse luce ed il castello di menzogne costruito sul suo conto si sfaldasse…”) e b) quello concreto consistente nella paura della pena carceraria, dell’isolamento dal mondo, nel caso di Erika della perdita chissà per quanti anni, anche per sempre, di quella libertà anche sessuale di cui aveva goduto più intensamente con Omar.

         Perciò i cambiamenti che si colgono a piene mani nelle varie versioni che ella dà dei fatti e nella tendenza a falsificare la realtà non sono i sintomi di una psicopatologia nuova e non ancora classificata, ma il prodotto della grande paura della punizione, congiunto al senso di colpa e al lacerante rimorso, e dell’insopprimibile istinto di conservazione e di difesa contro spaventevoli prospettive di reclusione a vita, il tutto subentrato nell’area della consapevolezza – questo è il punto fondamentale della nostra analisi – soltanto dopo l’avvio delle indagini e comunque un po’ di tempo dopo il sanguinoso eccidio. In conclusione, su tale punto, sebbene Erika abbia parlato di “indifferenza” nel rispondere alla domanda se nutrisse odio verso la genitrice e abbia confessato di aver nutrito questo sentimento anche quando, nel corso dello stesso colloquio, il perito ha introdotto abilmente il termine “fastidio”, molto vicino a sensazioni di mal sopportazione della madre al fine evidente di indurla a qualche ammissione su un sentimento che confinava sia pure alla larga con l’odio (“…Fastidio no….indifferenza”, ha continuato a rispondere), riteniamo, per quanto già  detto sulla mutevolezza delle sue parole e delle versioni offerte, di poter dare con la massima sicurezza al preliminare quesito che ci siamo prefissi la risposta che la ragazza non è stata sincera e anzi ha più volte mentito. Appare certo, infatti, che Erika odiasse sua madre, anche se non è altrettanto certo che tale sentimento fosse pervenuto al livello della sua coscienza nei terribili momenti dell’esecuzione omicidiaria. E’ assai più probabile, infatti, che quest’odio sia rimasto stratificato profondamente nel suo inconscio, per effetto delle chissà quante rimozioni da lei operate ogni volta che il rigore, la inflessibilità, la durezza della genitrice (la quale  …aveva una forza interna terrificante”) e la di lei predilezione del fratellino le suscitava pulsioni sempre interiormente represse e relegate nel sostrato della inconsapevolezza e poi trasformate, inconsciamente e assieme ad Omar, in un’aspirazione a una “completa libertà”, che aveva più la consistenza di una illusoria visione che quella di un concreto obiettivo.

         Da questo sottofondo magmatico (è il campo dell’ “Es” non salito al livello dell’ “Io”) è emerso quella sera un irrefrenabile impulso a uccidere, a massacrare, a eliminare per sempre la madre e il fratellino, le cui esistenze soffocavano direttamente e indirettamente la sua vita e la sua ansia di libertà. Questo impulso non proveniva in lei dall’aver concepito freddamente e nei particolari i delitti prima di portarli a compimento, poiché ciò, oltre a costituire la spia di un’ansia cosciente di libertà, l’avrebbe presumibilmente indotta a limitare l’esecuzione agli atti strettamente necessari a spegnere le due vite: pochi colpi di coltello assestati in parti vitali del corpo delle vittime, con l’attiva collaborazione di Omar. Si assiste, invece, ad una duplice impulsività scatenata, ad una tale efferatezza e crudeltà da impressionare una intera collettività nazionale, proprio perché i due sono apparsi alla pubblica opinione come portatori della ferocia delle belve. Sono quindi anche i dati oggettivi che fanno molto dubitare dello stato delle coscienze di quei massacratori appena adolescenti. Coscienze da immaginare perciò del tutto obnubilate, poi chiarificatesi man mano che le indagini e gli interrogatori hanno fatto rivivere ai ragazzi le fasi del delitto che avevano commesso. Quando Erika, nella sua terza versione, ammette la propria partecipazione attiva, aggiunge che i ricordi le sono ritornati leggendo il resoconto dell’autopsia dei familiari e si esprime in modo sufficiente a confermare la tesi dell’originaria incoscienza. Enorme meraviglia destano le sue parole: “L’autopsia spiega tutto…e quindi bisognava essere in due. Mi sono venute delle crisi…Un po’ di giorni fa ho aperto il rubinetto e ho visto il sangue uscire….Poi ho urlato…Comunque l’Erika che è qui adesso non è quella di quella sera…” Qui, a parte il tentativo di suscitare compassione, si ravvisa una sorta di sdoppiamento di personalità poiché compare una Erika cosciente che guarda, analizza e giudica un’altra Erika, incosciente al momento del crimine, la quale recupera dopo il delitto un attaccamento verso la madre che prima non aveva, in quanto prima provava solo indifferenza, mentre ora, all’osservazione del perito psichiatra (che le dice: “Un segno di anormalità è il tuo assoluto non attaccamento a tua mamma”), risponde: “Adesso sì, però!!”, in un secondo evidente tentativo di separare la propria personalità del passato da quella del presente. E’ subentrata dunque una consapevolezza diversa da quella, verosimilmente inesistente, del momento delle uccisioni, laddove qualcos’altro deve aver funzionato nella mente della ragazza e deve aver governato quei crudelissimi impulsi, senza che la persona umana Erika se ne sia resa conto, perché chi agiva quella sera era un inconscio o subconscio che recava in sé un serbatoio di feroci istinti di odio verso la genitrice e indirettamente, per via di una morbosa gelosia, verso il fratellino e forse anche verso l’intera famiglia (è stato forse fortunato il padre a non essere rientrato a casa in quei frangenti), e si scatenava per mano di un essere non umano, le cui azioni omicidiarie si rivelano chiaramente all’esterno come “disumane”, ma non possono essere ritenute tali sul piano morale perché sono state compiute senza coscienza, anche se con una intensissima volontà di uccidere. “Follia intellettiva” (intellettuale e morale) secondo la definizione di antichi teorici.        

Ci si chiederà di Omar, ma lui è divenuto completamente succubo di Erika, la quale, soggiogandolo con i piaceri del sesso certamente sconvolgenti per la sua età, era stata capace di trasmettergli la propria falsa, illusoria visione di una condizione di vita nuova, caratterizzata da una incomprensibile “completa libertà”, conquistandolo totalmente e togliendogli così ogni capacità di autodeterminazione. Anche la coscienza del più giovane fidanzatino era dunque completamente ottenebrata per effetto di un processo di identificazione con Erika, che si era accentuato negli ultimi quattro mesi in cui la coppia si era chiusa ad ogni rapporto sociale, intensificando solo quelli personali, e che lo ha fatto partecipare al tremendo eccidio come un automa, accomunato però a lei da una perfetta simbiosi psicologica, caratterizzata anche da una inquietante affinità: una morbosa gelosia di Omar che lo portava ad impedire a suo padre qualsiasi espressione affettiva nei confronti della moglie.

Quindi la scissione del binomio coscienza-volontà è certamente avvenuta nei due giovanissimi assassini, con il superamento delle teorie che costituiscono il fondamento del Codice Rocco circa l’inscindibilità del detto binomio. Sembra un assurdo quello di una volontà che agisce senza coscienza, si manifesta come una spaventevole mostruosità quella di due coscienze inesistenti e di quattro braccia e quattro mani che si agitano e freneticamente sferrano oltre novanta fendenti sui corpi indifesi di persone care, come due autentiche, acefale macchine di morte, ma non è possibile dare una spiegazione diversa se si vogliono conciliare tutti gli elementi oggettivi e soggettivi emergenti dalla terribile vicenda, a partire dallo scenario del delitto fino a percorrere ogni fase delle indagini e delle dichiarazioni di Erika, non perdendo mai di vista gli impressionanti risvolti psicologici della loro mutevolezza, delle finzioni, delle riprovevoli menzogne, come, tra le altre, l’iniziale accusa contro il ragazzo che aveva completamente plagiato e che molto probabilmente lei non amava.

Se dunque i crimini più efferati possono nascere anche da impulsi non governati dalla coscienza, allora la disciplina dell’imputabilità va modificata,  ma non nel senso di rendere più rigorosa l’indagine sulla capacità d’intendere e di volere del minore infradiciottenne, bensì considerando, in un quadro assai più ampio dell’intera problematica, che il dato “uomo”, nella sua complessione psicofisica, è mutato nell’attuale momento storico che stiamo vivendo, particolarmente nelle società più civili e progredite e quindi anche in Italia.

Nel chiederci il perché, non possiamo tralasciare di osservare che è cambiato il rapporto tra i componenti della famiglia e tra il cittadino e la società, ora caratterizzato, nella prima, da un’innegabile accentuazione dei contrasti derivanti da esigenze di lavoro, da una minore comunanza di vita e da una maggiore libertà del singolo, disancorato dall’antica coesione del nucleo familiare, nella seconda da un fenomeno di schiacciamento della massa sull’individuo, foriero di acutissime divergenze di vedute e di valori, sulla scia del relativismo etico e della verità, con conseguente accentuazione della libertà di critica e, in definitiva, di contrapposizioni e reazioni anche violente degli uni contro gli altri, poiché non pochi individui si sentono vittime della famiglia o della società, cui attribuiscono, con assai maggiore frequenza che in passato, tutte le colpe delle loro frustrazioni e dei loro insuccessi, più frequenti anch’essi in una vita sociale ispirata al consumismo e all’edonismo e purtroppo piena di delusioni e di insoddisfazioni. Sta qui l’origine di tante pulsioni contro il “moderno” male di vivere e di manifestazioni continuamente rimosse, ma che si sedimentano pericolosamente nel subconscio di molti, per poi esplodere nella commissione dei più orrendi crimini, come gli omicidi in famiglia e quelli dei serial killer, nei quali il subconscio gonfio di invidia, di desideri di rivalsa, di vendetta, di odio, di giustizialismo, dinanzi a tanta fame e sete di giustizia che non viene saziata, è divenuto un meccanismo di funzionamento della mente non più controllato dal potere di inibizione. Tutto ciò nel contesto di indebolimento, nelle civiltà democratiche e di massa, del principio di autorità e di quelle linee-guida più sicure che appartenevano all’unità di una cultura che strutturava diversamente, e forse meglio, la vita e la psicologia dell’individuo.

Questi sono, purtroppo, i risultati della presente analisi, la quale, se da un lato suggerisce certamente una modifica della imputabilità penale e della costruzione teorica del rapporto coscienza-volontà, dall’altro però non ci consente di formulare proposte da legislatori. Meglio conservare al momento il ruolo più modesto di chi ha sentito il bisogno di esporre i termini e la portata, enorme e drammatica, di un problema che investe l’intima essenza dell’umano e le sue profonde modificazioni, anche al fine della ricerca di una base di comprensione tra la psichiatria e il diritto, tra la scienza e la legge                          

                                                               Gennaro Iannarone


giovedì 3 novembre 2016

ETICA E LEGALITA' (Liceo Imbriano 6.3.04)


L’ETICA  COME  SINTESI  DI  LEGALITA’  E  GIUSTIZIA

Alla  presenza  di  circa  200  alunni  del  Liceo  Imbriani, che hanno posto molte domande, non riportate nel testo ma che si deducono dalle risposte del relatore.

Avellino  6  marzo  2004

Presidente  Gennaro  IANNARONE 

Ragazzi, il mio saluto. Quando sono entrato in quest’Aula mi son detto: “Mamma quanti sono, come sarà difficile farsi ascoltare da tutti!” Mi sembrava di sentirvi dire….: “Adesso questo Giudice ci parlerà di Diritto e di Legalità, chissà che noia!” Faccio il tentativo, non so se mi riuscirà, però io parto sempre dal principio che è meglio non imporre una lezione ma destare interessi, è meglio essere amati che temuti. Amati come amore della Cultura.

Badate, ragazzi, quando presi la maturità classica e pensai alla facoltà universitaria da scegliere, considerando Lettere, Storia e Filosofia, Ingegneria, Fisica ed altre facoltà, mi sembrò di sapere più o meno quali erano le radici di tali materie anche all’Università. Invece, quando scelsi Giurisprudenza, fu come un salto nel buio: il Diritto, la Legge, è qualcosa che a volte sembra non appartenerci. 

Comunque, mi viene in mente di dirvi subito che non siete venuti qui per sentire la lezione di un uomo di legge, una volta che vi ho accennato all’astrattezza della Legalità. Perciò aspetto le vostre domande che prevedo interessanti, come lo sono state in tante altre scuole. Il mio intento, ripeto, non è quello di spiegarvi cattedraticamente cos’è la Legalità, ma è quello, un po’ egoistico, me lo permettete, di superare l’emozione che mi avete creato all’ingresso in questa Aula, una volta che mi avete impegnato con le vostre domande, e poi di trasmettere io a voi delle emozioni. Perché, se se vi avrò trasmesso delle emozioni sul piano della Giustizia e dell’Etica, che sono il tema centrale, ricorderò questa giornata come una bella giornata, ma se invece uscirete da qui e tutto vi sarà scivolato addosso senza lasciare traccia, certamente resterò deluso. Non per colpa vostra, sarebbe tutta colpa mia.

Applausi da parte dei presenti in Sala

Presidente IANNARONE 

Sì, va bene. Allora non posso fare a meno di una premessa sulla Legalità e sulla Giustizia, perché le vostre domande, a parte quelle che esigono risposte più tecniche, relative alla mia professione, allo sciopero dei Magistrati, alla questione Sofri, rivelano sostanzialmente nel loro insieme un’ansia di Giustizia. Guardate, ragazzi, non c’è un’ansia di Legalità. La Legalità non crea ansia, crea tuttalpiù l’aspettativa dei cittadini all’emanazione di leggi che sappiano regolare l’ordine sociale, e, di conseguenza, il loro dovere di osservanza. E’ invece la Giustizia che crea delle spinte che ci pongono a volte anche contro le Leggi vigenti, come chiedeva Emanuela se mi era mai capitato di dover applicare delle Leggi che non condividevo, che cioè non ritenevo giuste.

Ebbene, in ognuno di noi c’è un senso etico, c’è una visione morale della vita che naturalmente non sempre il legislatore attua e non sempre può attuare. La Legalità, diciamo, è l’attuarsi della Giustizia attraverso la Storia, dall’uomo delle caverne fino ai giorni nostri, perché, quando l’uomo è uscito dalle caverne, dall’orda barbarica, da una situazione di vita molto vicina a quella delle bestie, diciamola con i versi di Ugo Foscolo: “Dal dì che nozze, tribunali ed are, diero alle umane belve esser pietose di se stesse e di altrui”, ecco, Foscolo vi traccia il momento in cui sorge la Legalità, rappresentata dalle “nozze”, dai “tribunali”, dagli “altari”. Ma prima ancora, prima di questo delle nozze, prima di questo dei Tribunali, prima di questo degli altari, addirittura forse addirittura prima della Fede, l’uomo ha avvertito in sé un sentimento profondo di Giustizia, che ha preceduto l’organizzazione della società in cui viveva. Ripeto: “La Giustizia è stato dunque un sentimento primordiale dell’uomo, che fa capo ai valori etici dell’eguaglianza e della solidarietà sociale, e riguarda in particolare i Diritti Umani e la Pace; questi sono valori eterni che sono stati sempre dentro di noi, non ci hanno abbandonato mai, ma è stato ed è sempre difficile realizzarli. Poi è venuto il Diritto positivo, cioè posto (positum) dallo Stato. Ma il diritto, nel senso di norma, regola, non è posto solo dallo Stato, anche papà e mamma in famiglia stabiliscono un “Diritto”: “questo si fa”, “questo non si fa”, “ti stai ritirando tardi la sera” ecc., quella è Legalità e dentro di voi vorreste dire: “Ma non è giusto che io mi debba ritirare prestissimo, mi voglio trattenere ancora con gli amici, non faccio nulla di male”. Vedete, la Legalità la trovate già in famiglia, la trovate poi nella Scuola dove bisogna osservare delle regole e a volte voi le regole non le condividete perché non coincidono con quest’ansia di Giustizia che è in voi. Però guardate ragazzi, se io mi fermassi soltanto ad individualizzare il desiderio di ciascuno di voi di fare quello che crede, di attuare le proprie aspirazioni credendole legittime, vi condurrei su una strada che non è quella dell’ordinata e pacifica convivenza sociale, nella famiglia, nella Scuola, nello Stato, e così vi svierei. Io vi devo dire piuttosto una cosa e questo è perché lo colgo anche dalle parole del vostro Preside, come dalle parole del professore Zaino e della dottoressa Iaverone. C’è una diffusa illegalità, perché tra i due principi dell’Autorità e della Libertà, il principio di Libertà indubbiamente ha straripato. Questa è la spiegazione che io ho dato sempre ai ragazzi e i ragazzi si sono dimostrati interessati ed hanno fatto naturalmente le loro riflessioni.  Intanto, pensate ai vostri genitori, pensate a papà e mamma, e fate subito un paragone: chi è il più autoritario dei due? Sarebbe bene che il padre fosse più autoritario e la mamma più permissiva, più dolce. Questa è un’aspirazione, però oggi la donna ha assunto una posizione di supremazia e solitamente è lei la guida della famiglia, anche perché è più intuitiva, è più completa.

Applausi da parte dei presenti in Sala

È più universale e sa a volte trovare la via degli accomodamenti familiari. In famiglia se non c’è la mamma c’è sempre una zia, una nonna che sa dire la parola giusta in un momento di difficoltà. Spesso si dice: “chiamiamo zia” “sentiamo nostra cugina” “viene zia e pacifica tutto, mette tutti d’accordo”, Perché? Perché quella è la persona che sa trovare la via della Giustizia, non della stretta Legalità che semmai vi voleva imporre papà, ottusamente vi volevano imporre papà o mamma. Accade a volte così. Queste situazioni capitano un po’ dappertutto, non sto entrando soltanto nell’ambito della famiglia, capita a scuola e capita nei tribunali. Quante volte, infatti, ci dicono gli avvocati che qualcuno dei giudici applica ottusamente la Legge e non comprende qual è il principio di vera Giustizia adatto a regolare quel caso? Allora torno a dire: Autorità, Libertà. Oggi c’è uno straripamento della Libertà, una esagerata espansione dei Diritti, spesso si sente dire da qualcuno: “Ho diritto a questo, ho diritto a quest’altro”. Eppoi, quando qualcuno dice: “Ma io faccio quello che voglio perché va bene per me” mi sembra di sentire una bestemmia. Se equilibrerete in voi il senso del diritto e quello del dovere, allora la regola paterna, la regola scolastica, le regole dello Stato, le accetterete non tanto come frutto di Autorità, ma come frutto di  autorevolezza.  Ora se io vi domando qui, ma naturalmente non voglio la risposta, tra i vostri docenti chi è il professore più autorevole? Cioè, chi è il docente che si fa rispettare anche senza parlare, e comunque senza imporre, senza far sentire il momento dello schiacciamento della vostra individualità? Questo vi sto dicendo perché oggi è necessario il recupero di un principio di Autorità, non vi meravigliate di quello che dico, anche la mia esperienza di quarant’anni di Magistratura, mi induce a prospettarvi un recupero del senso del Dovere.

Se voi mi parlate del Diritto al Lavoro, e comprendo bene che il vostro pensiero dominante è di trovare un posto di lavoro dopo questa scuola, questo Diritto è sacrosanto e chi ve lo tocca! Anzi, ve lo toccano perché molte volte ve lo negano, e spesso ve lo negheranno, purtroppo è così, benché sia garantito dalla nostra Costituzione. Ma se poi, trovato il posto di lavoro, si protesta e si sciopera sia pure per un aumento di stipendio o per ottenere comunque qualche vantaggio – vi sto facendo un esempio  a caso, ve ne potrei fare mille per farvi capire che voglio dire quando parlo di straripamento del senso del diritto – benché riusciate, nella organizzazione della vostra economia, a vivere un’esistenza dignitosa, allora il vostro  senso del diritto sta straripando, si sta espandendo come se fosse un gas. Sì, perché i Diritti hanno una consistenza gassosa, non hanno una consistenza solida, sempre uguale a se stessa, e neppure liquida, tanto per richiamare un concetto di fisica che è vostra materia di studio.

Guardate, ragazzi, sembra che io divaghi, però vi sto portando sempre sotto  questi due filoni del mio discorso: Autorità e Libertà. In ogni momento in cui vi rivisitate, vi riguardate dentro, compite un atto di introspezione. E’ il caso che allora vi chiediate: “Ma io questo lo posso chiedere, lo posso pretendere?” E se vi ritraete e cedete e scegliete la via della rinuncia ad una pretesa eccessiva, la via del sacrificio,  la via della mitezza, avrete imboccato anche la via della Pace, la pace con voi stessi, la pace in famiglia. In quel momento voi inavvertitamente avete riequilibrato in voi il principio di Autorità e quello di Libertà. Chiaro?

E’ questo un passaggio delicato, è un rapporto delicato, tanto delicato che voi, studiando la Storia, avrete certamente compreso la grandezza del tema, sul quale sono accadute le Rivoluzioni. Da periodi di pace si è passati a periodi di guerra, e lo scontro a volte è stato notevole, inconciliabile, tra chi pretendeva di esercitare l’Autorità e chi invece non vi voleva soggiacere. Questo conflitto, ragazzi, è presente, proporzionalmente, anche nelle vostre incipienti, ma ritengo vive, intense, vite di coppia. La Pace è un concetto grande, onnicomprensivo, non è solo quella che si ricerca in Iraq, ma è soprattutto la Pace dell’anima, la quale si riconquista, come vi ho detto, tornando al principio del perfetto equilibrio tra Autorità e Libertà. È come un pendolo che…oscilla anche nella vostra vita di fidanzati, come dicevamo nella nostra epoca. Chiamiamola anima gemella quella che credete che sia la vostra anima gemella, ma per sapere se è veramente tale, dovete guardare fino a che punto c’è fra i due l’equilibrio di cui ho detto, cioè fino a che punto lui o lei rispetta l’altro, o violano, invece, questo principio di mitezza, di dolcezza e di amore. Perché alla fine il valore vero è l’amore, quello è il valore di fondo, che concilierebbe tutto, ma purtroppo non si può sempre attuare e di questo noi siamo profondamente preoccupati. Lo era Gesù, lo sono stati i rivoluzionari francesi quando accanto a Libertè ed Egalitè hanno scritto “Fraternité”. Sono preoccupati tutti quanti, basta pensare ai poveri del Terzo Mondo, basta pensare ai No Global e via di seguito.

Nel ricordare le vostre domande ed accingermi alle risposte io purtroppo mi trovo un po’ a disagio quando la domanda riguarda processi in corso, perché il Magistrato non può esprimere il proprio parere su processi in corso, quale è quello contro i No Global. E’ mio convincimento, comunque, che i No Global non sono un movimento sovversivo; che ci siano poi degli infiltrati, quelli che sono i mestatori, lasciamo stare, in ogni movimento avvengono queste cose, ma l’ideale di fondo del nucleo pensante dei No Global quale è? Certamente è quello di battersi per attenuare la fame del Terzo Mondo, per evitare che i potenti della Terra decidano le sorti dell’intero Globo ed in particolare che l’Occidente, con il peso della sua potenza economica e militare e della sua cultura, possa schiacciare ancora di più i popoli poveri del Pianeta. Si dice che la guerra in Iraq sia stata fatta per prendersi là il petrolio, e questo è un dubbio che è legittimo sollevare. Non vi posso dare delle risposte sicure e risolutive…io sono venuto qui per una Educazione astratta alla Legalità, però mi si può capire, ed all’ultimo direte: “va be’, è chiaro come la pensa il Giudice”, ma io non ve l’ho detto; vi sto solo dicendo fermamente che i No Global si battono per una causa giusta, ma ciò non significa poi che per questa causa giusta si debba usare sempre la violenza. Ciò che soprattutto ha impressionato l’opinione pubblica è che i No Global hanno devastato quella città, hanno devastato Genova, hanno rotto le vetrine dei negozi, hanno fatto quel  ben di Dio che tutti hanno visto per televisione. Allora la Polizia è dovuta intervenire necessariamente per fermare questi ragazzi, e naturalmente è accaduto quel che è accaduto. Federica mi chiedeva: “Ma sono legittime le perquisizioni”? Certamente, quando c’è stato l’uso della  violenza. Se un’altra di voi, Veronica, mi parla della tutela della Pace e dei Diritti Umani, io debbo conciliare quello che mi chiede Federica con quello che mi chiede Veronica, vedete che già avete le idee contrapposte: o si sceglie la via della conquista pacifica dei Diritti, attraverso i metodi democratici, o si sceglie la via della violenza, ma se si sceglie la prima si è nell’ambito del Pacifismo, si è nell’ambito della Democrazia, si è nell’ambito della..., come dire? possiamo dire a questo punto della Legalità, se si sceglie invece la via della violenza si è fuori della Legalità. E la via della violenza in genere non è gradita a nessuno. Ma chi di voi tollererebbe uno schiaffo? Con uno schiaffo a volte è finita, basta uno schiaffo e finiscono i più grandi amori perché la violenza non la tollera nessuno e così anche la Polizia, al servizio di uno Stato serio, non può tollerare che i giovani sfascino una città. Per cui sulle perquisizioni, il mio parere è chiaro e positivo. Le perquisizioni bisogna farle dove ci vogliono, bisogna andare alla ricerca di armi, perché non scappino i morti, lì a Genova è scappato un morto. Il processo si è poi concluso, se sono bene informato, con un’assoluzione per legittima difesa del carabiniere che ha sparato contro il dimostrante che era armato di una spranga o di un bastone. Ma lasciamo stare, io non sono venuto qui a parlare di processi singoli, vi parlo del fenomeno e quando io vi qualifico quel fenomeno come un fenomeno animato da un sentimento di giustizia che vuole evitare che verso i poveri del Terzo Mondo cadano soltanto le briciole della ricchezza dell’Occidente, non posso dire che il proposito non è giusto, devo dire che è giusto, pur condannando la violenza. E nel momento in cui, pur inorridendo dinanzi agli eccidi e alle stragi, dico che è giusto, vedo come in una nebbia due Torri Gemelle e due aerei che le perforano… che voglio dire? 

Applausi da parte dei presenti in Sala.    

Quella è anche una spinta, è un pugno nello stomaco, è un tremendo colpo nell’occhio di un Occidente opulento che si avvale, purtroppo si avvale, della sua potenza. Perché l’Occidente ha Aristotele, l’Occidente ha Hegel, l’Occidente ha una cultura possente. Sì, per gli Arabi tanto di rispetto, Avicenna, Averroè, l’algebra, bisogna farla la fusione con le altre etnie, però la verità attuale è quella dello scontro. Ed indubbiamente torna il dilemma, il sentimento di Giustizia a volte è così forte che porta ad atti di violenza, ma la violenza in se stessa è da rinnegare, non va mai attuata, o la si deve guardare sempre come estremo limite. Certo, nessuno di voi potrebbe criticare oggi la Rivoluzione Francese perché fece funzionare la ghigliottina e cadere tante teste. Ma perché, quella non era violenza? È violenza rivoluzionaria, è violenza di persone che in base a una Cultura anche filosofica e storica attuarono con la forza nuovi principi di Giustizia e, sulla base degli stessi, una nuova Legalità. Il flusso della Storia è questo qui, il flusso della Storia è fatto di periodi di Legalità e di avvenimenti rivoluzionari o di altri grandi cambiamenti sociali che travolgono la legalità vigente. Vi posso citare, per esempio, il periodo delle guerre civili romane, al quale seguì la Pax Augustea, ecco il momento di Legalità stabilmente raggiunta. Mi seguite?  Se invece voi pensate oggi alla Legge “X” o alla Legge “Y” per farne la critica, o al caso Sofri, non capirete mai cos’è la Legalità: sì, io cercherò di dare una risposta a tutte le vostre domande, purché abbiate chiara questa visione storica della Legalità e della Giustizia. Legalità e Giustizia si alternano nel fluttuare della Storia, l’uno dopo l’altro. Sono partito, tanto per dire, dalle guerre civili romane come momento di sconvolgimento sociale, ma vi sono tanti altri esempi. Lasciando da parte la Rivoluzione inglese, che fu uno scontro tra agrari poveri ed agrari ricchi, la Rivoluzione americana che fu piuttosto una lotta di indipendenza dalla dominazione europea, la Rivoluzione bolscevica, i cui effetti si sono affievoliti, la più importante da ricordare è pur sempre la Rivoluzione francese, perché ancora oggi sono vive le idee su cui essa si fondò. La Legalità dell’Ancien Regime venne spazzata via e si creò una nuova Legalità, in definitiva quella dei Codici napoleonici. A volte, lasciandoci esaltare dalle sue imprese militari, ci scordiamo di questa che fu l’opera sociale più grande di Napoleone Bonaparte. In quei Codici vennero trasfusi i principi fondamentali affermati da quella Rivoluzione: Liberté, Egalité, Fraternité, dei quali diceva giustamente il vescovo Gennaro Pascarella di Ariano Irpino, quando ci riunimmo presso il Vescovato di Avellino per parlare del Natale, che quello più dimenticato, emarginato, era la Fraternitè, che poi significa solidarietà sociale ed in ultima analisi amore, come continuazione del messaggio evangelico.

Quale grande sconvolgimento fu la Prima Guerra Mondiale! Dopo venne la confusa situazione del 1919, poi il Fascismo, la Legalità del Fascismo. Dopo tanti sussulti della Storia giunse un periodo di pace sociale, anche se si trattò di una Legalità tirannica. Dopo quel periodo, altro sconvolgimento della Storia: la Seconda Guerra Mondiale, e successivamente è arrivata la Legalità Costituzionale, sotto la quale stiamo vivendo. Ma attenzione, ragazzi, alla interpretazione della Costituzione della Repubblica Italiana, dove finalmente vi ho condotto attraverso un rapido percorso storico, o, per dir meglio, mi hanno condotto anche le vostre domande. Vi sono tante riflessioni da fare perché, guardate, quasi nessuno riesce a comprendere il periodo storico-sociale a lui contemporaneo. I contemporanei non sanno infatti valutare ed apprezzare il mondo che li circonda, neanche le bellezze artistiche. Molti artisti, molti poeti, hanno avuto successo dopo la morte e talvolta è stata riconosciuta la bellezza delle loro opere addirittura a distanza di cinquanta o cento anni. Noi non siamo in grado di giudicare questo momento qui, ma posso cogliere ora, più opportunamente, l’occasione per soddisfare le vostre curiosità sull’attuale periodo.

Una Legalità che è sorta, dopo la rivoluzione costituita dalla Resistenza, con la Costituzione Repubblicana, nella quale sono confluiti principi cattolici, principi sociali ed economici, principi di tutela dei Diritti Umani, ha risvegliato l’interesse in Veronica e quindi la sua domanda sui Diritti Umani. I Diritti inviolabili dell’uomo preesistono allo Stato, come fa capire la lettera dell’art. 2 della Costituzione perché non dice “tutela” ma “riconosce...” Che significa riconosce? Che stavano già prima. E che i diritti individuali dell’uomo nascano insieme all’uomo ve lo dice anche un filosofo che voi avrete studiato e che spero ricordiate. Thomas Hobbes affermava: “Homo homini lupus”. I diritti naturali dell’uomo, lo Stato assoluto, chiamato da Hobbes il Lieviatano, li opprime fino al punto che l’individuo, siccome è soffocato da una situazione di legalità ingiusta, si ribella per ristabilire lo stato naturale, cioè prima di tutto la libertà e tutti gli altri suoi diritti inviolabili..., mi state seguendo o no? 

Noi avevamo, cari ragazzi volevo dire siamo nati in un’epoca migliore della vostra..., e scusatemi se sto usando il plurale maiestatis, volendo riferirmi anche a qualche professore che ha una età vicino alla mia. Sere fa da Marzullo c’era un uomo più o meno che aveva la mia età e parlava con dei giovani ai quali raccontava dei suoi tempi, dei tempi della sua giovinezza, in particolare degli Anni Sessanta, parlava anche delle canzoni di quegli anni e diceva ai giovani di adesso: “Voi non sapete che cosa avete perduto per essere nati venti-trent’anni dopo”; cercava di far capire a quelli che oggi sono giovani che noi eravamo stati fortunati a nascere in una certa epoca, cioè negli anni quaranta. Ragazzi ve lo dico sinceramente, io ho avuto belle esperienze nell’età in cui sono vissuto.  Perché? Ve lo dico perché, ve lo volevo dire all’inizio, perché io avevo dei punti di riferimento, avevo dei Poli guida, non vi scandalizzate se vi dico che da ragazzo, quindicenne, diciottenne, ventenne, io guardavo i film di Peppone e di Don Camillo che, oltre che divertirmi, orientavano i miei convincimenti e le mie ideologie. Penso che qualcuno di voi li abbia visti o no? Ma che cosa erano quelli se non Democrazia Cristiana e Partito Comunista? C’erano dei punti di riferimento che voi avete perduto, voi oggi non avete più punti sicuri di riferimento, non avete più ideologie, quindi non avete più la possibilità di scelta in base ad un criterio chiaro e preciso e perciò vi sentite disorientati. Se voi avete seguito bene quello che vi ho detto, se ne farete non dico tesoro perché potrebbe sembrare un mio narcisismo, ma se riuscirete a trarre dalle mie parole soltanto questo senso storico della Legalità, comprenderete, allora, che senso storico significa che anche dalle Torri Gemelle può sorgere un nuovo periodo di Storia, di Cultura e di Legalità. 

L’Onu è il centro della Legalità internazionale, la Guerra all’Iraq, iniziata prima che l’Onu l’autorizzasse, ha violato il principio di Legalità. Quello – le Torri Gemelle – è un evento storico, possente, formidabile, insomma lo potete guardare da tutte le sfaccettature, lì ci potete trovate la rivalsa dei poveri del Terzo Mondo, ci potete trovare il Fanatismo Islamico, c’è anche quello, perché quei piloti hanno pensato di guadagnarsi il Paradiso di Maometto, beati loro se lo tengono e beati noi se teniamo quello che ha promesso Cristo. Vi parla uno che è agnostico in materia. Badate bene cosa voglio dire: almeno la Dottrina sociale della Democrazia Cristiana, vi diceva una cosa: “Questa è la visione della vita, spirituale”. La Dottrina marxista vi diceva: “Prima di tutto dobbiamo soddisfare i bisogni dell’Uomo”. Dottrina materialistica, basata filosoficamente sul materialismo storico, ma almeno erano dei punti di riferimento ed i vostri padri avevano anche un punto di riferimento religioso, una figura di Dio nella loro mente, i vostri genitori andavano più frequentemente a messa, avevano più il senso del sacro. Ma non è che voi giovani non ne avete bisogno, voi giovani ne avete bisogno, tanto è vero che vi emozionate sentendo parlare di Madre Teresa di Calcutta, per l’eroismo di Palatucci vi emozionate, e lo stesso per i militari italiani i quali hanno comunque pagato con la vita, a Nassirya, il loro innegabile sentimento di solidarietà verso quelle popolazioni. Mentre il popolo si è commosso dinanzi a tutte quelle bare nei funerali di Stato, questa Italia è rimasta ancora divisa in “fazioni” che non si sa più a quali ideologie si ispirino. Certamente  non mi saprete dire quale sia la cultura di Rutelli, quella di D’Alema, di Fini, di Berlusconi. L’idea guida che sta sul loro cammino qual’è? Io me lo chiedo ancora e mi domando cioè dove ci porteranno.

Dott.ssa IAVERONE 

Avete bisogno di fare cinque minuti di pausa? 

Alcuni  studenti 

No, no... 

Presidente IANNARONE 

Io mi fermo un momento qui per poi rispondere a quelle domande un po’ più specialistiche, facendo il possibile per non annoiarvi, come spesso capita ad un uomo di Legge. Voglio dire che ragionare adesso su Sofri, sulla pena o sulla durata dei processi mi è più difficile che esporre concetti belli, diciamo ariosi, come quelli storico-politici, sociali, filosofici. Quanto alle domande sullo sciopero dei Magistrati e sulla separazione delle carriere, le lascerò per ultime, pensando già di aprirmi ad una piena sincerità. Sui gruppi etnici e sociali, qualcuno vuol sapere con tante immigrazioni come conviveremo, anche fra le varie religioni delle popolazioni immigrate. Comunque penso che una Legalità ispirata ai principi di Eguaglianza e di Solidarietà porterà anche al rispetto reciproco che ci dovrà essere nell’ambito della fusione di gruppi etnici, attraverso un principio che è il capisaldo, secondo me, della vita in comune: la tolleranza.

La tolleranza, la mitezza...guardate la tolleranza è imparentata con la razionalità, chi prende la via della ragione per convincere un altro, o per ascoltarne le ragioni e essere disposto a essere convinto dall’altro, badate bene questo è il segreto per raggiungere un momento di equilibrio, ascoltare ed esercitare la ragione, come vi ho detto prima, non la violenza. Per questa strada noi possiamo trovare anche una Pace religiosa. Nel momento in cui invece temiamo guerre di religione che non è la guerra santa islamica a fare impressione, lasciate stare, la Cijad è solo                                                                                                                                                                                                                                                      la facciata. Preoccupa, piuttosto, la vicenda del Crocifisso, che è accaduta per opera di un nostro Magistrato ed a causa di quel Magistrato perché non si era letto bene il Concordato e si è lasciato ottenebrare anche lui da una sorta di Crociata, tutta sua. Mettiamo un altro simbolo a fianco del Crocifisso, mettiamoci il simbolo islamico, mettiamo nelle scuole Maometto ed altri simboli, ma perché vuoi togliere il mio Crocifisso? Io il mio Crocifisso nelle Scuole me lo voglio tenere!! 

Applausi da parte dei presenti in Sala. 

Questo vi rispondo per i gruppi etnici, per le immigrazioni e per i pericoli che mi sono stati segnalati in qualche modo da Nunzia, che ha fatto una domanda abbastanza ampia sui gruppi etnici, sui gruppi sociali. In conclusione, i principi ai cui bisogna ispirarsi sono solo quelli: Razionalità e Tolleranza. 

Quanto allo sciopero dei Magistrati, alla separazione delle carriere, ai processi lenti, vi faccio una semplice premessa: la Magistratura è composta così: c’è un Pubblico Ministero che dà inizio al processo accusando una persona di un reato. Poi istruisce il processo, significa che ordina perquisizioni, sente i testimoni, raccoglie prove documentali ed altre prove. Infine, chiede il rinvio a giudizio al Giudice delle indagini preliminari, e se l’ottiene il processo arriva al dibattimento davanti ad un Giudice. Io sono fra quelli che giudicano. Ebbene, c’è un articolo della Costituzione, da poco modificato, che è molto importante. Vi basti questo, perché...se mi allargo nel discorso…qui facciamo mezzanotte e non è proprio il caso. Dunque, l’art. 111 della Costituzione, modificato, dice che il Giudice è terzo, è terzo e imparziale tra Pubblico Ministero e Difensore, cioè l’Avvocato.  A questo punto io, per giudicare bene, devo sentire, come si usa dire, le due campane, per decidere della sorte dell’imputato. Ogni Giudice non dovrebbe avere un pregiudizio e pensare: “Questo è colpevole, oppure “questo è innocente”, ma deve ascoltare prima l’Accusa, poi la Difesa e rimanere terzo in mezzo a loro, cioè imparziale. Il Giudice è a centro ed è neutro. Sta tra questi due Poli: il Pubblico Ministero è il Polo dell’Autorità, l’Avvocato è quello della Libertà.

Ora, volevo giungere a questa mia conclusione, rifletteteci sopra: una volta affermato il principio di terzietà ed imparzialità del Giudice, non è più possibile, ragazzi, e questa è la mia idea chiara e precisa, che Pubblico ministero e Giudice restino colleghi, appartengano alla stessa carriera. La separazione delle carriere è divenuta inevitabile. Lo vado affermando spesso nei convegni e sapeste quanti miei colleghi, anzi quasi tutti, non sono d’accordo! Io ho fatto il Pubblico Ministero per circa nove anni e mezzo ad Avellino e poi sono passato al settore giudicante. Adesso, in teoria potrei tornare a fare il Pubblico Ministero, come Procuratore della Repubblica, queste cose si vogliono evitare. Se un magistrato ha la vocazione a fare il Pubblico Ministero, allora si separa, si specializza meglio, il suo principio di Autorità lo esercita meglio, anche nel rispetto della dignità e della libertà dell’imputato. E poi dall’altra parte c’è il Difensore, l’Avvocatura rimane una classe libera. E’ difficile irregimentare gli Avvocati, si può però creare una Scuola comune di Diritto, semmai con un biennio comune, o anche, meglio, dividendola in tre branche. Da essa potranno uscire il Pubblico Ministero che si specializza nel biennio successivo, l’Avvocato che si specializza nella Difesa e il Giudice che affina l’arte del giudicare, che è quella più difficile, non perché è la mia attuale funzione. Un famoso proverbio dice: “La vita è breve, l’arte è lunga, il giudizio è difficile”. Infatti, abbracciare una tesi parziale è più facile, come per il P.M. accusare e per l’Avvocato difendere. Benchè all’esterno non appaia, giudicare è la più elevata delle attività giudiziarie, sia dal punto di vista professionale che morale.

Questo Giudice - Emanuela - che si trova difronte a una Legge ingiusta che fa? La applica, non la applica? L’ultima domanda, hai avuto un momento di incertezza, però hai fatto una domanda interessante, anzi proprio trafiggente!

Applausi da parte dei presenti in Sala. 

Come sento io che la Legge è ingiusta? Ragazzi qual’è la Legalità e come si regola la Legalità. Guardate, il punto più sicuro di orientamento per un Magistrato – oggi come oggi – è la Costituzione della Repubblica Italiana. E’ vero che non è tutta ancora attuale, qualche suo principio comincia a essere un po’ antico, superato, però alcuni principi fondamentali sono rimasti immutati, come quello del rispetto dei diritti inviolabili della persona (articolo 2), o il principio di eguaglianza (articolo 3). Però, badate bene, qui devo aprire una piccola parentesi: l’architetto che ha arredato l’aula del Tribunale penale che presiedo, ha collocato in alto, sulla mia testa, la scritta: “La Legge è uguale per tutti”. Non è vero, questa è una grande stupidaggine.... 

Applausi da parte dei presenti in Sala. 

Un momento, chiariamo, perché forse avete frainteso le mie parole. Tenete un testo della Costituzione della Repubblica Italiana? Leggetela, leggete l’art. 3: “Tutti sono eguali davanti alla Legge”, che è una cosa completamente diversa. Secondo i Romani, i grandi principi del vivere civile erano tre: “Honeste vivere, alterum non ledere, suum unicuique tribuere”. “Vivere onestamente”, e questo è un principio morale di facile comprensione. “Non ledere gli altri” e vi ho detto di questa Libertà che non deve straripare fino a procurare danni agli altri. “Dare a ciascuno il suo” significa che bisogna dare a ciascuno quello che gli spetta, ad esempio in base alla quantità ed alla qualità del lavoro fatto, ma certamente non può significare “Dare a ciascuno l’Eguale”, come si potrebbe ritenere interpretando letteralmente e senza spirito critico la famosa espressione “La Legge è uguale per tutti”. Allo studente bravo va dato un riconoscimento in valutazione o in voti, non altrettanto a chi non si impegna nello studio. Questo ve lo dovete mettere in testa, per cui anche nella Scuola l’uguaglianza può essere concepita solo nel senso che ogni studente ha diritto ad essere valutato con equilibrio, con giustizia ed equità, senza le discriminazioni menzionate dall’art. 3 della Costituzione (sesso, razza, lingua, religione, opinioni  politiche, condizioni personali e sociali), ma se il suo rendimento nello studio è mediocre, il “Suo”, cioè quello che gli spetta può essere costituito anche da una bocciatura.  Torniamo ora alla domanda di Emanuela. Quando io Giudice mi trovo di fronte ad una legge che non mi sembra giusta, faccio un’analisi alla Legge, cui chiedo: “Sei conforme alla Costituzione o no?” Eppoi devo fare un’altra domanda alla Legge, perché sono un interprete e l’interpretazione è l’accostamento prudente alla norma. La leggo e mi chiedo: “Che vuole significare”? Mi rifaccio alla Costituzione, ma mi devo rifare anche alla Cultura, la Cultura storica, filosofica, letteraria. Devo “sentire” i tempi, l’epoca in cui è nata la legge e quella in cui devo applicarla. Ciò è tanto vero, cari ragazzi, che attraverso tante informazioni e trasmissioni anche televisive, prendete ad esempio “Porta a Porta”, voi l’avrete sentito che molte sentenze non soddisfano. Perché alcune decisioni non sono condivise? Si può sbagliare pure in questa non condivisione, ma si può sbagliare una volta, due volte, ma non è che ci si può sbagliare sempre. Qualche volta, voglio dire, il giudizio dello spettatore, del cosiddetto uomo della strada, ci azzecca pure, cioè qualche volta è pure avvenuto che un Giudice ha interpretato male la legge, perché non l’ha interpretata secondo i principi della Costituzione, quelli del Diritto Naturale, molti dei quali trasfusi nella Costituzione Repubblicana, ed ancora quelli risalenti ai Valori sentiti in una determinata società. Tra cui, torno a ribadire, anche i valori del Cristianesimo, anche se non integralmente recepiti. Quando il Giudice resta del convincimento che la legge che deve applicare contrasta con i principi di cui vi ho detto, allora ha un mezzo legale per non ingannare la propria coscienza: il ricorso alla Corte Costituzionale. Egli solleva questione di legittimità costituzionale, cioè chiede alla Corte Costituzionale di stabilire se quella norma che lui deve applicare sia o meno costituzionalmente legittima. La Corte Costituzionale è infatti la guardiana della Costituzione. In altri termini, essa raccomanda al Parlamento: “Stai attento, non emanare Leggi che confliggono con la Costituzione. È accaduto con il Lodo Maccanico, no? Non so adesso chi ha ragione o chi non ha ragione, ma il Lodo Maccanico aveva introdotto una sorta di immunità di alcune cariche dello Stato dalla legge penale.... dico meglio: Lodo Maccanico e poi Schifani, come mi state suggerendo. E’ stato riconosciuto dalla Corte Costituzionale che quella Legge che dava una certa immunità temporale dalla legge penale non era costituzionale, perché contrastava con l’art. 68 della Costituzione, secondo cui nessuno dei parlamentari e delle cariche dello Stato sono esenti dalla legge penale. Questo significa che la Corte Costituzionale è la guardiana della Costituzione. Devo anche dirvi, però, che è una guardiana politica, perché non tutta la Corte è composta di Giudici di carriera, ma anche di elementi politici scelti dal Parlamento e dal Presidente della Repubblica, quindi è un guardiano politico, che a volte emana delle sentenze che si attengono a  visioni ed interessi politici.

Siamo giunti alla fine. Sulla separazione delle carriere vi ho già detto che essa dovrebbe essere una conseguenza necessaria dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione. Circa lo sciopero dei Magistrati non lo condivido. Io non parteciperò allo sciopero. Nella Costituzione sta scritto: “I Giudici sono soggetti soltanto alla Legge”. Il Parlamento ha il suo primato, fa le Leggi. Da Giudice devo osservarle, applicarle, interpretarle, …torcerle come meglio posso, strizzarle come un panno bagnato, per intenderci, perché poi l’interpretazione è un’attività molto incisiva per piegare la norma alla soluzione giusta del caso concreto, almeno per un giudice dotato di idonei mezzi culturali. Ma non è detto che io debba fare lo sciopero perché il Parlamento sta legiferando, semmai, sull’Ordinamento Giudiziario, su come scorrerà la mia carriera, le mie promozioni. Se mi riduce lo stipendio, io posso fare anche sciopero. Come lo facevano gli operai,  gli operai delle miniere che stringevano la cinghia! Quello era uno sciopero rispettabile...!!  Applausi da parte dei presenti in Sala. Quello era uno sciopero etico, perché si trattava di non far soffrire lo stomaco. Ma se poi i magistrati scioperano perché l’Ordinamento Giudiziario deve essere regolato in un certo modo, perché in un modo o in un altro progredisca la mia carriera..., ma basta!! ma finiamola!! Ecco, si riconquisti un principio di Autorità. Ma esiste l’Autorità del Parlamento o no? Qui quello che si è perduto è l’Autorità del Parlamento, si è perduta pure quella perché il Governo attualmente è un po’ più potente del Parlamento. Come del resto avvenne in Roma. Come si giunse all’Impero? Il Senato fu svuotato di poteri, i senatusconsulta, che potrebbero essere assimilati alle attuali leggi emanate dal Parlamento, non valevano più niente. Avevano grande valore, invece, i decreti emanati dall’imperatore (cosiddetti rescripta principis), che il Senato pedissequamente approvava, svuotandosi così di potere. Questa è la Storia che si ripete, la vedete? Se non la vedete, pensate ai decreti legge del Governo sui quali viene posta la fiducia che il Parlamento senz’altro accorda ed allora la vedrete!  Questo è il pericolo che si può correre in questo momento. Allora ecco la necessità del recupero di un principio del primato della Politica, rappresentata dal Parlamento, dagli eletti dal popolo, che per l’art. 1 della Costitzione ha la sovranità. Quando dunque il Parlamento fa una Legge per i Magistrati, secondo me i Magistrati la devono accettare.  Guardate, i colleghi sono quasi unanimi nel partecipare allo sciopero, ma, per quanto vi ho detto, non è questione di cinghia, non è questione di miniere, non è questione di operai, è questione di carriera, è questione di Ordinamento Giudiziario. Molti sostengono che va bene così, e non vogliono che  cambi. 

A questo punto, ragazzi, vi voglio lasciare con un messaggio finale che ho lasciato in tutte le Scuole... Ho fatto una trentina di Convegni, non vi dovete impressionare e neppure il corpo docente deve turbarsi: ho sentito a volte il fruscio dei cattivi maestri, i cattivi maestri sono quelli che non vi invitano, non vi sollecitano a pensare con la vostra testa...ma con le loro idee politiche 

Applausi da parte dei presenti in Sala. 

Non per scegliere sempre la libertà, non per fare tutto quello che volete, ma per orientarvi liberamente con la razionalità. “Voi dovete essere illuministi”. Il grande filosofo Kant definisce Illuminista: “Colui che pensa con la propria testa”. Se su ogni problema, uno di noi dicesse: “Vediamo un po’ che pensa Berlusconi in materia”, oppure, “Condivido questa soluzione perché sono di Sinistra”, allora sarebbe finita la scuola e la stessa essenza della gioventù. Vi prego, amate la Cultura e non fatevi indottrinare!!  Avvaletevi dei vostri mezzi culturali e sappiate  ascoltare. Ecco, io me ne vado oggi arricchito dall’attenzione che mi avete prestato. Non è stata certo una illusione….ed anche dai vostri cenni ricevo la conferma che mi avete ascoltato.

Non posso che essere contento di questa mia giornata. Grazie…. 

Applausi da parte dei presenti in Sala.  

domenica 30 ottobre 2016

LA POESIA E LA DONNA (in alcuni poeti)


LA  POESIA  E  LA  DONNA 

(Stilnovisti, Petrarca, Manzoni, Leopardi, Proust, Montale)



E’ un luogo comune considerare moderno Francesco Petrarca, soltanto per il fatto che egli è, certamente, il poeta dell’inquietudine amorosa e il padre dell’Umanesimo. Questo non basta, infatti, perché un poeta possa definirsi moderno, nel senso in cui noi intendiamo la modernità, la quale consta di due fondamentali caratteristiche dell’uomo artista, letterato, poeta, di fronte alla realtà del mondo e, per quel che ci riguarda, di fronte al fenomeno amoroso, che è la stessa cosa che dire dinanzi alla donna: l’angoscia del vivere l’innamoramento, commista all’introspezione in sé stessi e nell’animo di lei.

Non si può negare che l’atteggiamento di Petrarca in tale campo della vita dell’uomo abbia superato la visione più serena degli stilnovisti, i quali a loro volta, pur avendo cantato della passione amorosa e dei tormenti dell’animo che ne scaturiscono, hanno finito, tuttavia, per idealizzare la figura femminile, si potrebbe dire ringraziandola di esistere, nel momento stesso in cui hanno visto in lei la cagione delle pene d’amore. E tra loro, prima fra tutte, c’è la Beatrice dantesca, distanziata dal sommo poeta più in terra (“…e gli occhi non l’ardiscono di guardare”) che in cielo.

Francesco Petrarca è inoltre il poeta che esprime meglio di ogni altro della sua epoca il tormento dell’amore non corrisposto. Non è però Catullo, che ha goduto delle gioie dell’amore e al quale il travaglio interiore e la paura di poter perdere Lesbia, la donna amata, fa dire “Odi et amo”. Non è Ovidio, che analizza il fenomeno dell’amore con l’occhio dello scienziato, come oggi il nostro Francesco Alberoni, che in “Innamoramento e amore”, “Il volo nuziale” e “Ti amo”, si sofferma a osservare il sorgere, l’evolversi e lo spegnersi del più complesso dei sentimenti umani; non è Leopardi che, pur scrutandole nell’animo, accomuna le donne di cui si è invaghito, Nerina, Silvia, nel proprio stesso destino d’infelicità (Ultimo canto di Saffo, Le ricordanze, A Silvia).

Francesco Petrarca è innamorato della bellezza di Laura, di cui esalta l’aspetto esteriore e sensuale, guarda molto dentro di sé, si scandaglia fino alla lacerazione interiore perché vorrebbe fisicamente Laura, ma non può, perché lei non può volere e lui non può chiederle amore, legato com’è ancora al cielo delle visioni medievali e incapace di abbracciare i piaceri terreni.

Gli manca tuttavia, per poterlo considerare poeta moderno nel senso indicato, l’introspezione nell’animo di Laura, che lui non ci fa conoscere. Non sappiamo se lei abbia mai pensato di ricambiare quell’amore, costante per tutta una vita, ispirato soltanto da lei. Non sappiamo nulla dei moti interiori dell’animo di Laura, del suo passato, cosicché unica cagione del travaglio amoroso sta soltanto in lui.

Moderna, in qualche passaggio de “I Promessi Sposi” è Lucia, come nell’ “Addio ai monti”, anche se alla fine Manzoni s’intromette e fa propri quegli introspettivi e poetici pensieri; è moderna, come si accennava, la Silvia di Leopardi, nella quale il poeta coglie insieme la lietezza e la pensosità della gioventù, il vago avvenire che lei in mente aveva. Lo è la Odette in “Un amore di Swann” di Marcel Proust, di cui l’uomo innamorato coglie i moti dell’animo fermandosi rispettoso nella indagine sul passato di lei, tormentato dal desiderio di appropriarsi della vita di una donna affascinante e misteriosa, ma consapevole che non sarà mai completamente sua.

Modernissima, infine, è la donna in Montale, soprattutto quella della Casa dei doganieri, che vi sosta per qualche notte con tutto lo sciame dei suoi irrequieti pensieri, ma poi non ricorda più, perché la sua memoria è frastornata, e non ride più lietamente come quando colà si soffermò. Lo è del pari Dora Markus, in cui, nonostante il presentimento della persecuzione nazista, le sue tempeste interiori e l’apparente “lago d’indifferenza del suo cuore”, sopravvive con il suo forte desiderio di perpetuazione, stesso motivo che poi il poeta trasformerà in un augurio per Paola Nicoli, dedicandole la stupenda lirica Casa sul mare.  

                                                          Gennaro Iannarone

Morte del giornalista Giancarlo Siani


MORTE DI UN GIORNALISTA

 (Incontro con gli studenti nel 20° anniversario della morte di Giancarlo Siani)



Ragazzi, chi di voi vuol fare il giornalista? Qualcuno di voi probabilmente vuol fare il medico o l’ingegnere, o il professore, ma penso che tra voi c’è qualche aspirante giudice. E sono anche abbastanza certo che se chiedessi a lui se gli piacerebbe esercitare quella professione nel campo civile o in quello penale, lui opterebbe per il campo penale. E se insistessi ancora nel domandare se preferirebbe fare il Giudicante oppure il Pubblico Ministero, colui che vuole entrare in Magistratura risponderebbe molto probabilmente che aspira a lavorare in una Procura della Repubblica perché attratto dal fascino della funzione di indagatore.

È lo stesso fascino che ha subito Giancarlo Siani.

Ma il problema è: a chi spetta tale funzione?

Riprendo oggi, dopo un anno che sono uscito dall’ordine giudiziario, la veste di magistrato anche perché, essendo stato pubblico ministero in Avellino per circa nove anni e mezzo, ho avuto molti contatti con i giornalisti, che mi sono sempre apparsi inclini alle investigazioni e qualche volta, a dire la verità, ne sapevano più di me delle circostanze dei delitti su cui mi accingevo a indagare. Torniamo piuttosto alle vostre aspirazioni professionali e a quel sogno di fare giustizia, il quale potrebbe identificarsi sia con la volontà di fare il Giudice sia con quella di diventare un Giornalista. Però non si possono fare insieme l’una e l’altra. Un giudice può anche scrivere, ad esempio, una “Storia della mafia” e pubblicarla, ma, mentre fa il giudice o il pubblico ministero, non può fare anche il giornalista, cioè pubblicare l’esito delle sue indagini, e neppure – credo – rilasciare interviste sui risultati conseguiti.

Voi saprete senz’altro distinguere tra un giornalismo che si occupa di politica o dà notizie di calamità pubbliche come un terremoto, e un giornalismo che si dedica alla narrazione dei fatti delittuosi che avvengono nella società. E anche in quest’ultimo campo vi apparirà diverso un giornalista che informa la pubblica opinione dei delitti di mafia, accennando anche alle indagini in corso da parte delle forze dell’ordine o dei pubblici ministeri, da altro giornalista che, invece, aggiunge notizie da lui stesso apprese a seguito di indagini da lui intraprese e condotte, come, ad esempio, l’interrogazione di persone, e per di più scrive sul suo giornale di aver tratto personale convincimento sulla colpevolezza di qualcuno per un dato delitto. Questo è il punto fino al quale si era spinto Giancarlo Siani, che per amore della Giustizia, per la ferrea volontà di raccogliere prove inconfutabili contro la famiglia Gionta che infestava la sua città, ha finito per diventare più indagatore che giornalista, sovrapponendo una passione all’altra.

Mi spiego meglio. La passione per il giornalismo è diversa da quella che anima il cosiddetto “giustiziere”. La prima confina con la passione dello scrittore e, con riguardo alla cosiddetta cronaca nera, si potrebbe anche considerare come una passione analoga a quella dello storico. La seconda nasce invece dal convincimento che gli organi di giustizia dello Stato, dalle forze dell’ordine fino ai più alti gradi della Magistratura, non siano sufficienti a soddisfare il sentimento di giustizia che vorrebbe vedere puniti determinati fatti criminosi. Allora il giornalista comincia a fare delle indagini non con l’animo di chi vuol poi raccontare ma con l’intenzione di sostituirsi agli anzidetti organi di giustizia, che egli ritiene inerti o incapaci di fronte alla delinquenza, specie quella organizzata. Ma si può essere sicuri, prima di tutto, che tale convincimento sia esatto, e cioè che i risultati raggiunti dal giornalista indagatore coincidano con la verità? Che pensare, poi, se tali risultati sono diversi dalle decisioni della magistratura competente?

Se uno di voi sogna di fare un domani il Sostituto Procuratore alla Repubblica e di indagare sulla malavita esistente nelle nostre zone, è senz’altro encomiabile questa sua aspirazione, come lo è l’aspirazione di fare il giornalista e di dedicarsi alla cronaca giudiziaria di quel che avviene, diciamo, in queste zone della Valle dell’Ufita e nei paesi circonvicini. Inoltre, ad ognuno di voi può capitare di venire a conoscenza, non dico di delitti di camorra, molto rari nelle nostre zone, bensì di spaccio di stupefacenti, ad esempio per aver rinvenuto nei giardini pubblici una siringa tipica per insulina. Allora un impulso potrebbe scattarvi nell’animo: “Ah, se io arrivassi a fare l’indagatore! Vorrei accertare chi è stato ad usare e a lasciare per terra queste cose...

In verità, in ognuno vibra un’ansia di giustizia. Chi si controlla di più, pur indignandosi inizialmente, poi si acquieta e finisce per confidare nelle forze dell’ordine e nell’opera della Magistratura, ma in qualche altro che osserva con rabbia quanti delitti rimangono impuniti, può scattare il proposito di fare il giornalista con lo stesso entusiasmo e con la stessa passione con cui pensò di farlo Giancarlo Siani. Ossia di fare il giustiziere.

Ora devo farvi necessariamente una confidenza, essendomi sempre prefisso di essere sincero nelle scuole e di dire chiaramente quello che penso sulle questioni di giustizia, anche se le mie parole dovessero toccare la memoria o l’immagine di qualcuno. Quando ho deciso di fare il Giudice non ho mai pensato di diventare un accanito indagatore, ma di giudicare con umanità ed equilibrio. In altri termini, sono uno di quelli che, se interpellato a scuola come ho ipotizzato di farlo con voi, avrebbe espresso la propria preferenza per la funzione giudicante. Giancarlo Siani ha pensato, credo inizialmente, di dedicarsi al vero e proprio “giornalismo” e poi, osservando la triste realtà di Torre Annunziata, è rimasto irretito da quel sogno di fare il giustiziere. Ragazzi, noi lo commemoriamo oggi, a vent’anni dalla sua barbara uccisione, e ci commuoviamo di fronte alla sua coraggiosa figura. Ci fosse nella società tanta gente come lui, animata da passione e da laboriosità! Ci sono invece quelli che si ricoverano nelle sacche d’inerzia del lavoro giudiziario e tirano a campare, refrattari all’ansia di accertare e punire gli autori di gravi delitti. Ci può essere invece in mezzo a voi qualche giovane più curioso di sapere chi delinque  suo ambiente. Voglio dire che una passione dell’indagine ci può essere più in uno di voi che in un Sostituto Procuratore della Repubblica che, semmai, non si dedica alacremente allo studio dei processi.

State seguendo il mio discorso? La passione, l’ansia di giustizia, l’ansia di voler modificare questo mondo per vederlo migliore è un sentimento innato nell’individuo. Ma se ci si lamenta di magistrati inerti o negligenti, bisogna d’altro canto temere di quei giovani sostituti procuratori che, animati da eccessiva foga accusatoria, vedono colpe dappertutto e spediscono senza la doverosa cautela avvisi di procedimento nei confronti di persone innocenti, rovinandone la reputazione per sempre con l’immancabile pubblicazione sui giornali. Quindi è necessario che chi abbia ansia di giustizia sia anche prudente nel dare inizio a un processo penale. Il mio discorso di fondo è netto: è normale che ce l’abbia un Pubblico Ministero, un Giudice, è normale che ce l’abbia un Avvocato nel difendere un incolpato, dato che appartiene anche lui al campo della giustizia, ed è normale che ce l’abbia anche un giornalista. Sì, anche lui, perché è un diritto di tutti l’aspirazione ad una società migliore ed è assai utile che i cittadini vengano informati dei delitti che accadono e dei processi che vengono iniziati.

Ma il giornalista può fare spontaneamente delle indagini? Io ritengo decisamente di no e sono ben consapevole, come vi ho detto, che un giornalista, vivendo in un mondo più vario, tra orizzonti più ampi, ha contatti con più fonti di informazioni e può attingere maggiori conoscenze. Quante cose sa un giornalista della società avellinese che io non so! Io non faccio più il Giudice, ma quando lo facevo mi rendevo conto che nella società vi sono persone insospettabili che diventano depositari di segreti  importanti. Anche tra voi ragazzi e ragazze c’è qualche persona che per sue particolari doti di carattere raccoglie più confidenze. Talvolta, comunicando ad altri una notizia, si ritiene di aver gettato un seme che porta frutti. Un tempo questo seme si gettava nei confessionali, affidandolo al prete confessore. Ora si comunica più spesso alla Stampa, con le stesse finalità.

         Di qui qualche problema sorge nel processo penale. Se il Pubblico Ministero sta indagando su un delitto e viene a sapere che un prete, o un monaco, sa qualcosa che potrebbe giovare al risultato delle sue indagini, può convocarlo e chiedergli che cosa gli è stato confidato in confessione? La risposta dell’interrogato sarà quasi certamente questa: “Mi spiace, signor Giudice, questa notizia non la posso riferire perché l’ho appresa in confessione”. Comunque la situazione, che è di una certa delicatezza, è regolata dall’art. 200 del Codice di procedura penale, che è una norma fondamentale nella materia di cui stiamo parlando ed è diretta a tutelare il segreto professionale, fra cui anche quello dei giornalisti. Infatti, mentre voi sareste tutti quanti tenuti a dire al Pubblico Ministero o al Giudice una notizia della quale siete venuti a conoscenza, perché, se tacete, il Giudice vi può processare per reticenza o falsa testimonianza, vi sono alcune categorie di persone che sono protette, nel senso che, anche davanti al Giudice, possono conservare il proprio segreto professionale. E adesso, tornando al cuore del problema: il giornalista indagatore è protetto e fino a che punto? Può trincerarsi, davanti al Giudice che lo interroga, dietro il segreto professionale? Secondo l’art. 200: “Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragioni del proprio ministero, ufficio o professione, salvo i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria (trascurando le altre professioni): “…i giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono necessarie ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni”.

Anche il giornalista può invocare, dunque, il segreto professionale, ma con delle limitazioni. Se Giancarlo Siani fosse stato chiamato a testimoniare, poteva essere obbligato dal Giudice ad indicare le fonti, ossia i nomi delle persone da cui aveva saputo alcune notizie, soltanto se tali notizie fossero state necessarie ai fini della prova del reato per cui si stava procedendo nei confronti della famiglia Gionta per associazione camorristica. Se si fosse rifiutato di indicarle, la sua deposizione non avrebbe avuto alcun valore. Sento però il dovere di aggiungere che agli altri professionisti, come il medico, l’avvocato, il ministro del culto, le notizie sulle responsabilità delle persone giungono non perché siano cercate ma nell’esercizio della professione. Al giornalista, invece, no. Egli è più esposto a subire, come dicevo, il fascino, l’attrazione della ricerca della verità, e perciò, a differenza degli altri professionisti elencati dall’art. 200 del Codice di procedura penale, egli va in cerca delle notizie al fine di diffonderle, di pubblicarle per informare la pubblica opinione. Ed è la stessa indole della sua professione che lo stimola a voler sapere di più in materia di fatti illeciti. Come una malattia, contro la quale molti di noi, molti di voi, siamo immunizzati.

Ad ogni modo, noi oggi non commemoriamo Giancarlo Siani per le notizie che ha assunto e ha poi pubblicato o tramesso ai giudici. Noi siamo qui per dire e riconoscere che quello di Giancarlo Siani è stato un grande esempio di eroismo. Possiamo immaginare che, muovendosi in quel mondo della camorra di Torre Annunziata, abbia saputo non solo chi appartenesse alle cosche ma sia anche riuscito a capire i loro legami e gli intrecci con il potere politico di Torre Annunziata, il che spiegherebbe ancor meglio perché, avendo toccato i potenti, i clan camorristici ne abbiano deciso l’eliminazione. Egli ha fatto, dunque, una scelta solitaria, una scelta eroica di vita, nella speranza di conseguire dei risultati nell’interesse dell’intera comunità in cui viveva. Per questa scelta, che gli è costata la vita, noi commemoriamo il suo sacrificio, dettato dall’aspirazione a veder migliorata la sua Torre Annunziata.

Grazie, ragazzi, della vostra attenzione.

                                                                      Gennaro Iannarone