domenica 6 novembre 2016

Il caso Erika


Il caso Erika

Nel Codice penale la disciplina dell’imputabilità si fonda sulla tripartizione classica delle funzioni della mente: intelletto, volontà e sentimento, in cui si avverte una qualche analogia con l’anima sensibile, irascibile e concupiscibile della filosofia platonica. Non si è imputabili soltanto se le prime due funzioni (intelletto e volontà) siano alterate, o per non essere pervenute alla piena maturazione (come si presume in senso assoluto negli infraquattordicenni, e in senso relativo negli infradiciottenni, nei cui confronti è necessario accertare se sia avvenuta la suddetta maturazione), o per essere escluse a causa di un vizio totale di mente, o grandemente scemate a causa di vizio parziale di mente. Gli stati emotivi o passionali, riguardanti il sentimento, non escludono né diminuiscono l’imputabilità. Essi possono eccezionalmente aver rilievo, ai fini della esclusione o dell’attenuazione della capacità d’intendere e di volere, solo quando, esorbitando dalla sfera psicologica, degenerino in un vero e proprio squilibrio mentale. Se n’è discusso con riferimento al tema della gelosia, per ritenere che essa, sebbene sia un sentimento morboso, non incide sull’imputabilità se non quando provochi disordini nelle funzioni della mente e assurga ad una vera e propria forma psicopatologica, nonché con riferimento al tema della paura, la quale, se è pure compatibile con le libere scelte e con l’integrità mentale dell’autore di un reato, menoma peraltro la sua imputabilità solo se dilatata in una dimensione morbosa di infermità o seminfermità psichica. Se dal campo della capacità d’intendere e di volere ci si sposta in quello ontologicamente diverso della coscienza e volontà dell’azione, si passa dalla considerazione della mente presa di per sé sola, cioè come il complesso di tutte le facoltà psichiche dell’uomo, dalla memoria alla coscienza, dall’intelligenza alla volontà, dal raziocinio al senso morale, a quella della relazione tra la mente e le sue idee. In tale relazione consiste la volontà, la quale non è solo il potere d’impulso che la mente dà alle sue idee per far produrre loro un effetto nel mondo esterno, ma è altresì potere di inibizione, cioè di arrestare l’azione quando la volizione cosciente pone l’uomo in condizioni di valutare la portata immorale e comunque negativa delle proprie scelte.

         Se questi sono i principi fondamentali che le attuali dottrine giuridiche hanno posto a base delle teorie sull’elemento psicologico del reato, ci si domanda se può l’uomo di oggi essere ancora giudicato con categorie del diritto penale che fondano la colpevolezza sulla coscienza dell’azione da parte del reo, ovvero se, oltre la coscienza, possano venire in gioco nel campo penale anche manifestazioni ricollegabili all’inconscio e al subconscio, che cagionino alterazioni della visione del mondo esterno e conseguenti spinte all’azione non controllate dal potere di inibizione.  

         Appare subito evidente, entrati in queste tematiche, che non si può prescindere dalla psicoanalisi, dato che la “scienza nuova” di Sigmund Freud non era stata compiutamente esposta all’atto della regolamentazione dell’elemento psicologico nel Codice del 1930. Essa avrebbe infatti sconvolto il comune convincimento che l’uomo avesse la piena conoscenza della propria interiorità e potesse cioè governare e dirigere le proprie azioni, insegnando, invece, quanto complessa e quasi insondabile fosse la psicologia dell’essere umano. Era stata questa la scoperta rivoluzionaria dell’ “inconscio” e del “subconscio”, serbatoio di tutte le “rimozioni”; donde era venuta la spiegazione di molte manifestazioni umane, dai sogni ai lapsus e ad altre “psicopatologie della vita quotidiana”, mentre la punibilità delle azioni illecite rilevanti per il diritto penale rimaneva sempre ancorata alla “coscienza” e alla “volontà” dell’agire.

         Ora invece, e da qualche tempo, non si è più sicuri dell’esattezza di tali relazioni poiché si sono verificati nell’epoca contemporanea, in Italia ed in altri paesi del mondo, delitti così efferati, così orrendi e mostruosi, con una particolare specificità per i serial killer e per gli omicidi in famiglia, che gran parte della pubblica opinione ne è rimasta sconvolta al  punto da non credere ad una responsabilità “umana”, cioè riconducibile ad una persona consapevole del bene e del male e cosciente della portata delle proprie azioni, e al punto, altresì, da rimanere talora persino incredula di fronte ai responsi di periti psichiatrici che avevano ritenuto capaci di intendere e di volere soggetti condannati per siffatti delitti, giacché si è dubitato del fatto che alla loro commissione avesse potuto presiedere la “coscienza” di un uomo. Peraltro qualche studioso, confermando, per così dire, le “sensazioni a pelle” dell’opinione pubblica, è rimasto dubbioso sull’attuale validità dei canoni della psicologia e della psichiatria classica, ai quali le nuove raccapriccianti realtà sembravano aver dato un forte scossone. Così si è giunti a chiedersi, guardando a casi concreti fra i più impressionanti come quelli di Novi Ligure (il caso Erika), di Cogne (il caso Franzoni), di Ancona (Donato Bilancia), se la psiche dell’essere umano non abbia subito profonde trasformazioni, ossia se non siano insorte nell’uomo, divenuto “non umano”, e forse già “post-umano”, nuove psicopatologie non catalogabili in quelle tradizionali.

         Volendo analizzare il caso di Novi Ligure, che più degli altri ha sconvolto gli italiani, ed entrando subito in argomento, un aspetto posto in evidenza nella personalità di Erika Di Nardo sarebbe l’indifferenza verso la madre, un sentimento espresso più volte quando il perito le ha chiesto perché Omar l’aveva plagiata e convinta – come lei dapprincipio asseriva – ad ammazzare sua madre. Ad una prima valutazione l’indifferenza poteva essere equiparata all’anaffettività, non riconducibile però ad una forma di schizofrenia, della quale mancavano del tutto gli altri caratteristici sintomi, anche perché gli stessi periti, evidenziando nella ragazza chiare “note di narcisismo” (che si nutre pur sempre di amore), avevano accertato una caratteristica della personalità inconciliabile con la schizofrenia, in cui sono sintomatiche le sensazioni di “assedio”, di “ostilità” del mondo, le connesse manie di persecuzione. Altri studiosi hanno ravvisato nella ragazza una visione piatta della realtà, priva di emozioni e di affetti, ma ricca di fatuità e di manierismo, dove il rispetto delle regole formali sarebbe apparso addirittura superiore al valore della vita umana (da uno dei colloqui con Erika: “…avrei dovuto prendere qualcosa, come dice mio padre, e tirarlo dietro ad Omar, anche se sarebbe stato brutto…” e ciò mentre stava raccontando che Omar sgozzava madre e fratello), e hanno ipotizzato un pensiero totalmente “dereistico”, dove non vi sarebbero differenze di valori, dove tutto sarebbe uguale a tutto, dove la realtà verrebbe vissuta come una realtà virtuale, tanto che si tratterebbe di una psicopatologia nuova, non incasellabile né nelle banali etichette della psicopatologia moderna, né in quelle della psicopatologia classica, determinando così un contenzioso tra psichiatria e legge e un conseguente auspicio ad una modifica dello stereotipato quesito “era il soggetto capace d’intendere e di volere?”, il quale non riuscirebbe a comprendere interamente il complesso quadro delle psicopatologie.

         Sorge allora spontanea e immediata in chi deve giudicare un imputato la preoccupazione che con l’attuale disciplina penalistica più si amplia il campo delle psicopatologie, maggiori diventano le probabilità che i più efferati assassini restino impuniti a seguito del riconoscimento di una loro totale infermità di mente. Ma invece di rifiutare in tal modo il dialogo con la scienza, sembra opportuno osservare che lo stesso va instaurato su un piano del tutto diverso, pur di sviluppare un confronto che, prendendo sempre a base il caso concreto di Erika e Omar, tenti di darne una spiegazione la quale, pur non offrendo soluzioni certe, contribuisca ad indicare le basi programmatiche per fondare una nuova disciplina dell’imputabilità.              

         Partendo dallo stesso dato dell’affermata “indifferenza” verso la persona della madre, occorre domandarsi prima di tutto se Erika sia stata sincera nelle risposte oppure abbia mentito sui propri sentimenti. Interessante è notare in proposito che, fra le espressioni riportate dal Collegio di periti, vi è quella con cui lei si autocolloca nella famiglia e si autodefinisce, dicendosi: “Figlia di genitori modello, inserita in una famiglia felice, studentessa discreta, comunque dotata di alti valori morali trasmessigli da una madre affettuosa, vicina ed amica meravigliosa”. La stessa Erika però riferisce altrove di “incomprensioni” con la madre, a seguito delle quali lei si ritirava “sdegnosa” nella sua camera, dove la madre poco dopo la raggiungeva, parlavano “come amiche”, e “tutto diventava come prima” ed afferma poi, in altro significativo colloquio con i periti, che tutti quelli che ammazzano le persone “tanto a posto non sono”. Inoltre riconosce, su precisa domanda del perito, che un segno di anormalità è il precedente (non attuale) suo assoluto non attaccamento alla madre, e al perito che le comunica che “tutti pensano che lei odiasse sua madre”, risponde: “No, odiare no…era indifferenza…perché dovevo odiare la mia mamma?”.

         Orbene, a questo punto non si può tralasciare di osservare, nell’accingerci a rispondere al preliminare quesito sulla sincerità delle risposte di Erika, sincerità che costituisce una base operativa di cui occorre esser certi, che, pur perseguendo periti e giudici il medesimo fine di accertamento della verità, solitamente il magistrato è incline a battere strade diverse per comprendere la psicologia dell’autore di un delitto e i moventi che lo hanno spinto ad agire. Più precisamente, se il giudice fosse chiamato pronunciare una sentenza soltanto sulla base di una indagine psicologica, non porrebbe alle persone indiziate domande relative al delitto, com’è invece accaduto in alcuni dei colloqui dei periti con Erika, i quali (ci si perdoni questa franca opinione) si son quasi sostituiti ai giudici nello scandagliare se quei delitti avessero un movente e quale, mentre si sarebbero dovuti limitare a un campo d’indagine unicamente psicologico, del tutto diverso da quello che richiamava alla mente dei ragazzi il delitto di cui erano indiziati, in quanto in tale campo essi avrebbero avuto remore ad aprirsi ad un interlocutore.

         D’altra parte, se i periti hanno posto alla ragazza anche domande che riguardavano i suoi rapporti con la famiglia, e in particolare con la madre, e quelli che la legavano ad Omar, non è questa parte dei test che poteva essere utilizzata per uno studio sulla vera psicologia di Erika per capire i rapporti tra la sua “coscienza” e i gravissimi fatti commessi, poiché il condizionamento derivante istintivamente dal nesso tra quanto riferito e gli esiti di un processo, ha inciso certamente sulla spontaneità delle risposte e quindi sull’affidabilità dei risultati del colloquio.

         Perciò, fino a quando in questi straripamenti di campo incorreranno psicologi e psichiatri, fondandosi in ultima analisi su materiale infido, non vi potranno mai essere le condizioni per una reciproca comprensione tra la psichiatria e il giudice. La ragione della distanza che ancora divide è che per il perito punto di partenza e fondamento della sua indagine sono le risposte del soggetto interrogato o sottoposto ai test di cui dispone la sua scienza, che egli considera senz’altro come espressioni corrispondenti all’interiorità, spontanee e sincere, per cui vi costruisce sopra, con una sicurezza che certamente pecca d’ingenuità, il proprio teorema (ad esempio quello del pensiero “dereistico”), mentre il giudice, al contrario, parte dal punto fermo che l’interrogato, se colpevole, tende innanzitutto a escludere la propria responsabilità, per cui naturalmente nasconde il proprio pensiero e non rivela i moventi che hanno dato luogo al delitto, quando i sentimenti che sono alla base di quei moventi appaiono in tutta la loro riprovevolezza. Nella fase in cui subentra il senso di colpa, egli avverte un rimorso che non gli dà pace, e compaiono nella sua mente, a volte in una mescolanza che può sembrare assurda ma non lo è, da un lato un certo bisogno di espiazione, e dall’altro la paura del castigo stesso, che è di duplice natura: a) quello che infligge la generale riprovazione e si riflette nella coscienza. Erika infatti ha sentito un “rimorso proprio dentro”, nel contempo si è vista “un mostro fuori” (e perciò ha dichiarato ai periti che “aveva tutte le ragioni del mondo di starsene calma e sorridente ad aspettare che si facesse luce ed il castello di menzogne costruito sul suo conto si sfaldasse…”) e b) quello concreto consistente nella paura della pena carceraria, dell’isolamento dal mondo, nel caso di Erika della perdita chissà per quanti anni, anche per sempre, di quella libertà anche sessuale di cui aveva goduto più intensamente con Omar.

         Perciò i cambiamenti che si colgono a piene mani nelle varie versioni che ella dà dei fatti e nella tendenza a falsificare la realtà non sono i sintomi di una psicopatologia nuova e non ancora classificata, ma il prodotto della grande paura della punizione, congiunto al senso di colpa e al lacerante rimorso, e dell’insopprimibile istinto di conservazione e di difesa contro spaventevoli prospettive di reclusione a vita, il tutto subentrato nell’area della consapevolezza – questo è il punto fondamentale della nostra analisi – soltanto dopo l’avvio delle indagini e comunque un po’ di tempo dopo il sanguinoso eccidio. In conclusione, su tale punto, sebbene Erika abbia parlato di “indifferenza” nel rispondere alla domanda se nutrisse odio verso la genitrice e abbia confessato di aver nutrito questo sentimento anche quando, nel corso dello stesso colloquio, il perito ha introdotto abilmente il termine “fastidio”, molto vicino a sensazioni di mal sopportazione della madre al fine evidente di indurla a qualche ammissione su un sentimento che confinava sia pure alla larga con l’odio (“…Fastidio no….indifferenza”, ha continuato a rispondere), riteniamo, per quanto già  detto sulla mutevolezza delle sue parole e delle versioni offerte, di poter dare con la massima sicurezza al preliminare quesito che ci siamo prefissi la risposta che la ragazza non è stata sincera e anzi ha più volte mentito. Appare certo, infatti, che Erika odiasse sua madre, anche se non è altrettanto certo che tale sentimento fosse pervenuto al livello della sua coscienza nei terribili momenti dell’esecuzione omicidiaria. E’ assai più probabile, infatti, che quest’odio sia rimasto stratificato profondamente nel suo inconscio, per effetto delle chissà quante rimozioni da lei operate ogni volta che il rigore, la inflessibilità, la durezza della genitrice (la quale  …aveva una forza interna terrificante”) e la di lei predilezione del fratellino le suscitava pulsioni sempre interiormente represse e relegate nel sostrato della inconsapevolezza e poi trasformate, inconsciamente e assieme ad Omar, in un’aspirazione a una “completa libertà”, che aveva più la consistenza di una illusoria visione che quella di un concreto obiettivo.

         Da questo sottofondo magmatico (è il campo dell’ “Es” non salito al livello dell’ “Io”) è emerso quella sera un irrefrenabile impulso a uccidere, a massacrare, a eliminare per sempre la madre e il fratellino, le cui esistenze soffocavano direttamente e indirettamente la sua vita e la sua ansia di libertà. Questo impulso non proveniva in lei dall’aver concepito freddamente e nei particolari i delitti prima di portarli a compimento, poiché ciò, oltre a costituire la spia di un’ansia cosciente di libertà, l’avrebbe presumibilmente indotta a limitare l’esecuzione agli atti strettamente necessari a spegnere le due vite: pochi colpi di coltello assestati in parti vitali del corpo delle vittime, con l’attiva collaborazione di Omar. Si assiste, invece, ad una duplice impulsività scatenata, ad una tale efferatezza e crudeltà da impressionare una intera collettività nazionale, proprio perché i due sono apparsi alla pubblica opinione come portatori della ferocia delle belve. Sono quindi anche i dati oggettivi che fanno molto dubitare dello stato delle coscienze di quei massacratori appena adolescenti. Coscienze da immaginare perciò del tutto obnubilate, poi chiarificatesi man mano che le indagini e gli interrogatori hanno fatto rivivere ai ragazzi le fasi del delitto che avevano commesso. Quando Erika, nella sua terza versione, ammette la propria partecipazione attiva, aggiunge che i ricordi le sono ritornati leggendo il resoconto dell’autopsia dei familiari e si esprime in modo sufficiente a confermare la tesi dell’originaria incoscienza. Enorme meraviglia destano le sue parole: “L’autopsia spiega tutto…e quindi bisognava essere in due. Mi sono venute delle crisi…Un po’ di giorni fa ho aperto il rubinetto e ho visto il sangue uscire….Poi ho urlato…Comunque l’Erika che è qui adesso non è quella di quella sera…” Qui, a parte il tentativo di suscitare compassione, si ravvisa una sorta di sdoppiamento di personalità poiché compare una Erika cosciente che guarda, analizza e giudica un’altra Erika, incosciente al momento del crimine, la quale recupera dopo il delitto un attaccamento verso la madre che prima non aveva, in quanto prima provava solo indifferenza, mentre ora, all’osservazione del perito psichiatra (che le dice: “Un segno di anormalità è il tuo assoluto non attaccamento a tua mamma”), risponde: “Adesso sì, però!!”, in un secondo evidente tentativo di separare la propria personalità del passato da quella del presente. E’ subentrata dunque una consapevolezza diversa da quella, verosimilmente inesistente, del momento delle uccisioni, laddove qualcos’altro deve aver funzionato nella mente della ragazza e deve aver governato quei crudelissimi impulsi, senza che la persona umana Erika se ne sia resa conto, perché chi agiva quella sera era un inconscio o subconscio che recava in sé un serbatoio di feroci istinti di odio verso la genitrice e indirettamente, per via di una morbosa gelosia, verso il fratellino e forse anche verso l’intera famiglia (è stato forse fortunato il padre a non essere rientrato a casa in quei frangenti), e si scatenava per mano di un essere non umano, le cui azioni omicidiarie si rivelano chiaramente all’esterno come “disumane”, ma non possono essere ritenute tali sul piano morale perché sono state compiute senza coscienza, anche se con una intensissima volontà di uccidere. “Follia intellettiva” (intellettuale e morale) secondo la definizione di antichi teorici.        

Ci si chiederà di Omar, ma lui è divenuto completamente succubo di Erika, la quale, soggiogandolo con i piaceri del sesso certamente sconvolgenti per la sua età, era stata capace di trasmettergli la propria falsa, illusoria visione di una condizione di vita nuova, caratterizzata da una incomprensibile “completa libertà”, conquistandolo totalmente e togliendogli così ogni capacità di autodeterminazione. Anche la coscienza del più giovane fidanzatino era dunque completamente ottenebrata per effetto di un processo di identificazione con Erika, che si era accentuato negli ultimi quattro mesi in cui la coppia si era chiusa ad ogni rapporto sociale, intensificando solo quelli personali, e che lo ha fatto partecipare al tremendo eccidio come un automa, accomunato però a lei da una perfetta simbiosi psicologica, caratterizzata anche da una inquietante affinità: una morbosa gelosia di Omar che lo portava ad impedire a suo padre qualsiasi espressione affettiva nei confronti della moglie.

Quindi la scissione del binomio coscienza-volontà è certamente avvenuta nei due giovanissimi assassini, con il superamento delle teorie che costituiscono il fondamento del Codice Rocco circa l’inscindibilità del detto binomio. Sembra un assurdo quello di una volontà che agisce senza coscienza, si manifesta come una spaventevole mostruosità quella di due coscienze inesistenti e di quattro braccia e quattro mani che si agitano e freneticamente sferrano oltre novanta fendenti sui corpi indifesi di persone care, come due autentiche, acefale macchine di morte, ma non è possibile dare una spiegazione diversa se si vogliono conciliare tutti gli elementi oggettivi e soggettivi emergenti dalla terribile vicenda, a partire dallo scenario del delitto fino a percorrere ogni fase delle indagini e delle dichiarazioni di Erika, non perdendo mai di vista gli impressionanti risvolti psicologici della loro mutevolezza, delle finzioni, delle riprovevoli menzogne, come, tra le altre, l’iniziale accusa contro il ragazzo che aveva completamente plagiato e che molto probabilmente lei non amava.

Se dunque i crimini più efferati possono nascere anche da impulsi non governati dalla coscienza, allora la disciplina dell’imputabilità va modificata,  ma non nel senso di rendere più rigorosa l’indagine sulla capacità d’intendere e di volere del minore infradiciottenne, bensì considerando, in un quadro assai più ampio dell’intera problematica, che il dato “uomo”, nella sua complessione psicofisica, è mutato nell’attuale momento storico che stiamo vivendo, particolarmente nelle società più civili e progredite e quindi anche in Italia.

Nel chiederci il perché, non possiamo tralasciare di osservare che è cambiato il rapporto tra i componenti della famiglia e tra il cittadino e la società, ora caratterizzato, nella prima, da un’innegabile accentuazione dei contrasti derivanti da esigenze di lavoro, da una minore comunanza di vita e da una maggiore libertà del singolo, disancorato dall’antica coesione del nucleo familiare, nella seconda da un fenomeno di schiacciamento della massa sull’individuo, foriero di acutissime divergenze di vedute e di valori, sulla scia del relativismo etico e della verità, con conseguente accentuazione della libertà di critica e, in definitiva, di contrapposizioni e reazioni anche violente degli uni contro gli altri, poiché non pochi individui si sentono vittime della famiglia o della società, cui attribuiscono, con assai maggiore frequenza che in passato, tutte le colpe delle loro frustrazioni e dei loro insuccessi, più frequenti anch’essi in una vita sociale ispirata al consumismo e all’edonismo e purtroppo piena di delusioni e di insoddisfazioni. Sta qui l’origine di tante pulsioni contro il “moderno” male di vivere e di manifestazioni continuamente rimosse, ma che si sedimentano pericolosamente nel subconscio di molti, per poi esplodere nella commissione dei più orrendi crimini, come gli omicidi in famiglia e quelli dei serial killer, nei quali il subconscio gonfio di invidia, di desideri di rivalsa, di vendetta, di odio, di giustizialismo, dinanzi a tanta fame e sete di giustizia che non viene saziata, è divenuto un meccanismo di funzionamento della mente non più controllato dal potere di inibizione. Tutto ciò nel contesto di indebolimento, nelle civiltà democratiche e di massa, del principio di autorità e di quelle linee-guida più sicure che appartenevano all’unità di una cultura che strutturava diversamente, e forse meglio, la vita e la psicologia dell’individuo.

Questi sono, purtroppo, i risultati della presente analisi, la quale, se da un lato suggerisce certamente una modifica della imputabilità penale e della costruzione teorica del rapporto coscienza-volontà, dall’altro però non ci consente di formulare proposte da legislatori. Meglio conservare al momento il ruolo più modesto di chi ha sentito il bisogno di esporre i termini e la portata, enorme e drammatica, di un problema che investe l’intima essenza dell’umano e le sue profonde modificazioni, anche al fine della ricerca di una base di comprensione tra la psichiatria e il diritto, tra la scienza e la legge                          

                                                               Gennaro Iannarone


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