BIOBIBLIOGRAFIA
Gennaro Iannarone, nato
in Irpinia nel 1940, magistrato ordinario per circa 40 anni e tributario per
circa 31, ha sempre coltivato passioni per letteratura, arti figurative e
musica, presiedendo anche il Teatro Carlo Gesualdo di Avellino.
Dai primi anni del 2000
ha partecipato a convegni su materie letterarie, artistiche,
storico-filosofiche: “Cristianesimo e
Legalità” (2002), "Carlo
Gesualdo, poetica e musica" (2003), “La poesia tra Rinascimento, Manierismo e Barocco” (2004), "Francesco Petrarca e la modernità della sua
passione amorosa" (2004), “Carlo
Gesualdo, l’uomo, i suoi tempi e le sue passioni” (2005), “Leopardi e Montale” (2006), “La Poesia e la donna” (2011), “Giovanni Palatucci” (2011), “L’immortalità
dell’anima in Sant’Agostino” (2012, "Carlo Gesualdo nel 400° della nascita (2013), “Reditus ad Deum di San Bonaventura” (2013). Si è dedicato altresì
alla saggistica con “Socrate in classe”
(2008), "Poesia e Musica"
(2009), “Filosofia e Musica” (2010),
"Testimonianza per Alberto Moravia"
(2012), “Paternità dei madrigali anonimi
di Carlo Gesualdo” (2014), (con menzione di merito al Concorso Quasimodo
(2017), come per il racconto “La luce nel
pozzo” (2016)), nonché alla prefazione di testi di poeti irpini: “Breviter, sic et simpliciter regula ludi”
di Pietro Pelosi, “Falsomagro” di
Monia Gaita, "Poesie d'amore"
di Alessandro Di Napoli.
Ha pubblicato con Alfredo
Guida-Napoli: “Io, giudice cristiano ed
eretico” (2004), “Verità al risveglio”
(2006), “Percorsi tra Legalità e Valori”
(2009), “Sentinella di vita” (2010),
“Sciroppo amaro ed altri veleni”
(2012) e con l'editore International Printing di Avellino "I ragazzi della Via Vasoli" (2012).
Dedicatosi dopo i 70 anni alla poesia, ha pubblicato con Scuderi-Editore le
sillogi: "Vivere balenando in
burrasca" (2015), “Quel foulard
giallo-nero” (2016), “Guscio di noce”
(2017) e “E’ per…te” (2017), tutte
positivamente recensite dal prof. Giorgio Bàrberi Squarotti. Ha pubblicato con
Aletti Editore nella Collana Il Paese della Poesia “Se vuoi arrivare lontano cammina insieme” (2018), nella Collana Le
Perle le sillogi “Le Stagioni della vita” (2018) e “Stardust”
(2019), nella Collana Parole in fuga “Vent d’amount” (2019). Con lo
stesso editore Aletti è presente nella Enciclopedia dei Poeti Italiani
Contemporanei nonché in sei Antologie di poesia.
Numerose le
partecipazioni e i riconoscimenti ottenuti in Concorsi svoltisi in Bari
(“Lucius Annaeus Seneca: l’Oceano nell’anima), in Roma (Premio Internazionale
Salvatore Quasimodo e Premio Caffè delle Arti), e in Torino (Arte Città Amica).
Sul sito Ticonzero di Roma tratta
temi di Educazione alla legalità, oggetto di conferenze tenute nelle scuole di
ogni ordine e grado.
Collabora con “Nuovo Meridionalismo”, rivista culturale irpina.
Dimora in Mercogliano
(Avellino).
Per Giorgio Bàrberi
Squarotti
I
primi righi hanno narrato con malinconia la
mia
vita e poi un pensoso sguardo all’eternità
hanno
levato tornandone dalla tenebra delusi,
infine
si sono girati e rigirati dentro un guscio
di
noce, vuotandolo del frutto di immaginaria
cena
amara, col suo finale incompiuto ancora.
Tal
m’è parso il divertimento chiamato poesia,
che
svanirà come il fumo acre di riarse foglie.
Rimarrà
il ricordo di un viaggio della fantasia
che
senza le briglie d’algido mestiere è giunto
sotto
sguardi compiaciuti di un lettore eccelso.
O
qual ventura, quale immensa gioia del lume
che
un suo scritto irradiò sui versi incolonnati.
Se
acquietate sono voce e penna come il volto
mio
silente, l’anima a cui lui parlò ora è felice.
Ad Anna
Un forte vento, uno scroscio
d’acqua tempestoso,
pare talora anche un grosso
maglio che schiaccia,
ma cede al solare volto pur lo
schermo luminoso.
Florida è nella sua persona,
proficua ogni sortita,
dalla gioia circondata è sua
dovunque una serata,
improbabile donna e mia vera
compagnia di vita.
È PER TE
di
Gennaro Iannarone
Con questo nuovo
bouquet, dal titolo che s’offre come bocciolo nell’atto di dischiudersi, e
contemporaneamente come malinconica serranda, che abbassandosi con
inesorabilità lascia uno spiraglio, Gennaro Iannarone percorre con sicurezza
accresciuta il tappeto compositivo, dimostrando un gran dominio di tutti i
mezzi di espressione poetica, e la ferrigna, sanguosa perseveranza
nell’esplorare in tagliente eppur dolce verità i temi di un cammino spinto fino
ai più estremi limiti consentiti al percetto, alla memoria, all’esperienza. La
traiettoria poetica conosce e annovera, dunque, tante stazioni di sosta,
moltiplica e mappa affluenti che fanno, nello stesso grado, da protagonisti e
da coreografie al gran male e al portentoso prodigio di vivere.
Il poeta è un viaggiatore
che per provviste ha la fiammella dell’acciarino pronto a scattare
imprevedibile e imperscrutabile com’è la natura dell’atto creativo, un bruciore
di ricordi e carte d’amore. Sembra ed è una dedica, il titolo, che pur non
avendo morfologia olofrastica, nella sua economia, nelle rifrazioni che evoca
e/o suscita, possiede, racchiude in sé, una frase interminabile, il potere di
un dono di continuità che persiste e dura nei lampi, nei grigiori, nelle
penombre incantesimali del volumetto, uno struggimento in cerca delle primavere
che si nascondono in un indirizzo conosciuto, e degli autunni che portano
l’indulgenza degli archi protettivi di un antico portone.
L’io poetante è
infiammato del suo sguardo e del suo stesso silenzio, che interroga e risponde
nel paese delle distanze e dell’immediatezza: baia degli occhi una memoria che
irrompe, un oggetto che non avrebbe perdonato l’indifferenza o la fugacità, un
riverbero che svela le crepe del tempo, un cuore che tallona, paziente e
passionale, le orme, i segni, gli indizi nel cielo e lungo il parco delle
foglie turgide o morte. Un inedito Iannarone che passeggia, conversando con le
cose, come un musicista ambulante della parola. Ora s’affaccia alla finestra
del passato, ora distingue sagome mitologiche, ora individua paesaggi in monete
di nebbia, ora massaggia lieve lieve, o taumaturgicamente friziona, le
cicatrici d’una mai prima così confessata solitudine, la vera compagna d’ogni
poeta. E la poesia di “È per te”,
anche quando si fa più bisbigliata e intima, anche quando è più sofferta e
privata, richiede la scansione dei ritmi
della voce e del respiro, proprio perché rivolta e donata non già
esclusivamente a una specifica persona, non solo al compianto e amatissimo
Giorgio Bàrberi Squarotti, o alla moglie Anna, ma ad un ‘tu’ generico e
sconosciuto, il lettore predestinato o d’occasione; anche quando, tralasciando de temps en temps la prosodia
tradizionale, interpella la filosofia etica o s’arrampica sul dorsale aspro e
meraviglioso della persuasione culturale, il poeta viandante, quasimodiano operaio di sogni, investe il timbro di
una eclettica voce della responsabilità di ‘entrare nella pelle dello scritto’
e di far ‘sentire’, di restituire all’ascolto, gli afflati, le ispirate
contemplazioni, le esclamazioni, le carezze, i reticolati dei conflitti, i
dialoghi sorprendenti con l’altro da sé, coi fantasmi gentili di madre e padre, in licenza autorizzata e magica
dai penetrali del Regno dei Più.
È sempre, in definitiva,
un’avventura dello spirito, che all’attento fruitore affida, raccomanda, invece
che prescrivere o demandare, immersione e semmai decodificazione, qualora
proprio occorra, nel /del carsico ruscellare, che riaffiora o suscita
sotterranei echi, benché Iannarone sia spesso disarmante ed esplicito,
dantescamente “miglior fabbro del parlar
materno”. Niente, insomma, rattrappite e servili letture, bensì uno
scavalcare i fossati della disattenzione e scoprire il piacere di un gustoso
approfondimento che investe i sensi e categorizza più che mai l’empatia. Dovrebbe, pertanto, il lettore, identificarsi
con l’autore, proiettando su di sé l’ansia temporalesca, il diorama dell’eros,
i ritrattini fiabeschi di vegetali e animali, la Freiheit d’agire e la Freiheit
für die liebe, la libertà di amare, nel disdegno di pedantesche ipocrisie,
le scie di profumi, i marchi del colore, la torrida e/o romantica arnia della
sensorialità acuita, della messa a fuoco del desiderio senza primitivo
possesso, l’estensione conoscitiva delle idee, le concrezioni e le fluidità del logos perennemente sulla duplice
sella di logica della ragione e del
cuore, e a-logica dei fiutabili, metabolizzati rebus dell’immaginazione.
Il poeta si pone in
ascolto con il mondo, e noi con lui. La vocazione letteraria già in nuce nel giurista inflessibile da un
lato, tenacemente umano dall’altro, soccorre l’esigenza di innovare, e non tanto rinnovare
(nella sfumatura filologica dei significati apparentemente sinonimici e
dittologici) argomenti, stagioni, viaggi, appunti diaristici, in un esercizio
di assoluta originalità e “satirica serietà”, con riferimenti cólti, di grande
sicurezza e rendimento, e parallela rimodulazione della persona/personaggio
nell’investitura mai volgarmente ostentata del Poeta. Il facitore ineffabile, il pifferaio
pessoanamente fingitore, l’architetto di
suoni/emozioni/trasalimenti in groppa all’allodola
immortale, soavemente guidata e
cullata dalle brezze di Eolo; il veggente
rimbaudiano battelliere e passeggero, bussola provvidenziale e pioniere/valicatore, per sorte, per
congenita Berufung e lucido
proposito, dell’incerto, dell’ignoto, dell’imponderabile quid.
Vediamo come
Iannarone, inquadrato anche nel jeu delle opposizioni, si impegna, Bataillianamente e Proustianamente, nell’allontanamento laico e volitivo dall’Errore
Comune, persegue il Bene, cosciente che il Male, còlto nella misura in cui il
primo può esserne (e di fatto è) serratura e chiave, non vanterebbe giammai
maligno, insinuante attrait se non
come “sventura dell’ombra della luce”, come cruda essenzialità,
(imprescindibile) concessione di tenebra alla Nacht esistenziale.
Le recueil de poèmes “È PER TE”,
suddivisa in comode sezioni (per l’esattezza sette), suggerite dalla
moglie/musa Anna, e cioè Mitologia,
Amore, Satira, Paesaggi, Ricordi, Ritratti, Vita, rivela esito ossimorico
di densità e scioltezza, materica essenza e svincolo liquido, scommette sul
valore della lirica e del versofrase, ha un’arcana concisione che s’irradia in
mille frequenze, in molteplici visioni e allusioni, in svariate sottotracce,
individuabili fra e dentro gli spazi
bianchi, conchiglie e incensi della pessoana ‘logopea’ di Corbière e di
tantissimi, da John Milton a Théophile Gautier, da Costantino Kavafis a Émile
Auguste Alain Chartier (e per diretto collegamento) a Simone Weil, da Ted
Hughes a Sandro Penna, a Vittorio Bodini, dal travaglio della ragione di Karl
Kraus a Giorgio Seferis, analogamente confidenti nell’onnipotenza dell’arte e
precipuamente della parola. E tanto vale per W.H. Auden, Marguerite Yourcenar,
Eugenio Montale.
I tre componimenti
della sezione Mitologia (‘Immagini
d’Olimpo’, ‘Nostalgia d’Olimpo’, ‘Visioni d’Olimpo’) concatenano un ‘nostos’ di
classicismo, con tutti i suoi pennellati richiami, al pathos di un audace
splendore di sentimento e riflessione; e qui Iannarone regge bene le briglie di
ritmo e forma. Incastona immagini nitide, stratifica nel reale Zeus (Giove),
Efesto (Vulcano), Athena (Minerva) in suggestiva diacronia con l’avvento del
Cristianesimo e della moderna tecnologia: la croce cristiana simbolicamente
allegorizzata da un aereo che ha rapito o complicemente accolto gli dei
detronizzati, che hanno lasciato nel trauma i templi disadorni e vuoti, fissati
dallo sguardo immoto di statue tristi e taciturne, amputate dell’antica
grandezza, e del fascino della loro signorìa tanto affine ai vizi umani, alle
irregolarità, alle invidie, alle gelosie, ai rancori e alle rivalse; privati
ormai del potere di maledire o assolvere, premiare o punire, elargire pietà e
indulgenza o somministrare implacabili, collerici castighi grazie a portentose
facoltà permutanti/trasfiguranti. Si profila senz’altro un indizio di moderata
irriverenza, che testimonia l’istinto ribelle e anticonformista del poeta,
tuttavia senza sfociare né nel sarcasmo, né nell’acido di miscredenze o
anticlericalità. In questa sezione, in questi tre componimenti, non agiscono
forse gli dei stessi che hanno concesso investitura di cantóre a Iannarone,
affinché seferisianamente non si estinguano del tutto la memoria di eroi, di
leggende, e la bellezza crudele e salvifica di quell’universo deportato chissà
dove, sulle meccaniche ali di un jet?
La Sezione Amore si apre con ‘Frutto di Noce’, una
strofa di tre versi appena: nella sua concisione, va molto lontano, trova e compie
il suo ideale in una corrispondenza di caduco e di eterno, perché ogni fiaba
avviata alla conclusione è destinata a rinascere e perpetuarsi, magari in altri e altrove. Ma un luogo ‘certo’ Iannarone lo identifica nella casa di
via Tuoro, nella sincerissima e disarmante composizione di ‘Intramontabile
amore’, che scandisce attimo dopo attimo quella stupefazione che fu di Ariodante Marianni in “Un Amore senile e
altre spezie”, edito nel 2008 da Book di Massimo Scrignoli.
Può essere indagato,
l’Amore? Forse. A patto di non arrogarsi il compito impossibile, imprudente e
fatalmente controproducente di vivisezionarlo. Nel testo ‘La Stagione degli
amori’, Iannarone ne assevera impraticabilità, irrealizzabilità, vanità,
attraverso una serie di domande retoriche e di similitudini, sul filo
dell’ironia saggia e dolceolente (più
che crasi, fusione di ‘dolce’ e di ‘dolente’), e lungo il pettine della connotazione
cronotipica, sfrecciando nelle vene sublimi di Emily Dickinson: “That love is all there is, Is all we know of
love” (Che l’amore è tutto, è
tutto ciò che sappiamo dell’amore).
E’ insolito che oggi
i poeti lascino esalare i vapori alchemici della satira, forse per imperizia,
per timore di indispettire, o semplicemente sottovalutandone la dinamizzazione
e le punture; anche qui l’esprit spregiudicato di Iannarone soggioga esitazioni
e mette a tacere perplessità: il suo dire e la sua penna hanno piumaggio
sciolto e ago d’ape. E comincia discettando della Vita: “Non chiederti quanti anni vivrai né studiar la cabala/ per sapere del
momento in cui dovrai uscir di scena,/ come se la nostra vita fosse una
commedia che duri/ quanto prevede la pitagorica tabella il cui inventore,
nell’insegnare che tutto è numero, non si avvide che/ la sua dimensione umana
l’aveva ridotta a una cifra.” Argutissima. Qui, in ‘Cabala della vita’,
s’innesta effettivamente un’irrisione amarulenta,
un graffio verde, che riafferma l’ambiguità dell’ocularizzazione o del vano,
ingenuo calcolo, mentre la durata della vita e il suo peso appartengono al
Caso, all’Indeterminatezza, all’ ‘Unbestimmtheit’,
‘qui ne peut se mesurer’. In ‘Cani
randagi’ si racconta di un episodio sterile, crudele, impresso nella memoria
del Giudice-Poeta: la decimazione sistematica dei cani randagi dal borgo natìo
per ordine di un (improbo) bravo Pretore,
che quasi sguinzagliò una Gestapo di riottosi ma obbedienti guardie municipali,
costrette, per servizio, a sopprimere o a far sopprimere 47 canucci. Ci fu chi
si commosse nell’affossarli. E Iannarone conclude con la bordata: “Ora di nuovo se ne vedono tanti…// Sono
tranquilli, soppressa che è stata la Pretura.” ‘Culto dei cimiteri’ è fulminante, e involontariamente
ricalca un tema che apparve in una raccolta del mirabellano Pasquale
Martiniello, a proposito della personale finitudine: ovviamente con peculiari,
propri, specifici e differenti gradi di modalità e di mordacità nell’un poeta e
nell’altro. Qui Iannarone ‘si rammarica’ della ‘mancata occasione’ di non esser
uscito di scena nell’ideale mese di ottobre, lasciandolo privo di tutti gli
orpelli e gli accessorȋ celebranti il defungere, dai fiori ai lumini, ai
pettegolezzi cisposi e malevoli da salotto di camera ardente o di lastra
tombale!
In ‘Estati sofferte’
Iannarone rievoca il rigido controllo a cui era obbligato da fanciullo nei
giochi e, da adolescente, persino sorvegliato nelle scappatelle amorose; ma
proprio il troppo vigile occhio lo induce ad aguzzar l’ingegno, ad escogitare
avventurosi stratagemmi, onde per cui: “…si
addestrò/la mente alle strategie e divenni/una primula rossa che nella
sera/anche due baci riceveva in dono.”
Eccolo trasformato in un ‘Fanfan la
Tulipe’ di Christian-Jaqueana memoria, con un irresistibile Gérard Philipe
o un Leslie Howard “The Scarlet Pimpernel”,
nel film del ’35 di Harold Young. I poeti si sono spesso dilettati con
l’allegoria dei colori, da Rimbaud alla Merini, dalla Cvetaeva alla Pozzi, alla
Plath. E in ispecie, Emily Dickinson: “Nature
rarer uses Yellow/Than another Hue / Saves
she all of that for Sunsets,/Prodigal of Blue,/Spending Scarlet, like a
Woman/Yellow she affords/Only scantly and selectly,/Like a Lover’s Words.”;
e in quest’altra, celebre: “Who is the
East?/The Yellow Man/Who may be Purple if He can /That carries in the Sun/ Who
is the West?/ The Purple Man/Who may be Yellow if He can That lets Him out
again”. Per Iannarone, ne ‘I colori della vita’, l’ostico giallo, usato di
rado dalla natura, che è più prodiga di blu e di scarlatto, diventa invece
foriero di buone notizie, quando è costretto a usare lo stick del keturtest,
che misura i corpi chetonici nell’urina: “…oggi
è stato l’odiato giallo, invidia o gelosia, a confortare il cuore/quando è
rimasto sempre uguale sulla striscia/del keturtest: non la dulcedine nel mio
sangue/ma l’amaritudine che pure al mio verso giova.” Sottile e vivace
‘Incubo di una metempsicosi’: contrariamente all’opinione di un medico amico
che diagnostica l’aterosclerosi, il
poeta è più incline a lavorar di fantasia, immaginando che “…il gran vermicolare che circola nel
cervello…” sia l’invasamento dell’anima di un ‘pazzo’ creativo, che gli
suggerisce o gli richiama un verso, una musica, “un detto strano”. Bellissima
‘La vecchia auto’, sulla scorta del tema della senilità; i versi ne discutono
forse con una grattugiata di mestizia, ma servendosi del taglio dell’ironia,
Iannarone esorcizza l’amarezza, se ne trastulla con la metafora picaresca del
cavaliere canuto, costretto a sgroppare ancora
per indole, per forza e per destino: “…dovrà
continuare/il trotto sopra giovani destrieri per la serenità/del viaggio non
lungo che a lui resta da finire…”
Il profilarsi
dell’ombra thanatica è una ‘tristizia’ ricorrente già nelle raccolte precedenti
di Iannarone; non già un presentire, ma un lucido calarsi nella prospettiva, il
che immalinconisce lui e il lettore. Dunque la smorfia satirica funziona
egregiamente da antidoto alla cupezza sospirosa del pensiero. ‘Nell’inoltrata
sera’ colpisce con la trasversalità lirica che trasforma le auto in fila serale
in galline che al calar del buio s’infilano nelle stie, chetate dallo
starnazzare durante il giorno, mentre solo un galletto emette un verso, che
romanticamente “vuol svegliar l’amata dai
suoi sogni”. Molto ‘La Rocchiana’, questa chiusa galante e teneramente
impertinente. ‘Onda d’amore’ è in parte una variatio
appena accennata di un alitar presago, dove i giorni sereni celano un
incombere, un travolgere, un sommergere lo spirito del poeta. Un pensiero o un
atto d’amore soddisfatto, che dopo l’estasi si dilegua, si dissolve, scompare
quale spuma di mare? E quindi inficia il piacere, toglie un po’ di smalto alla
gioia provata, da provarsi, o che si sarebbe potuta provare.
Grazioso assai il guizzo di ‘Sogni di caccia’, in virtù dell’ingegnoso capovolgimento dei ruoli, del mutamento di prospettive: “Nella mia sagoma dietro la tenda nella notte/il cane da caccia immagina sia il padrone/e leva mugolii d’impazienza. Sono soltanto/ombra di cacciatore e mi spiace di fargli eco/di sbadigli, ma sognerò per lui voli d’uccelli.” Non è forse portentoso e stuzzicante, questo eclettismo nitido e convincente? ‘Pompieri al cimitero’ chiude la sezione ‘Satira’, con tre versetti saporiti e dal retrogusto pizzicante.
Grazioso assai il guizzo di ‘Sogni di caccia’, in virtù dell’ingegnoso capovolgimento dei ruoli, del mutamento di prospettive: “Nella mia sagoma dietro la tenda nella notte/il cane da caccia immagina sia il padrone/e leva mugolii d’impazienza. Sono soltanto/ombra di cacciatore e mi spiace di fargli eco/di sbadigli, ma sognerò per lui voli d’uccelli.” Non è forse portentoso e stuzzicante, questo eclettismo nitido e convincente? ‘Pompieri al cimitero’ chiude la sezione ‘Satira’, con tre versetti saporiti e dal retrogusto pizzicante.
Definirei commovente,
particolarmente emotiva, la serie di poesie che compongono i ‘Paesaggi’. La
compartecipazione empatica, la compassione, il turbamento, il velarsi del cuore
e il rallentare del fiato si compattano in una miscela da delicata scossa della
coscienza, che contempla l’accorciarsi della luce all’avanzare dell’autunno
(‘Autunno per amore’), un casolare spento,
marchiato da influssi di negatività (‘Il casolare a Chiaira’), un
cagnetto coperto da una materna coltre di neve, che qui gli fa da sudario (‘Alla
neve’), e la luna, privilegiato talismano e fonte ispirativa massima per il
versificatore, che la paragona a una sposa (‘Luna solitaria’), in balìa delle
sue manifestazioni stagionali, felice forse: “…sol quando ti rinnovi/hai i sorrisi di primavera dove rimani occulta”.
E via via si susseguono gli acquerelli di ‘Marzo’, ‘Nuvole passeggere’, quello
stupendo di ‘Un vecchio mulino’. Iannarone parla alle cose, e le fa parlare,
con rara efficacia. Siano mulini ad acqua, case, boscaglie, cieli e satelliti,
bipolarità del giorno e della notte, le stelle, un forno, un cespuglio…
Né
poteva mancare l’appuntamento con le rimembranze, che costituiscono un
formidabile impatto, i tasselli dell’ieri e del trascorso, in fotogrammi nitidi
o un po’ orlati di lieve foschia, virati nell’ocra. Il labirinto mnestico è una
risorsa ineguagliabile per il Poiein: una tentazione di impossibile ritorno,
uno ‘Streicheln’, una ‘Liebkosung’, un allettamento
irresistibile, un rapimento; anche se poi, alla luce della ragione, ci si rifiuta
di salire sulla macchina del tempo, sia essa monitorata nel passato o nel
futuro, e si finisce con il preferire l’attimo corrente del presente. Tuttavia
ripercorrere all’inverso il cammino, scendere per i gradini sbeccati
dell’individuale nostra scalinata esistenziale, può rivelarsi utile per meglio
vivere il cotidie. Le pagine dei
vecchi diari ingialliti possono di volta in volta regalarci attimi di
compiacimento, gratificarci o indignarci o indurre a un qualche rossore,
suscitando un rammarico o un pentimento. I bambini possono essere molto
cattivi, o manipolatori abili: c’è tanta letteratura sull’argomento e non si
contano gli studi psicologici e antroposociali sullo stato di puerizia e sui
conseguenti riti di passaggio. Il bambino addiziona i mattoncini del suo
bagaglio esperienziale e di crescita anche commettendo riprovevolezze piccole o
grandi, considerandole un gioco eccitante: scagliare pietre con la fionda
contro le campane o i lampioni o i vetri di una casa, guadagnare
pericolosamente il ramo di un albero per cogliere un nido d’implumi, staccar la
coda alle divincolantisi lucertoline, privare del suo faticato e prezioso
bottino alimentare una formica, proprio all’imbocco del nido (‘Cattiverie di
bambini’). Il sospetto di un male terribile scongiurato viene vissuto come
tripudio nel batticuore del sollievo, o nella gioia contenuta d’uno sguardo
finalmente rasserenato in ‘Doppia visione’. ‘La chiesa del Purgatorio’ si
spande in una riflessione descrittiva, al margine un po’ lugubre e polisenso:
un paese si raggrinza e si dissecca per emigrazione di giovani o di famiglie in cerca di migliore fortuna, molte sedie
restano abbandonate…E il borgo s’avvia a diventare un’isola per vecchi.
Intanto, dopo il catechismo, ignari o noncuranti del fenomeno, ragazzini si
raccolgono in parrocchia e giocano con fervore al biliardino; proprio sotto al
pavimento spaziano i cimiteri delle confraternite, regno dei resti di defunti,
ove dagli stagnanti sedili con buco scolarono i cadaveri, liberandosi dei
liquami… “…sempre più sedie vuote e tante
voci assenti nelle case.”
Il ricordo, per un
poeta, è il punto di congiunzione che ripara gli strappi provocati da
contrattempi anche minimi innescati dalla tirannia della quotidianità, e tenta
di dimostrare l’unità reticolare dell’oggi, dell’ieri, del domani, dal momento
che il tempo è un grande, agile illusionista; la poesia ne liscia le
increspature, oppure si compiace di rugarle ancor di più. E poca importanza
hanno le inconsce distorsioni, gli abbellimenti, le anomalie: si tratta,
allora, di barare con la Verità? Ma la Verità è pirandellianamente ciò che
appare, ciò che pervicacemente convince, che tenacemente ‘persuade’. La Verità
è quel che il Poeta crede, cede in usufrutto, e giura. Il risultato è
un’elegante sensibilità, l’ultimo ritocco ad un affresco che per un attimo
infinitesimale interrompe il fiato.
Un ricordo
giudiziario, legato ad una torbida vicenda d’onore, innesca forti, ineludibili
riferimenti non solo al celebre, scottante romanzo di Arpino (‘Un delitto d’onore’), che narra di un
delitto realmente accaduto in Irpinia, tra il 1920 e il 1922 (un medico
trentanovenne, di famiglia altolocata, uccide la moglie giovanissima, ‘ninfa
plebea’, che durante la notte di matrimonio trova deflorata; e inoltre spara
alla manutengola che favorì la tresca), ma
ad un capolavoro cinematografico di Robert Aldrich, “Foglie d’autunno”, con Joan Crawford e
Cliff Robertson. Nel film un uomo giovane e prestante, Burt Hanson, sposa Milly
Wetherby, una affascinante dattilografa di mezza età, per manifestare, dopo il
matrimonio, turbe caratteriali; la donna, che vuole venirne a capo, scopre che
il ragazzo subì un trauma sorprendendo in flagranza la prima moglie Virginia a
letto con suo padre. La poesia di Iannarone è dettata da una brutta faccenda
che ha similitudini impressionanti con la trama di “Foglie d’autunno”: il caso
giudiziario riguardava l’omicidio di un marito tradito, che ferì mortalmente la
fedifraga, risparmiando suo padre. Va da aggiungere che il delitto d’onore, per
lunghi anni, fu molto utilizzato come attenuante: e infatti l’assassino, leso
nella dignità morale e nell’identità sociale, se la sarebbe cavata con poco o
niente. Ars poetica, prosa e ‘settima
arte’, ‘decima musa’, non di rado
s’intrecciano, sinergiche.
Le poesie di
Iannarone hanno sempre, tutte o quasi, un collegamento, sia nella raccolta in
esame sia nei volumetti che l’hanno preceduta; tessere di un mosaico, anelli di
una catena, grani di un rosario, lastre di un puzzle, sezioni di un unico
affresco, che pavimenta, circonda e insoffitta una sola, grande storia.
Ambiziosa e comunicativa, la poetica di Iannarone ci riporta l’affermazione di
T.S. Eliot: la poesia può innescare alcunché, sia esso sentimento o fulgore
d’intelletto, all’atto semplice di una prima lettura; non ha necessariamente
bisogno di meticolose parafrasi e di autopsie: o è empatica o non lo è. E
questo è quando essa avviene, come ci
piace ripetere, quando essa è già manifesta, è già accaduta. Gli esempi si accavallano. Prendiamo ‘L’addio al
cimitero’ o ‘Montefredane’, concatenate alla scomparsa della madre la prima,
con l’indifesa umanità di un marito vedovo/ padre integerrimo, che prova troppo
strazio all’ingresso e alla permanenza nella città dei morti; come se l’atmosfera scendesse greve a
preannunciare l’inevitabile: ‘di te,
lapide, già disabitata’. La seconda, ‘Montefredane’, è il rincrescimento
sospiroso e gentile di un disegno irrealizzato, che avrebbe poi
inaspettatamente ottenuto concretezza, altrove,
in ‘Villa Cerreta’ (sezione Vita): “Ti
sei eretta da sola, son passati decenni ed eccoti/con i tuoi lunghi viali
brecciati intorno a un ampio/ prato verde, sembri uscita proprio dal progetto
che/ancor serbo, gualciti si sono la carta e il cuore…”.
Due morceaux particolari, che si muovono
entrambi sui violini melodiosi e attraenti di una tristizia languida, dell’ivresse, della peine, dello chagrin, di
una vera e propria dolceolente infusione di Herzschmerz:
‘Na chioppeta ‘e settembre’, omaggio alla koinè natìa, ‘Only you’, celeberrima
hit composta da Buck Ram e Ande Rand, le cui immortali incisioni si ascrivono
nei migliori repertorȋ di The Platters (1955), Elvis Presley (1960) e Ringo
Starr (1974). Pregnanti di romanticismo e commozione astringente, rendono
lucidi e fanno umidi gli occhi più imperturbabili, toccano le corde del sublime, provocano una tempesta emotiva,
un mix di piacere, trasporto, melanconia alata. Non si possono mortificare
parlandone o consegnandole all’anatomopatologo letterario, attento ad annotare
le metafore o la ricorrenza di questo o quel termine. Vanno gustate
nell’intimità della camera stagna del fruitore, nella sfera isolata
dell’ascolto vivo. Le chiuse di ambo le liriche rivelano una cantabilità
d’amore (filiale e ‘partneriale’) che sublima il terreno. Valgono l’intera raccolta. Già accadde per ‘Giocattoli a
corda’, “Guscio di Noce”, ‘O dolorosa gioia’ in “Quel foulard giallo-nero”,
“Meriggio sonnolento’ in “Vivere balenando in burrasca”. Importante è rilevare
che in tutte queste composizioni a valere è l’effetto artistico, che rifulge
nel tempo; importante intuire da una parola, o dal suono di questa parola, la
composizione, la struttura, l’essenza dell’uomo prima che del
pittore/musicista/poeta. L’impronta dell’animus.
Chi è che ci parla, attraverso le strofe? Chi interpella le nostre emozioni, se
non l’uomo, e poi il poeta? E’ tal
forza, l’impronta dell’animus, che sublima l’onnipotenza dell’intelletto, i
marosi della coscienza. La potente creazione poetica di Iannarone ribadisce da
un lato il concetto di Karl Kraus sulla lingua madre del pensiero, dall’altro
si serve di spunti (i ricordi, i paesaggi, i ritratti, la vita, etc. etc.) per
ottenere una concordanza interna, in una corrispondenza che trascende gli stessi
criteri di giudizio. Armonia del tutt’uno: è questa la necessità che può
produrre e presentare un’opera da ‘atmosfera’, dotata, sempre, di un manifesto
o latente imprimatur di amore e di dolenza. Sicché possiamo dedurre, da un
celebre aforisma, che “l’amore e l’arte non abbracciano ciò che è bello, ma ciò
che grazie al loro abbraccio, diventa
bello. Come ‘bella’ è persino l’immagine d’incubo contenuta in ‘Un lupo
mannaro’, dove la creatura infestata dal demone della licantropia, o piuttosto
dal disturbo psichico, assume i contorni di una fiaba paurosa e struggente,
accorcia le distanze dell’Io, che guarda attraverso la mente, e di un detrito
di superstizione che perfora e rimodella la visione della notte di luna. Lo
sconcerto, il brivido, l’inaspettato e la grazia che s’irradia livida da questi
versi s’incontrano al bivio della rimembranza lucida e allucinata, dello strale di percetto emotivo, e del fulmineo
pensiero.
Nel capitolo dei
ritratti si alternano figure che non si esita a definire ‘emblemi’, che sono
custoditi nel cuore del poeta e che, a loro volta, ne custodiscono il cuore:
riacutizzano sofferenza e la alleviano; sono ragnatele di fili emozionali che
non è possibile disfare, che non è possibile fingere di ignorare, perché in
ciascuno c’è una cittadella, porzione di storia, leva di eventi. Protagonisti
interiorizzati, pertanto indelebili, ineliminabili, scrutano i territori della
poesia, della quale è medium Iannarone, e bisbigliano fino all’illuminazione di
una verità che è anche alchìmia, e scienza stupenda: la poetica, quella
autentica, quella che si libra sulle ali dell’allodola immortale, raggiunge
l’apice e l’abisso, prodiga di doni e di sostanza, non ultima la capacità
taumaturgica della purificazione, della catàbasi. Tra tutti si stagliano in
sublime prepotenza quelli del genero sfortunato, rapito in un lampo, che lascia
impreparati e sbigottiti, dagli artigli predaci, implacabili d’un’aquila, la
quale tuttavia ascende al paradiso dei giusti; della nipotina Elda, fiore di
pesco, minacciata dal suggello dell’angoscia alla perdita del papà, ma
vittoriosa sull’attentato delle ruote dentate della vita; quello dello zio
Michele, al quale Gennaro deve l’innesto del seme ineffabile dello ‘spirto’
creativo, dell’affinamento della sensibilità culturale, principale e felice
responsabile di poliedrici germogli, doviziosa pietanza, tangibilità al sistema
esistenziale, familiare e quotidiano. Alla poesia stilnovistica di Guido
Guinizelli Iannarone porge il destro, con gli elogi palpitanti a madre e padre,
in un colloquio che già ebbe inizio nel poemetto d’esplicita tensione ritmica
‘Il Destino e l’Anima’, toccante (in forza di ragione e sentimento) exitus nel volumetto d’esordio già
maturo, già sferico “Vivere balenando
in burrasca”: “Io voglio del ver lo mio
padre laudare…”; “Io voglio del ver
la mia madre laudare…”. Nella lirica ‘Nel Santuario’, il poeta prelude a
‘Invocando padre Michele’, testo complementare che troveremo nell’ultima
sezione ‘Vita’. Un senso di sacralità carismatica fonde i due elaborati in uno
spaccato impressionante, che pizzica le corde dell’estatico e del turbativo, in
un mélange lievemente ipnotico racchiudente pulsioni contrastanti e binarie,
sospensione, attesa, frisson di
adorazione e vago timeo, fede e
attimo di riflessione ribollente e congelato, che picchia piano all’uscio delle
nicchie ancestrali. L’immagine è poderosa, intensissima, eleva e schianta,
conforta e imprime soggezione: “…mille
ginocchi a terra strisciano fino a sfiorarlo,/sperano che guarisca i mali ed
asciughi i pianti.” Spesso fede ed ebbro trasporto s’incrociano, per un
attimo negato evocano delirio e blasfemìa, antropoteismo ed esportazione di
atavici simboli incarnati, una leaderizzazione
di trasferimento piena di fascino e di monito a non cedere alla pur larvale
antropolatria, alla santificazione del symballo
greco, la commistione tra divino e profano, tra civilizzato e tribale. Colpisce inaspettata la terzina “Diletta Leotta”: che ci fa,
si chiede il lettore, un personaggio mondano, un nuovo simbolo erotico dell’usa
e getta televisivo, che ha visto alternarsi meteore e corpi celesti più
duraturi, dacché la TV si è inserita nelle vite dell’italiano medio,
divenendone l’intrattenimento favorito? Certo, il fisico della conduttrice
catanese colpisce l’immaginario; oltretutto la Leotta, laurea in legge ed
esperienze presso Sky Sport (Sky Serie B e adesso Goal Deejay) non è solo una
Barbie maggiorata, è a suo agio nella conduzione e molto attenta ai
suggerimenti dalla cabina di Regia, per cui ha contribuito a dare élan alla prima serata del festival di
Sanremo 2017 su Rai 1. Una entrée
sontuosa, nel sontuoso abito rosso (crop top e gonna ampia, dallo spacco
inguinale) dell’atelier fashion
Alberta Ferretti. Iannarone non è cieco all’erotismo, anzi lo nobilita
letterariamente; fa di più, perché dalla Leotta preleva il femminino per farlo assurgere a simbolo, ad emblema, a un
eclettismo dell’entità emotiva; quel femminino goethiano esaltato nel V atto
del Faust (“das Ewig-Weibliche zieht uns
hinan”/ “L’eterno femminino ci trae
in alto”); di colpo Leotta non è
più uno schianto di donna sul palco dell’Ariston, ma delle donne assume le
virtù e le esprime: quelle di compagna che accoglie e custodisce; di amica che
consiglia e conforta; di madre che perpetua e alleva; di amante che dispensa la
gioia; quindi è della donna in generale
che il poeta parla, e dà così dignità, spessore e splendore all’altra metà del cielo. E all’erotismo
concede raffinatezza, ritagliandolo dal fruscio malizioso della stoffa rossa.
La donna come inno alla vita, che
riassume i significati e i rimandi di tre chanson
in gara (Ora esisti solo tu, cantata da Bianca Atzei; Il diario degli errori,
eseguita da Michele Bravi, e Che sia benedetta, della Mannoia).
Fremiti biothanatici
si dipanano oltre le cortine del sipario Vita, dove consapevole o
semi-inconsapevole, il poeta assume in sé versificatore i contrassegni di una
filosofia sull’ambivalenza tra istanze di conservazione e di destrudo, tra appagamento e
insoddisfazione, premonizione e accettazione: tutto quanto si coglie in un
clima di pacata saggezza, che pialla rancori, aggressività, piccole ed esplose
o latenti frustrazioni, che toccano a chiunque sia chiamato ad affrontare
l’avventura terrena. Anche qui si deduce l’impasto di onorevoli compromessi e
di sfogo di quel che non si comprende nel totale: Iannarone pare far suo
l’assunto kantiano, parafrasandolo sottilmente nell’intero contesto dell’opera,
secondo il quale si dovrebbe dichiarare, almeno a se stessi, in interiore homine, l’incapacità di trovare qualunque essere in grado di
reclamare il privilegio di oggettivizzare lo scopo finale della creazione, e
quindi di non incorrere nell’empio peccato di hybris; cionondimeno, in linea con la steineriana antroposofia,
egli è stupefatto, incantato spettatore di fronte all’audacia del genio umano,
che tenta dai precordȋ di riscattarsi da nevrotiche aberrazioni e defezioni
egotiste nell’azione individuale e sociale. ‘Confido nell’uomo e diffido
dell’uomo’ par che dica, facendo sua la millenaria lezione. Raccomando la
lettura attenta di ‘Ciliegio d’inverno’ e di ‘Cupio dissolvi’, ‘Follia di una
poesia’ e il varco rivelatore de ‘I voli di primavera’; la riflessione cede
dunque il passo alla meraviglia del mistero:
“…non vi è/più alcun arpione che mi
ancori a questo mondo, se m’involucro in corteccia d’albero potrei volare.”
La Vita è bizzarra, può riservare approdi fortuiti, impensati. Può consegnare
mente e cuore all’Elicona e ad Erato, può affidare alla mente e al cuore la
‘cura’ dell’allodola immortale; e mente e cuore, profusi in univoco, comune
impegno, donano soddisfazione all’intelletto, lo pacificano. Iannarone convoca entrambi, mente e cuore, affinché
nella stessa arena fungano da
reciproco stimolo per il daimon ispirativo:
“…mente che sonnecchi sulla bianca
pagina/ estranea non rimanere a tale nuova arena…Vigila discreta…sii per lui
guida sicura come nella danza,/ grata dell’armonia del musical volteggio.”
Che la poesia abbia
in sé un fuso profetico è crisma, assodata convalida; non si tratta di snobismo
letterario né di arcano ammanto misteriosofico; ha certo una segreta valenza
nel sinuoso movimento di osservazioni, emozioni e soventemente distacchi
dall’ego e dal contingente; mai è un guardare indifferente, è un punto caldo
che si colloca tra appartenenza e disappartenenza, e quando lo straniamento lo
permette, scosta il fogliame dell’abituale, del consueto, e consente
un’occhiata sull’imprevedibile, insegna ad avere, gradatamente, dimestichezza
con l’esercizio abile di decrittare, almeno per sommi capi. E allora la
conoscenza si fa raggiungibile, e può intimorire, certo, come un destino sicuro
letto nei fondi di caffè da un preveggente che non turlupina e non mistifica.
Anche questa una non secondaria manifestazione della Musa. Il poeta ne è precosciente
nel ‘Santuario del pianto’, in ‘Sfinitezze’, in ‘Piani Inclinati’ e
nell’apodittica ‘Malaise’ (“La rovina che
non assorda, che è vicina/ e non scuote, certo nell’anima cammina,/c’è un
presentimento d’esser sulla china”).
“È PER TE”: raccolta di vicinanza, di luoghi remoti strappati
all’esilio e restituiti al vagabondaggio di un dolce rimembrare nella grandine
dell’insonnia compositiva; raccolta di scorci sereni o crepuscolari, in un
desiderio confidente di raccoglimento; il tuffar le mani nei cristalli liquidi
di un fiume e trovare fra le dita inestimabili pagliuzze d’oro.
ARMANDO SAVERIANO
Immagini d’Olimpo
Ti guardo da
queste pendici e sei pur alto, imponente,
talora ti coronano di sera nuvole di bambagia,
riflessi
di un rossastro bagliore su di esse si rifrangono come
da un cratere. Mi pare di veder Vulcano che un fuoco
sta attizzando lassù nella fucina, chissà perché
lavora
ancora. Inutile agli uomini fu il suo colpo di
martello
che un dì liberò Giove da quel tremendo mal di testa
e scaturì Minerva dal divin cervello, fiera e
guerriera,
per giudicare, non per insegnare al mondo la ragione.
Nostalgia d’Olimpo
Questo
vento che carezza degli alberi le chiome
scivoli
giù fino a noi e ci sussurri che sul monte
vergine ha rapito il respiro
degli dei che erano là
riuniti,
l’un con l’altro con lietezza a banchettare.
Noi
ne gioiremmo, colmata l’assenza di millenni
ma
crucciato il pensier dubbioso che i divini più
non
sian quaggiù discesi sol per nostro disamore.
Visioni
d’Olimpo
Se dall’alto ti investe una
travolgente ventata non
pensare
che sopra alberghi ancora Eolo. Deportati
furono
tutti da quest’Olimpo allor che una grande
Croce
con forma di aeroplano se li caricò a bordo
ed
iniziò per dimora ignota un volo di sola andata.
Nulla
più s’è saputo del santo pilota e del velivolo.
Da
allora alcuna parvenza di divinità si è più vista
che
dei suoi luoghi un tempo cari avesse nostalgia.
Così stiamo,
mentre gli occhi scalano questa costa
del vergin
monte con nostalgia d’antico misterioso
bosco per
ascoltare la siringa lieve del caprino Pan
nelle folte
macchie, veder di improvviso pastorello
il volto e un
sorriso, che sia guida col silente passo
ad una fonte,
dove risplenda un lavacro di cristallo
e tremuli
l’acqua donde una ninfa è appena emersa.
Frutto di noce
Un guscio di noce ci ha
imprigionati, siamo
solo un frutto di pelle amara e
corazza scura,
ma racchiusi da una fiaba che va
al suo finale.
Intramontabile amore
L’amor perdura e nella casa di via Tuoro ancora
ci ragiono di quando scampanellava alla mia vita
solitaria che si ricaricava di peso al mio risveglio
ed urgeva della gioia che all’uscio si appressava.
Or ch’è di
anni ormai maturo, sempre mi ricorda
di com’è nato
dalla sua forza uno sbalordimento
e mi va ripetendo che non può perdersi una fede.
La stagione degli amori
Non chieder di
sapere dell’essenza dell’amore,
della ignota e
inconoscibile forza che governa
ogni spazio
interstellare e il mondo intero che
le sue
creature moltiplica in tante varie forme.
Forse loro
conoscono l’origine di tale legame
irresistibile.
Si interroghi la luna se mai potrà
staccarsi dal
pianeta che l’attrae, domandiamo
agli uccelli
se cesserà il loro canto di richiamo
nella stagione
degli amori. Che ci dicano cos’è
questa
stagione che agli umani è ignota perché
a
caso avviene unirsi o distaccarsi da chi s’ama.
Muti angoli di vita
Altro di te, di
me e del modo di restare qui
non riescono più a dire le parole. Anche un
odor di cucina sosta nel tuo angolare esilio.
Nel mio pensatoio stagna un universo, cerca
la sua via d’uscita, vuol dimostrar che esiste.
Altra vita
fuori strepita o naviga su pietrisco.
Nella lontananza
Io
parola non so più dire di questo amore
che
declinando risorge e risorgendo nella
lontananza
non declina. Dalla mia collina
talora
dal sole vedo scavalcato l’orizzonte
nel
punto ove il gran monte ti sovrasta che
da
poche ore di lui già sei priva e alla vita
solitaria,
al pensier della cena ti riconduci.
Quanto
accorata, tenera e vicina è l’anima
mia
alla tua se una mestizia in te mi figuro
e
mi cruccio ch’è duro da te scompagnarla.
Cabala della vita
Non chiederti quanti anni vivrai né studiar la cabala
per sapere del
momento in cui dovrai uscir di scena,
come se la
nostra vita fosse una commedia che duri
quanto prevede
la pitagorica tabella il cui inventore,
nell’insegnare
che tutto è numero, non si avvide che
la sua
dimensione umana l’aveva ridotta a una cifra.
Cani randagi
Scomparvero i cani randagi per un
certo tempo
dal mio borgo natio, dopo che un
bravo Pretore
ordinò alle guardie municipali di
ucciderli tutti.
Si disse di 47 cani e di guardie
che piangevano
nell’affossarli. Ora di nuovo se
ne vedono tanti
e sostano presso la casa di una
prodiga signora.
Sono tranquilli, soppressa che è
stata la Pretura.
Culto dei cimiteri
Peccato che sia passato
ottobre
ed io non abbia fatto in
tempo
a morire! Mi son mancati
fiori,
lampade votive e
chiacchierini
salotti di cimitero, tanti
gossip
perduti e tante ipocrite lacrime.
Che
peccato!
Estati sofferte
Mai un’estate
senza privazioni,
se a ogni
gioco di fanciullezza
posero le
frontiere, e alle corse
in bicicletta
i percorsi obbligati,
e finanche gli
incontri d’amore
eran pedinati,
sì che si addestrò
la mente alle
strategie e divenni
una primula
rossa che nella sera
anche due baci
riceveva in dono.
I colori della vita
Stasera il giallo mi ha arrecato gioia, chi dice
che i colori hanno un significato erra, il rosso
amore, il verde speranza, oggi è stato l’odiato
giallo, invidia o gelosia, a serenarmi il cuore,
quando è rimasto sempre uguale sulla striscia
del keturtest: non la dulcedine nel mio sangue
ma l’amaritudine, che pare al mio verso giovi.
Incubo d’una metempsicosi
Io mi sento un gran vermicolare che circola
nel cervello, sì che talvolta ossessivo ritorna
un verso, un tema musicale, un detto strano.
Mi dice un medico amico ch’è aterosclerosi,
io penso che nel corpo mi è entrata l’anima
d’un pazzo con il cibo di verdure concimate
dai vermi in terre coltivate presso i cimiteri.
Se la mente è sol materia raffinata e se tanto
piccole, invisibili sono le sue molecole, non
mi è gradito il pensare ch’io ripeta un suono,
una parola perché ospito voci d’anime morte.
La vecchia auto
Brilla il pelo al ronzino lustrato dallo zingaro.
Io non son gitano, nomade di luoghi e tempi,
ma un cavaliere vecchio che dovrà continuare
il trotto sopra giovani destrieri per la serenità
del viaggio non lungo che a lui resta da finire
e non temer che il cavallo s’azzoppi e manchi
uno scudiero o antiche taverne per un cambio.
Nell’inoltrata sera
Cosparge il tramonto questa vallata di oscurità,
un regolare, monotono progetto che finalmente
invia le auto al raduno sulle stesse serali strade,
dove incolonnate si conducono all’imbocco dei
lor pollai come ritardatarie galline, mai stanche
di starnazzare ancor nell’infernale giorno; nella
notte un sol clacson insiste come chicchirichì di
galletto che vuol svegliar l’amata dai suoi sogni.
Onda d’amore
Sto male, mia cara amica, i giorni sereni
son solo un’apparenza, in ognun sentore
di qualcosa che incomba e mi sommerga.
Che non sia quella grand’onda di piacere
ch’è pria di gioia e poi vanisce in spuma.
Pompieri
al cimitero
Nel cimitero pompieri come per un’alluvione,
non di lacrime ma di cadaveri in liquefazione:
è entrato là, e per sempre, un duro
procuratore.
Sogni di caccia
Nella mia sagoma dietro la tenda
nella notte
il cane dalla cuccia vede il
padrone ed eleva
mugolii di impazienza. Sono
soltanto ombra
di cacciatore, mi spiace di
ricambiar con eco
di sbadigli, ma sognerò per lui
voli d’uccelli.
Alla neve
Sei
venuta, hai portato una gioia di panna,
giustiziera
di colori tu copri ogni bruttura,
pietosa
del tetto vecchio di una casa scura,
del
cagnolino morto che riposa sulla strada.
Autunno per amore
Sole che rotoli lungo il
costone del monte,
quando
autunno accorcia la luce al giorno
che
costruisci tu hai vergogna di tal figlio
che
brume di mestizia sparge sugli umani,
e
ti scusi col dire che non è stata colpa tua
se
è nato sì degenere, ma della madre, che
s’inclinò
quando lo concepì: fu nella notte
di equinozio, stanca di luce
dormir voleva,
per
amor socchiudesti le persiane del cielo.
Il casolare a Chiaira
Vecchio
casolare di contrada Chiaira, di pietà
t’avvolge il
mio sguardo, ed il pensiero coglie
nelle folate
di vento fra i rinsecchiti noccioleti
la tua lunga
storia di una difficile ma operosa
vita. Ha
lasciato i segni il forno a legna su cui
sta scritto di
Nina che cucinava, e ora conduce
la vita
lontano da questo deserto luogo; anche
il piccolo
Tommy lasciò una cuccia di fradice
lamiere per il
vano rifugio sotto un cespuglio,
dove illuso di
schivar la cenere s’era nascosto.
Le stagioni della luna
Strana luna, anche tu hai le stagioni, paiono
tante ma ti manca la primavera, perché mai
tinta da colori nuovi come in tempo di festa
ma sempre uno stesso languido giallo-verde
vesti, e con monotonia ripresenti la pienezza
di estate per una sola notte, poi dell’autunno
un’esposizione di falci, falcette e semicerchi,
non sei mai felice, forse sol quando ti rinnovi
hai i sorrisi di primavera dove rimani occulta.
Luna solitaria
La luna chiama
talvolta attorno a sé leggere
nubi a strati
fino a coprire l’intero ammanto
di stelle, per
restare nel cielo unica bellezza,
da luminoso cerchio cinta, appagato il volto
solitario che non s’avvede di velato chiarore.
Così la sposa che indossa sfavillante vestito,
lieta di quanto si miri il suo bianco strascico,
non sa che perde il suo bel viso di splendore.
Marzo
Impaura la terra il tuo passare e del germe di
stagione
che hai in seno vi è insicura speranza, dei tuoi
fratelli
il più strano, terzo psicopatico figlio di padre
troppo
severo che rinnegar vorresti mentre ti avvince ancora,
e una triste allegria tu lasci trasparire. Ma se un
raggio
del tuo sole squarcia una nuvola, nei nostri cuori
brilla
una luce più bella, così come dopo un lacrimar
versato.
Nuvole passeggere
Sono giunte
a passeggiar nel ciel deserto
per romper
la uniformità della sua platea,
bianche
leggere, a batuffoli o sfilaccicate,
talora son
liete compagne della lenta luna,
che sembra
scuotersi dalla sua immobilità,
ma non può tenere dietro al lor
passaggio
e
dipingendole d’argentei riflessi le saluta;
un ammanto
di stelle integro si ricompone.
Un vecchio mulino
Ti ho riconosciuto dopo anni, antico
diruto mulino ad acqua, la boscaglia
ti ricopre la facciata d’uomo vecchio,
silente, con una lunga e sporca barba.
Doveva esserci la gran
ruota, giravano
le allegre pale di quella
giostra di così
lontani tempi tra le
infarinate massaie.
Ora il velo impietoso ha steso il tempo,
soltanto il fiume non ti ha
dimenticato,
nenia è il suo gorgoglio sul tuo letargo.
Cattiverie di bambini
Lasciai ai
giochi d’infanzia i compagni di scuola,
alla noiosa
mosca cieca, e m’accodai ai più grandi
e furon nuovi
divertimenti far suonare le campane
con i lanci di
una fionda e lo spiare sugli alberi un
caldo nido di
passeri da catturare ancora implumi,
e tendere il
laccio alle lucertole cui tagliar la coda,
sottrarre la
provvista ad una formica che affaticata
rientrava a
casa e ridere immaginando la sua collera.
Doppia visione
Il cattivo male non c’era nel mio
capo
che vedeva
doppio il Corso Emanuele,
uno reale
che si snodava diritto, basso,
un altro che
innalzava la sua luminaria
dove posa
Chiusano, sul monte Tuoro,
passando per
il campanile del Fanzago.
Mai vistomi
così radiante colori doppi
nel duplicare
questo mondo col terrore.
Per te schioccarono
parole e caldi baci,
ma tu guardavi fisso oltre il
parabrezza.
Parvemi doppia anche la nostra
felicità,
io me l’appallottolavo tutta la mia
gioia,
tu come tuo
costume serena e silenziosa.
La chiesa del Purgatorio
Nella chiesa del Purgatorio del mio borgo c’è ancora
il bigliardino colle manopole e i giocatori blu e
rossi,
che noi ragazzini attraeva in cambio di una mezz’ora
di catechismo; si giocava in quella chiesa, allor
detta
dei morti, e non sapevamo che i pavimenti celavano
i cimiteri delle confraternite: quattro stanze coi
sedili
di pietra a buco contro i muri, dove scolavano i corpi
di defunti per ridursi scheletri; si recitava
catechismo
e ignoravamo che spopolava di giovani il
natio paese,
sempre più sedie vuote e tante voci assenti in ogni
casa.
L’addio al cimitero
Ricordo la tua mano destra che batteva sulla pietra
della tomba e lacrimando con fievole e rauco grido
due volte il suo nome ti strozzò la gola, e invocasti
di non voler tornare; era tempo di estate, d’intorno
si spargeva il bianco delle
lapidi disertate d’anime,
solo uno strazio si udiva, di te,
lapide già disabitata.
Montefredane
Progetto gualcito d’una casa nel
verde, sogno
non compiuto, ancor traspare da te
l’illusione:
fresca aria
di campagna ridente, corse sfrenate
sui vialetti
squadrati intorno a un mare d’erba.
Pareano
vicine libertà e voglia di eterni giochi
del
fanciullo che nel sonno contava le ore alla
notte perché
non tardasse a riprendersi il buio.
Na
chioppeta ‘e settembre
Sta chioppeta forte e fredda rinto settembre
me ricorda no mappino ‘e patremo, quanno
pe’ mme ‘ntrattené a gghiocà, tornav’ a casa
ch’aveveno fenuto re mangià. Maeva assettà
lo stesso a ttavola, e puro co’ lo chianto, e
io
cchiù chiangevo e cchiù penzavo: adda tornà
buono patremo comm’ torna ‘o sole, e co isso
puro lo juoco bello, bello com’a patremo mio.
Only You
Tanto adorai
i Platters che per gli amici Only You
divenni e
cantavo dedicandoti You are my destiny.
Ora che la
passione si dichiara nello stesso idioma
su ritmi
infernali, penso alla musica che da celesti
sfere scese
a intonar l’amore pei giovani ventenni.
E mi
sovviene come restai fedele a quella melodia
pur quando
rimase in silenzio e con la veste lacera,
finché Only You la portasti via mentre lassù
salivi.
Piante di basso fusto
O rigoglioso pino che ti ergi con la superbia
di una rotonda chioma, e tu pioppo svettante
che spingi rapido lo sguardo su per il tronco
fin su nel cielo, il cuor distolgo dalla vostra
aristocratica altezza, che pretende egemonia
dettare nel mondo vegetale. Io non son nato
pino, né pioppo né platano, mi son ritrovato
in famiglia cogli uliveti, con fronde dimesse
di malinconia, ho amato le siepi più spinose,
frammiste ad arbusti addossati a muricciuoli
dove fui sorpreso dal sapore di bacche rosse
o mi attrasse soave profumo di biancospino.
Ricordo di un cucciolo
Eri un cucciolo rannicchiato
nel cestino, quando
dal sonno rapido sortivi con
scodinzolio misto di
impazienza e di felicità e
presto nell’aia uscivi ad
annusare in tutti i piccoli
cespugli, a correr dietro
ai colori delle farfalle.
Ignoravi allora l’albeggiar
del bosco, fiutar la
quaglia, il fruscio di una lepre,
il colpo del fucile e
l’imperiosa voce del padrone.
Così hai imparato ad
obbedire, ad accettare anche
in un bel giorno una triste
cuccia. E quando si ode
dalla tua solitudine un
fievole e lungo piagnucolio
il rimpianto pare del
soffice cestino. Non ti rivedo
però mansueto bretone,
ridotte hai coda e allegria,
con la tua irruenza nella
caccia hai dissuaso anche
l’amore, che volea
specchiarsi in occhi di dolcezza.
Ricordo di un foulard
Se rivedi il gesto che hai
guardato quel mattino
come l’inizio di un tempo che
aveva una durata
incalcolabile tutta sua, ti prego
allora di pensare
solo a un riquadro di stoffa di
colore giallo-nero
che in quell’attimo si spostava
da mano a mano,
il passato una secretava, un
futuro l’altra velava.
Un delitto d’onore
Sul corpo perfetto di alabastro una simbolica ferita,
ignara d’un calice pieno d’essenza di rapido veleno,
bevve avidamente, fino in fondo, quello del piacere.
Un lupo mannaro
Fu in una mia notte insonne che
m’accostai
all’ultimo balcone e lo udii
prima di vedere
la sua sagoma, che salendo dal
vico ululava
fin dalla prima rampa: vestiva di
blu l’uomo
che sbucò fuori dall’oscurità
sotto la luce di
un lampione, svoltò verso la
piazza e a ogni
sei, sette passi improvvisamente
si fermava,
lanciando un nuovo lungo urlo
verso il cielo
dove la sua luna non era apparsa
quella notte.
A Roberto
Hai sognato tutta la notte un canto e una chitarra,
ascoltando la tua voce e le sue corde. Sul tuo viso
il mattino ha spalmato un gesso dal color d’avorio,
come calco per raccogliere la tua visione estasiata
e lasciarla intatta, senza risveglio, così elevandoti
nei celesti
luoghi fra orchestrali angeliche schiere.
A un’amica cometa
Ad
una stella cometa tornata dai brillanti
suoi
mondi son venuto vicino, m’è parsa
felice
della sua orbita ovale; lei non ama
il
cerchio rotondo col suo punto centrale.
Son
stato provvida farfalla, non mi sono
accostato
per niente alla lampada ardente.
Girando
intorno ad una solitudine astrale,
s’è immaginato in cielo il mio svolazzare.
Alla nipote Elda
S’è concentrata nel fragile sorriso di te adolescente
fievole speranza che l’ineluttabile passaggio che ci
attende coi rovi che in pochi mesi l’hanno infestato
graffi caviglie e mani, ma non laceri il nostro cuore,
quando il gelo arresterà la mano su corde di chitarra.
Chissà se consolerà melodia d’oboe o viola d’amore.
Diletta Leotta
Il Festival
volgeva al termine quando hai lasciato la scena, impallidite le canzoni d’amore
al fruscio del tuo vestito rosso, tu per pianti di gioia, per un porto sicuro,
per un inno alla vita.
Mia madre
Io voglio del ver la mia
madre laudare
e assomigliarle la rosa in
petali e stelo
di diversa linfa: una
vivacità dei colori
in bellezza pudica, una
puntura di spina
poco dolente, ma che
trapunse di ortica.
Mio padre
Io voglio del ver lo mio padre
laudare,
e assomigliarli la quercia e il
cipresso,
se contrarie pretese e lagunosi
spiaceri
non ne scossero il tronco, che
alle idee
mai asservì la ragione; se
avversa sorte
il suo viale gli travisò in un
finale nulla.
Mio zio Michele
Pur soffrirò della tua dipartita, m’investirà di certo
la memoria dei tanti decenni di coesistenza in vita:
l’eretica
cultura, nuova, che porgevi all’attenzione
del tuo
maggior fratello, me pur lambiva e il seme
raccolto, ignaro tu e lui, fu embrione di germoglio.
Nel Santuario
Un canto sacro s’eleva in coro dalle navate, fa
ala la folla assiepata al passaggio di una veste
talare bianca, misteriosamente un’ombra cupa
discende negli animi ed estatici volti trasfigura
in coscienze alienate da sé e pure in sé rivolte.
Rincuora l’Ostensorio dell’ “Uomo di Galilea”,
mille ginocchi a terra strisciano fino a sfiorarlo,
sperano che guarisca i mali ed asciughi i pianti.
Un’amica di sentimento
Mi intrigò una piacente vivacità appena io vidi
la tua alta figura, il biondo dei capelli. Il senso
dell’incontro cambiò di colore, ricordi, quella
sera al teatro
con l’uomo, la bestia e la virtù; ti
rivelasti
donna di sentimento, quando cogliesti
da un dettaglio un diverso mio innamoramento
e pur se il pensiero di te accantonavo eri felice.
Arcano per te
Chissà che solo sostando nei tuoi lontani cieli
possa palesarsi a te quella mia essenza arcana
che tu pensi voglia tenere gelosamente chiusa,
io son certo che rimarrai confusa quando della
mia vita mostrerò a te dall’alto le orbite strane,
irregolari, oblunghe, che solo il nostro pianeta
sa disegnare per taluni degli umani che privati
furono d’ogni talismano e destinati alla bufera.
Borgo di fine agosto
Al
cominciare d’autunno hanno toccato
terra le
foglie che indugiavano in danze
sul ramo
alto del platano finché il vento
ha donato il
volteggio finale alla lor vita.
Soltanto
questo borgo non è sì temprato
come il
platano al mutare delle stagioni
e ogni anno
s’attrista del dissolversi dei
vacanzieri,
figlioli che gli appartengono
come
all’albero le foglie, quando li vede
ripartir
sereni per recuperare, pensa, una
monotona
vita ma si rassegna alla eterna
legge che
ciascun torni in sé nella quiete.
Ripensa
all’inverno un poco dimenticato
e s’adopera
solerte a travagliar legna nei
sottani,
rielaborare deve la sua solitudine.
Canti di blues
Furono mille miliardi i passi del gatto nero
che con silente e indolore artiglio graffiava
le tue carni, e dentro te frugava per tacitare
le melodie di chitarra che coprivano stridii
di civette su tegole vicine. Malefici furono,
ma nessun notturno uccello ti ha interrotto
i canti dei blues con cui nel cielo sei salito.
Capricci di tenera età
Frequente la voglia di stender l’età nel letto
ove finalmente si tacita la vecchiaia. Torna
però il pensiero
all’allegria d’una età antica
ed il cuor freme al richiamo del natio luogo.
E’ testardo,
non capisce che da solo non può
andare, lui
che è rimasto un tenero bambino,
e non vi è più
la madre che lo guidi nei raggi
del sol
morente a seguire la discesa o risalita
delle auto su
per le anse avvolgenti il monte.
Ciliegio d’inverno
Fra poco più d’un mese tornerai a fiorire
per vivere di nuovo la breve tua bellezza.
L’ornamento
che la folta chioma di petali
bianchi ha donato a un mio libro di poesie
non inorgoglisce la linfa degli spogli rami.
Son pagine
sofferte di solitudine d’angolo,
di eguale
isolamento, a te però indifferenti.
Cupio dissolvi
Eppure il ciel splendente timore incute ch’è fievole
la speranza di salire lassù per godere di luce eterna,
gran paura grava invece di precipitare nel buio fitto.
Possa dissolverti, anima, come aneli, nella galassia,
polvere luminosa sei, come lei pulviscolo d’argento.
Estate 2017
Or partiremo in quattro per il mio borgo natio,
ma non siam di meno che negli anni trascorsi,
quando tu ritornavi alla città e i nostri pensieri
sol ti lambivano; quest’anno siam raddoppiati,
è strano, a ciascuno di noi tu cammini a fianco.
Follia di una poesia
Io vorrei che non vinca il furore e mi trascini fuori
da questo cantuccio dove mi irretiscono sconnesse
passioni ma tuttavia legano la vita senza che sbalzi.
Non temo la follia che m’accompagna e mi è guida
di sghimbescio da sì gran tempo che è divertimento
quando mi spinge in alto nell’iperuranio ed attende
che ricada estatico, e cosa io abbia visto le racconti.
I voli di primavera
Primavera, quando arrivi ogni albero si distende
verso il
cielo, innalzando le braccia con le punte
delle foglie
che si fan più aguzze, par che voglia
sollevarsi da
terra, quasi che non abbia più radici.
Stagione mesta
senza questa tanta voluttà per me
che sono rattrappito alla sua venuta, ma non vi è
più alcun arpione che mi ancori a questo mondo,
se m’involucro in corteccia d’albero potrei volare.
Il ciliegio rifiorito
Or sei rifiorito, con le ciocche bianche
anche il chiaror lunare tu potrai sfidare
e opporre la tua bellezza alle stelle che
non conoscono nessuna primavera. Ma
non ti inorgoglire, mio ciliegio, quando
sulle foglie s’accanirà acqua e vento, la
fissità ambirai, priva di gioie e di dolori.
Il fiume della vita
Si allunga sempre più il mio
passato, e talora che
lo sguardo gli rivolgo ripenso al fluire che recava
in seno il germe di un florilegio che si apprestava,
di una falce poggiata all’uscio, pronta e silenziosa.
Ora v’è la coscienza del sentirmi fiume che scorre
nel breve tratto che ancor separa dal gran cimitero
delle marine acque, dove di noi non più gorgoglio
si sentirà, ma lo scambiarsi dei racconti di viaggio
che raccogliere potrà solo una immensa biblioteca.
Il piombo della notte
E’
l’ultimo saluto di buonanotte che apre le cateratte
alla
colata di piombo che in angoli d’anima s’effonde.
Mai si
inaridisce in quest’ora la sua fonte e il silenzio
della
campagna, lo strisciar di ruote su deserte strade,
la condensa
nelle imponenti forme di piramidi egizie,
icone
di eterna solitudine che dal mondo mi traviano.
Il silenzio della neve
Il silenzio è in me di casa e la neve si sente
sminuita,
delusa che non mi raggeli la sua misteriosa voce che
il cuor non ha ascoltato quando gli si è posata dentro
con il bianco passo di mille gatti ladri. La sua
grazia
gli è parsa simile all’arrivo della scrosciante
pioggia,
o di grandine aggressiva e furiosa che impauri. Altra
dura tempesta l’ha investito lasciandolo poi di
pietra,
sorda agli eventi agitanti l’aria come ai silenti la
vita.
In morte dello zio Michele
Duro passaggio tra voci di fuori di avversi filari,
una ridda assordante le voci di dentro e due volti
dal cielo discesi a squartarmi non hanno fermato
i piedi dolenti e il passo gravido di una memoria
di tempi lontani fino al corpo per sempre disteso.
Molto distanti
stamane i rintocchi della campana
di funebre messa, di piombo incatenata la mente.
Invocando padre Michele
Cesserà davanti agli occhi la
danza di piccole
mosche, ecco il biancore puro di
lenzuolo, un
limpido cielo vicino, a pietà del
corpo mortale
che sulla scienza ha vinto e la
deride; o anima
mia reclama a te accanto, come
mai nella vita,
chi potrà spargere su quel cielo
i più bei colori,
non chiedere di veder le stelle
ma l’arcobaleno
che si disegni traforando poche
nuvole stanche,
nel suo sorriso spicchi del Sole
ancora lontano.
Juristen bose Christen
Uomo di legge in verità io fui, tanto lungo tempo
ch’è passato dal materno grembo che di religione
incredula del giudizio divino inoculò semi testati
in apparenza per costruir magistrati, una struttura
intima diversa era nascosta in una parte invisibile
dell’anima mia e mai n’ebbe sentore la coscienza:
non so spiegare perché in me di Gesù così accorto
occultamento, ma prodotto siamo dell’educazione
e sia lode ai maestri che hanno l’orma sì impressa
che io la seguii per una vita fino a una improvvisa
ora di dolore, che agli occhi aprì la via di salvezza.
La cattedrale della vita
Si stanno accorciando le pedate della scala che discendo
da questa cattedrale della vita dove le funzioni son finite,
ed il mio andar via si sta compiendo lungo un precipitare
di gradini che mi impaura. Solo il coro si sta sciogliendo
ancora nelle note ultime di un sacro inno, forse col canto
vuole accompagnare come con una dolce nenia il veloce
scivolare dei miei piedi e rallentarmi nell’estremo passo.
Nell’età giovane salivo con la gioia di attingere il divino,
al portale lo spirito pronto ardea dall’ansia del
celebrare.
L’ansia del risveglio
Il verde bello
di una sveglia che è ancor muta
brilla di
smeraldo se illumina una cifra d’alba,
la palpebra
già s’è aperta ansiosa a far la spia
se l’ora
indicasse delle tenebre il mesto cuore.
La camicia di
forza della notte carcera la vita
e sequestra
l’inquieto pensier che odia il letto,
pende
sconosciuto l’abito ch’attende l’ultimo
risveglio,
odor di naftalina ancor lo impregni.
La pace della mente
Cuore che i tuoi
slanci domai un tempo,
ecco ora
quanto spazio alle stravaganze,
mente che
sonnecchi sulla bianca pagina
non rimanere estranea
a tale nuova arena.
Vigila
discreta sulle sue movenze strane,
sii per lui
guida sicura come nella danza,
grata
dell’armonia del musical volteggio.
Le stagioni della vita
Era proprio la stessa foglia che ho visto cadere
dal ramo magro e basso del platano che chiude
ai piedi il passo, dove il lungo viale ormai tace.
L’ho salvata dal freddo terreno, era ancor viva
nella mano che sentiva la frescura lieve del suo
poverissimo verde e pietà di non accartocciarla
in una stretta di dita. Io la guardavo e ricordavo
d’averla vista prima, in quella ignota primavera.
Lontani dall’Idra
Non viltà induce
a disertar l’arena ma sentire
sul capo nove
teste roteanti urlare farneticanti
voluttà ed
ognuna con diversa orribile favella.
Saliamo dove
sia silenzio o ci assordi il tuono,
lassù, dove
non cresce il turgor di una pretesa,
ascolterai una
sola voce cantare la nuda verità.
L’ultimo viaggio
Voglio
andar via non qui perché non ricordo più
la
strada da percorrere e ho dimenticato anche le
viocciole
scorciatoie che appresi da fanciullo.
Fatemi
scivolare laggiù sul candido brecciame.
Liberate
dall’erba alta le fotocellule e rimanete
in
silenzio ad ascoltare i battenti delle braccia e
delle
mani robuste di cancello. Saranno gli unici
rintocchi
della campanella del mio dolce vespro.
Malaise
La rovina che non assorda, che è vicina
e non scuote, certo nell’anima cammina,
c’è un presentimento d’esser sulla china.
Mio ridente paese
Mio ridente paese, oggi se li
ingoiava tutti l’anima
i ciottoli bianchi delle tue vie
che scorrevano sotto
le ruote. Le case sorridevano di
vivaci colori, come
fanciulle sbocciate per nuovi
amori, ma un silenzio
si udiva, non i cuori pulsanti
fresco sangue e nuovi
battiti di vita tra questi muri
che si tengono tra loro
stretti sulle pietre d’angolo,
dritti ed impettiti come
soldati che attendono i passaggi di fredde rassegne.
Nobel
compagno
Nobel
fedele, fammi compagnia in questo viaggio
impervio
di balzi e cascate nel mio corso di acqua
temeraria,
fino al valico oltre il quale, in un dolce
declivio,
annuserai acre odor di salmastro, sentore
del
mar vicino; dammi un segnale che preannunci
l’attesa
foce che scioglierà la mia fiumana, stanca
di
essere sballottata senza requie tra aspre sponde.
Piani inclinati
Vedi che i piani inclinati su cui scorre la gioventù
e l’età
longeva hanno i percorsi simili a due scale,
dove le alzate
sono sempre maggiori delle pedate.
Architetto
impietoso è stata la natura, volle render
dura la salita
nella vita e poi precipitosa la discesa.
Di piani di
riposo se pur vi sono non c’avvediamo.
Poesia profetica
Non ti ho scritto per vaticinare, o mia poesia,
eppure tu ora mi appari profetica di calamità.
Hai cominciato a raccogliere dalla mia mano
le dolcezze d’un nuovo amore che meridiane
ore rivestì d’un trittico di versi perché la luce
spargesse su sentiero che agli occhi appariva
senza sbocco per una vita dal già lento passo.
A te, che questi natali avesti di passione, pur
consentii d’accogliere le mie malinconie per
consolare quest’inarrestabile cammino verso
le ignote lagune dell’eternità, ma non volevo
che imbrattassi candor di carta di nera morte,
se non per il tuo autore che l’attendea sereno.
Rive
distanziate
La
lontananza non separa, è opera del tempo se
gli
intervalli erigono allo sguardo alte muraglie,
scavano
gran fossati e mutano un fiume in lago;
tu
chiedi se sia questa l’acqua gelida e stagnante
che
più di tutti gli altri abissi nella vita respinge
e
ti scoraggia, e io ti rispondo che un temerario
cuore
può anche buttarsi a nuoto per traversarla,
nulla
può fiaccare il voler ritornare all’altra riva
se
non il colore tetro che già di lontan si avvista.
Santuario del pianto
Santuario del
sommesso pianto dove
si entra con
gioia ma si ritorna mesti,
colà un maglio
di parole la coscienza
schiaccia e
anche l’Ostensorio appare
come il
flagello che l’anima percuote.
Sfinitezze
Conforta l’annusare odore di bruciato degli sfumacchi
esili, che salgono sfiniti dal focolare per dissolversi in
rapide spirali, or che più non crepitano salti di scintille.
Sereno un vecchio osserva quel lento non voler morire,
solleva la curva sua magrezza e il duolo, alle fiammelle
ripensa che spegnendosi furono di più lieta compagnia.
Sogno in dissolvenza
Alba, impietosa portinaia
del giorno, non
dissolvere il sogno di un
momento felice,
consegnalo intatto nelle
mani della notte.
Villa Cerreta
Ti sei eretta
da sola, son passati decenni, ed eccoti
con i tuoi
lunghi viali brecciati intorno a un ampio
prato verde,
sembri uscita proprio dal progetto che
ancor serbo,
gualciti si sono la carta e il cuore, ma
ti sei
ingrandita, mentre la mia vita dormiva chiusa
in celle di palazzo
ove neanche in sogno eri venuta.
Sei nata pagoda
e nella immagine poco sei diversa
dalla primiera
visione, acconcia e pur di solitudine.
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