Il campanone della Cattedrale
Ti ho riconosciuto da tempo, vecchio campanone
della Cattedrale, grande che sei ti hanno collocato
accanto alla statua di Padre Pio. Per tutti del
borgo
sei solo una campana di bronzo d'antico verde, chi
potrà farcela a portare su nel campanile l'enormità
di tonnellate, ma l'immagine tua, nel dolce
ricordo,
ha già spiccato il volo, suona già trentatré
rintocchi
di gioia nell'animo mio. Giunge bella per tutti
l'ora
della liberazione, gli anni di Cristo hanno
risuonato,
anche dalle lontane contrade del fiume hanno
sentito
il tramonto finalmente più vicino, viva la
liberazione
dal duro lavoro dei campi. Il Signore ogni giorno
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anni li compie per sciogliere dall'affanno, sei
liberato
anche tu, fanciullo, dallo sgradito sonno
pomeridiano.
Evviva, la porta è spalancata e al dodicesimo
scalino
si apre la tua via. Più tardi altra campanella il
Vespro
la Messa a tua madre annunzierà, la casa ora è
pulita.
La danza macabra
Mi sgridavi, se volevo ascoltare quella musica,
temevi forse
che potesse piacere tanto alla Morte da indurla ad affacciarsi
sulla porta della stanza e arrivare fin nel mio letto per donare
l'ultima carezza al tuo bambino pallido, vivace, che accettava
al mattino il profumo dei capelli rossicci del dottore, quando
col capo sul suo petto gli ascoltava a lungo il ritmo del cuore.
Quanto ritmo vitale c'era in quella danza delle ossa dei morti,
quanta sottile malinconia nella livida alba che l’interrompeva.
Estate a Salerno
Non era dietro l'angolo il mio sorriso e neanche il
tuo, o madre.
Solo dopo la lunga fila di votivi ceri, la danza di
tenebra cessò,
scomparve il lugubre ritmo e l'alba lentamente
avanzò, cercava
ampi spazi di cielo, un luogo per rifulgere e
apparirmi più bella.
La luce di un sole abbacinante mi colse su una
spiaggia invasa
da decine di grossi carri armati arrugginiti, ma
distolse il raggio
per non essere ghermita dai sinistri colori di quel
metallo morto
e mi abbagliò dall’onde a specchio del mio primo
mare. Nei bei
meriggi, sul barroccino sgangherato che passava sotto
il campo
sportivo a volte s’abbatteva l’urlo d’un goal,
gioia del cocchiere.
Visioni dell’adolescenza
O pure apparenze della realtà, colte
dall'adolescenza,
perché negli occhi non permane, né dentro
all'animo,
lo stampo che lasciò l'ingenua visione dell'età
felice?
Perché un'immagine indifferente per una mente pura
attende l'ora per mostrare di essere dura
significanza
d'acuto dolore, il volto ascoso d’una storica
tragedia?
Non so dire perché erano seppelliti nei profondi
strati
i fotogrammi di quelle carcasse corrose dalla
ruggine.
Forse in ognuno di noi transita su e giù una
carrucola,
che precipita nei vergini fondali l’apparenza del
male,
che poi riporta alla luce al richiamo di una
emozione.
Il cuore eterno fanciullo immutata vorrebbe rivederla,
una mente ch’ha perduto l'innocenza l’ha
trasfigurata.
Liberazione e morte
O aerei che solcavate il cielo sorvolando i tetti della mia casa natia,
non posso chieder di ripagarmi del rombo di terrore da me sofferto
se l'ammasso rugginoso dei carri abbattuti sulla mia prima spiaggia
fu opera vostra.
O poveri e giovani soldati, imprigionati nel sogno del Mein Kampf
e bruciati entro quelle macchine di guerra, trasformate in un lampo
in vostre tombe, non posso piangervi o rattristarmi per una dannata
vita così perduta.
O ritrovato banco di scuola da cui ho udito parole roboanti di libertà,
soltanto il mio primo sole marino con la luce inorridita dalla
ruggine
mi ha detto che talvolta, nella storia, bisogna pur infliggere la morte
per conquistarla.
Un
sarto
Tu non ci sei più,
Gerardo, ma ancora mi sorridi
con i tuoi dolci
occhi di bue, sotto le lenti spesse
come fondi di
bicchiere. Nel ricordo di tutti v'era
il tremendo sisma,
nel tempo in cui nel campetto
di Santa Rita
accoglievi nella tua piccola sartoria,
piena di stufe,
una compagnia infreddolita, esule
dal solitario inverno di baracca che si confortava
nel calore e nell'allegria del tuo mestiere, nel riso
che suscitavi quando per clienti panciuti o smilzi,
quasi scherzando, forgiavi abiti a pennello. Per te,
Gerardo, accantonavano un po’ la loro vita grama.
Una sarta
Tu, invece, la mia serena sarta
antica,
non trovi godimento nella compagnia,
sembri
una piccola gruccia sulla soglia
di casa tua dove m’attendi, sul
braccio
appesi camicia e pantaloni, e lì
davanti
mostri gli aggiusti perfetti
dell'arte tua
dell'ago e del filo. Non ti è mai
gradito,
nel silenzioso tuo pudore, ogni
sguardo
nella stanza intima. Ancora credi,
beata
te, alla mia e alla tua eterna
giovinezza.
Felice specchio il tuo bianco
inamidato.
Brown
Ricordo
che, bambino, giocavo con Fritz,
e
che piansi quando lo vidi steso nell'atrio
con
un bubbone nel fianco. Accanto a me
anche zio Marciano
in silenzio lacrimava.
Sbiadito era il
ricordo del cane domestico,
quando
tu, Nobel, bretone bianco arancio,
giungesti
dove vivevo i meriggi d'inverno.
Salti
festosi con dolci morsi ai miei arrivi,
ma
ora che più non mi riconosci, una foto
dà
la gioia del tuo scodinzolio di cucciolo.
L'ultimo
cane, forse, della mia vita sei tu,
piccolo
bastardo senza blasoni. Ci separa
una
rete da cui muovi, discreto, il mugolio
di
fame alla tua vivandiera, che nella sera
soffre,
lo ignori, quando di te s'è scordata.
Con
il tuo sguardo sfuggente m'hai svelato
un'infanzia
rischiosa vagar per cibo, chissà
quante
luci di ruote spietate lungo le
strade.
Ora scorgo nella profondità degli
occhi tuoi
la pienezza di un cuor di cane, che
la specie
umana che nel creato mena di sé gran
vanto
mai ha posseduto: l'infinita
capacità d'amare.
Tommy
Mi dicesti di aver visto un piccolo cane fulvo
passare rapido nel viale, poi dileguarsi con il
cancello chiuso, forse per un varco nella rete.
Mi venne invece in mente il vecchio Tommy,
è stata forse l'anima sua ad affacciarsi appena
per guardare i cani di famiglia, quelli di razza,
portati dopo la sua morte in un mondo nuovo.
Ma la cuccia era pronta qui anche per lui, che
non ha mai chiesto nulla. Ora l'ha su una stella
piccolissima della sua Costellazione, nel cielo
dei cani miti, lassù, dove di certo l'ha meritata.
Un
giardiniere
In
questa nostra terra gli uccelli e i fiori
sono di bellezza tale da non aver l'eguale.
Lasciatemi
godere ancora dei tanti colori
del
mio giardino, alzare gli occhi al cielo
per
sentire la felicità, fugace, di ali veloci.
Al
sopravvenir della mia sera
starò
a guardare solo le stelle,
le
pregherò di non essere avare
di
quel po’ di luce che compensi
l’arcobaleno
di una vita serena.
Marciano
T’ho conosciuto dopo l’alba del millennio,
che godevi della passione per la fotografia
e per un superbo vino Taurasi, che offrivi
in una tua rustica, sorprendente cantinella,
con rituali, gesti, boccali dal cuore antico.
Là riemergeva in me una infanzia lontana,
spesso era mio nonno, o un uomo anziano,
mi afferrava la mano per riportarmi a casa.
Le sentivo accanto in quelle sere le parole
tremule di dolcezza, cariche d'alito vinoso.
Ripensavo a qualche cantina del mio paese,
nessuno ricordava come te l'uomo maschio,
possanza di un cuore e raffiche di una voce.
Prima vita
solitaria
All'apparenza
luccicavi d'oro, casa che scelsi
per
vivere non per veder morire. Ma vi entrò
un'aria
di piombo e negli animi prese dimora,
né
lume di speranza dal verde del tuo parco,
ripulsa
di fastidio dalle tue squadrate aiuole,
quotidiana
offesa per il disordine del cuore.
Un
lontano suono come zampogna natalizia
mi
parve di riascoltare nel budello di strada
che
offrì l'ultimo asilo alla mia triste libertà.
Passavano
vocianti i giovani zaini di scuola,
alla
mia prima vita solitaria si unì un amico,
sentì
che mozzato ancora era il mio respiro,
né
pendeva una cometa sugli embrici nuovi.
Eretica preghiera
E'
Natale, e una mia eretica preghiera ti chiede con ardore
di
rinnegare il celeste Padre. Di questo mondo il Creatore,
un
amore sconfinato come il tuo non nutrì per noi mortali,
non
perdonò, ma già per i figli suoi dettò dura condanna.
Non
può averti generato, o mio tenero Bambino. Nato dal
mite
Giuseppe, dalla dolcissima Maria, lasciasti la tua casa
per
abbracciar le folle e poi la Croce. All'Essenza Suprema
non
sei salito. Vive qui la vita che innocente ci hai donato.
Mamma Schiavona
Ora
la tua figura è divenuta lucente immagine,
che
i miei occhi sospinge in alto, per guardare
fino
al limite d'orizzonte dove tu vivi venerata,
lassù,
fra possenti rocce e su profondi crepacci.
Non
pensavo mai di dimorarti così d'appresso
alla
corona di luci che ti circonda. Mi apparivi
molto
lontana quando guardavo il punto bianco
stampato
sul celeste che dall'ampio panorama
del
paese natio additavo a mamma per sapere,
ma
non comprendevo la sua risposta, risonava
di
solennità e confondeva la mia piccola mente
di
bambino, che invece era contento di pensare
che
fossi solo una splendida stella, incastonata
su
un monte anziché nel cielo, come ti vedevo
nell'oscurità
serale. Eri tanto bella che l'aurora,
mentre
uno dopo l'altro tutti gli astri spegneva,
lasciava
ancor brillare il lume tuo fino all'alba
chiara
perché nuovamente ti vestisse di bianco.
Sindone del
Partenio
Ti
hanno portato accanto, Vergine del Partenio,
il
santo lenzuolo appena nel mondo si levarono
alte
fiamme di guerra. Hai rivisto così il sudario
che
tutto avvolse il corpo senza vita di tuo figlio.
Ma
da tali e tanti veli cinta e dall'arte sublimata,
il
tragico ricordo tenevi già stampato nel cuore,
sì
che quando son saliti alla gloria del tuo cielo
le
anime di giovani immolatisi con vero amore
per
ogni umana libertà, tu sei discesa nelle case
per
alleviare lo strazio delle madri a te levatosi
con
mani oranti, strette, sui fazzoletti lacrimati
non
una goccia di sangue di un figlio disperso.
San Damiano
Frate
Francesco, lascio la cupola imponente,
la
basilica innalzata a celebrare la tua gloria,
e
discendo qui, dove il tuo cuore ha cantato
la
gioia d'amare il mondo e quella di morire,
inestricabile
mistero che par svelare la danza
degli
archi che con leggerezza si susseguono
come
saltelli in acqua d’un ciottolo scagliato,
eleganti
allo sguardo che ripercorre incantato
questi
voli, come il volo dei tuoi cari uccelli,
come
i cerchi che si allargano su infinite rive.
Il
mio accostamento è incredulo e commosso
dal dorato
bagliore di tanto eccelsa cattedrale.
Simona,
leggi a me il Cantico di Frate Sole,
se
sapessi la melodia, ti pregherei di cantarlo.
E
tu, Andrea, deponi la chitarra, la sua voce
desidero
ascoltarla a cappella, senza corredo
d’arpa
o giga, che possa offuscare le parole.
Voglio
che si rifranga sulle volte santificate,
su
questi archi, e discenda pura sopra di noi,
eco
d'una celeste voce che solo da tal luogo
ha
sì gran forza da diffondersi nell'universo
intero,
dove il Sole, la luna, le stelle restino
ad
ascoltare con una gran meraviglia, come
te,
Simona, che ancor non conoscevi quanto
dolore
e quanta poesia celasse questa chiesa
accorata,
e hai scoperto come qui Francesco
velò
la morte con una rosata lapide di gioia.
Ali di cera
Or
che del cigno si va spegnendo il canto,
sento
la mia anima più leggera e il grande
peso
di dovermela portare dentro in pezzi
si è
allentato. Il dubbio però mi schiaccia
ancora,
tarpandomi lo slancio di elevarmi
fino
al tuo splendore immutabile ed eterno.
M'incombe
sul capo un frullo di ali di cera,
quello
d’un Icaro frantumato nel suo sogno
da
una sterile logica e il mio pensiero teme
uno
spirito non saldo su di una debole fede.
Cielo arcano
Intenso,
sempre più oscuro blu della notte,
buio
fitto impenetrabile da me il tuo fondo.
Stelle
dalle luci fredde, interrogarvi vorrei
dell’incessante
brillio che mi dà sgomento,
come
il mistero della solitudine silenziosa
mi
sgocciola malinconia più arcana di Dio.
Quel
momento di terrore
Soltanto
con un lieve palpito reagisce
il
cuore a ogni voce che in lui risveglia
quel
momento lento e lungo di terrore.
Col
capo chino la coscienza riconosce
d’aver
sepolto nel ricordo una tragedia
che non
più versa nell’animo tristezza.
E’
forse uman costume la dimenticanza
dei
lutti antichi, ma resta incancellabile
il rimorso
d’esserci in fretta allontanati
dai
luoghi disastrati, lontan lasciando il
patimento
degli amati genitori. Solo ora
v’è
struggimento, perché vinse la paura:
quel
tremuoto tremendo la mente invase
di
una pavida attesa di mortali repliche e
ci
mise in fuga all'alba dalla nostra terra
ferita,
stipati nelle auto, lungo una strada
tranquilla,
senza crolli ai lati, alle spalle
i monti
irpini, impauriti da cinereo cielo.
Ci
accolse la Ciociaria come privilegiati,
eletti
dal Signore, distanziato il lamento
ed
il "tanto più dolor che punse a
guaio".
Quando,
vincendo la paura, sei là tornato,
non
trovasti né il Tribunale, né la tua toga,
con
le macerie finale sposalizio v'era stato.
Itinerario breve
Fissate
pure della notte il fondo nero,
o
miei occhi insaziabili di cielo, delle
stelle
mirate pure i volti, sono palpiti
di
cuor sidereo, scintillio senza posa
che
per sé brilla e a noi cela il Tutto.
Paghi siano gli occhi d’un sorridente
sole, di un’argentea luna che ci
parli
e che talora, col suo candor
d’avorio,
i nostri patimenti teneramente
ascolti.
Compagna di poesia
Più
volte mi hai esortato alla poesia nella
età
longeva da dolce riva che a me offrivi.
Io,
grato, saltando dai secchi rami, timido
cinguettio
ricambiai, talora anche la voce
triste
di vecchio cùculo di bosco, scandito
dalla
mia memoria cristallizzata il passato,
spaurito
dai fermenti del cuore il presente,
con
diafana proiezione di empatia il futuro.
Quel foulard giallo-nero
Fu così che nelle mie mani divenne messaggero
quel tuo foulard di seta dai colori di vaso greco,
giallo e nero. L’avevi lasciato a casa nella fretta
del meriggio quando incombeva l’ora famigliare.
Parvero impresse ai lati quattro teste di Medusa,
ma quando mi accostai sorrisero altrettanti volti.
Fu allora che uno sgomento m'investì al rintuzzo
forte di una idea che rimescolai, trepido di
gioia.
Ti attese sul cuscino accanto a un sogno solitario,
tua dolce mano al mio risveglio felice lo raccolse.
Libertà
dell’anima
Questa libertà, amore, è una prigionia più dura
di una catena di piombo che al piede sia legata,
perché si è aggrovigliata tutta intorno all'anima.
Il cuore è stolto, sussulta e vaneggia per niente,
predilezione sua ogni tracciato irto e impervio,
non ode voce, né cura il luccicare di un binario.
L’anima accetta invece il travaglio del dialogo,
sa che arriverà per gli istinti il tempo della resa,
quand’io guarderò nello specchio che mi porge.
A Liliana
O dolorosa gioia
Ora
che sei tanto lontana nel tempo
e
impossibile riabbracciare l'umana
tua
essenza, non dispersa io ti vedo
in
una galassia di luce inconoscibile.
Una
stella già opaca che ora splende
per
sé volle attrarre la luminescenza
che
da te radiava, con voce così lieve
ti
chiamò che ascoltare io non potevo
dagli
spazi infiniti, per me impietosi.
O
dolorosa gioia, per cui quest'alma
è mesta
e si consola del bel riverbero
di
quella luce che cruda morte spense.
Atteone
Tu la giornata mia vai seguitando,
non una sola ora che quest’anima
non si senta braccata dai tuoi cani,
eppure io mai ti volli veder nuda,
mai volli penetrare i tuoi pensieri.
Sorrisi d’acqua dolce
Da un esiguo specchio d'acqua emergeva il tuo
sorriso,
spargeano gli occhi un riflesso perlaceo tutto
d’intorno,
gara di splendore coi raggi del sol calante; sulle
ciocche
dei capelli v'era il brillar di gocce tremule che
aleggiava
su ogni tuo pensiero in quel meriggio di latente
sonorità
domestica. Eri lontana anche da me, che l'incanto
di una
sirena, sorda al mio canto, ormai subivo, e nei
riverberi
della luce anelavo un po' alla tua distante
allegria. Miei
deboli segnali si infrangevano sull'impenetrabile
vetrata.
Donna fuori dal tempo
Visioni
che si susseguono nella memoria,
soltanto
questo è il trascorrere del tempo.
Non
la troverai cambiata, nello specchio
del
risveglio di domani, la tua immagine.
Sentirai
snodarsi nel cuore la lunga serie
di
mattini innocenti che non hanno osato
gualcire
del tuo volto il disegno leggero.
Che
tu possa, cara amica, vederti sempre
così,
felice nella bellezza. Non guardare
l’inutile
oscillare della caparbia pendola,
lei
che non potrà giammai soffrire, cieca
della
luminosità cangiante della sua sfera.
Donna
dentro il tempo
Null’altro che il ricordo di immagini del tuo passato
remoto o recente che si susseguono, questo il tempo.
Non tardi a riconoscere che esse si sono trasformate,
né accusi d’empietà l’ora che intatte non l’ha serbate.
Tu sai che non ti apparirà uguale il volto al risveglio
di domani, che sentirai snodarsi nello specchio e nel
cuore una lunga serie di giorni, mesi e diseguali anni
che più linee hanno alterato del tuo disegno leggero.
Sorridi pure della caparbia, irrequieta pendola, cieca
è la sua speranza di arrestare l’attimo che la precede,
come quella di poter fermare una bellezza cangiante.
Il colore del diritto
Dentro
l’alveo materno attendevo Napoli,
quando
l’imminente rombo di ali di morte
tolse
alla prima vista il suo azzurro mare.
Vidi
così la luce nella mia verde Irpinia,
dove
bruciai l’infanzia consumando l’ore
nei
semplici giochi dei ragazzi di borgata.
Su
altro colle mi attendeva l’età inquieta,
la
dolce adolescenza, che ebbe compagno
sempre
amore di ragazza. Da studi classici
attinsi,
come per dono, parole come colori.
Il
diritto dipinse poi di grigio l’animo mio.
Il colore del processo
Solo
nel processo caldi colori ricoprivano
il
grigio del diritto. Quella battaglia aspra,
dura,
che un forte impegno mi richiedeva
quand’ero
arbitro di tenzoni per la libertà,
ora
mi vede quasi spettatore nelle contese
per
opporsi al Fisco. Nel gioco di mestiere
mi
diverto, sorrido di arringhe talor suicide.
Taluni
non si accorgono di navigare a vista
per
mari sconosciuti, spesso nella burrasca,
onde
di tasse e il formale rito aprono come
insidiose
rocce grosse fenditure negli scafi,
carichi
di logiche di acqua da colare a picco.
Ancora
per pochi mesi ne godrò. Se velato
di
mestizia sarà il colore del finale viaggio
nel
diritto non so dire, l’esperienza diversa
di
giustizia di lassù vorrebbe viver l’anima.
Fama di giudice
Casa
che m'infondesti gioia come la piccola città,
in
te fu la sorpresa della paternità di una bambina,
che
sol di notte avvertivo nella mia appartenenza,
quando
talvolta la cullavo inventandole una nenia.
Non
attratto dalla grande vera felicità, mi appariva
la
fama del giudice espandersi per le vie cittadine,
penetrando
anche nelle pareti dov’era sorta la vita
della
mia famiglia. Ignoravo che proprio là opaca
era
la mia figurata gloria, e indifferenti gli sguardi
a
quella mia immaginaria e vanesia appariscenza.
Giudice del mio
tempo
Sei
ritornato quello delle grida, ora ben massimate,
giudice
del mio tempo, disamato, che sei incarnato
nelle
aride riviste, sì che di carta tutto sei rivestito,
né
vi è gomma che cancelli o che ti cambi d’abito,
e ti
riporti alla tua natura, donde nella incoscienza
ti
trasse fuori lo studio astrale, disumano del diritto.
Io vi
ho lasciato per sempre, compagni di cordata,
che già
vi avvolgeva questo mostruoso involucro.
Vi
rivedo incapaci di trovare un sabato per l’uomo,
l’unica
strada che l’Idra scruta con il timore grande
che
sia tizzone ardente per le sue labirintiche teste.
Cinque borse nere
Sono tutte e cinque nere, solo il manico ha la
pelle
giallo ocra di camoscio. Tornano alla mente piene
di taglienti sciabole di carta, memorie di un tempo
antico che non vogliono andar via per sempre, ma
si affacciano dalle viscere d'una vita vissuta
altrove,
che gli pare ora come un defunto riveduto in sogno.
Portate là, vi prego, anche quest'ultimo suo
corredo
funerario, le cinque borse alleggerite degli
strumenti
di dolore. Né sopravviva altro che un riposo
eterno,
senza rimpianto del vuoto che io colmavo un
tempo.
Il colore d'autunno mi sia nunzio d’un Natale
sereno.
Casa derelitta
Sei
stata la mia domina, la mia regina, e la regista
dei
film che ha vissuto la famiglia. Nelle tue mura
non
racchiudi che silenzio e frastuono di memorie,
or
che attendi rari miei arrivi, casa derelitta di via
Tuoro.
Sono tante le occasioni che m’invento per
ritrovarmi
in te: una scacchiera, un libro, qualche
pastore
del presepe da portar via quand’è esaurita
l’ora
della visita, troncati gli spezzoni di tristezza.
Lascio
il silenzio nelle stanze, i ricordi a far ressa
dietro
la soglia, che mi chiedono di restare ancora.
Dolente
saluto è chiudermi alle spalle la tua porta.
I ritorni
Calda stagione della mia gioventù,
il tuo frutto pregno dal mio albero
si è staccato e il vento ha disperso
il seme in lontani luoghi, né spero
di vedere i ritorni di un germoglio.
Nei mesti occhi degli avi il riflesso
v'era del biancheggiar di un gregge
che si allontanava nel mattino, con
un figlio pastore e un cane. Rapido
si dissolveva nel fogliame, ma sul
rugoso volto giammai era disillusa
l'attesa dei sereni ritorni nella sera.
Curve di un fiore
Mio corpo, che da tempo rifuggi dall’inarcamento,
mi hai con dolcezza annunciato di non aver potuto
chinarti a raccogliere un fiore, e pago
dell’effluvio
di profumo e di colore, deluso, sei tornato a
ergerti,
triste nel pensiero che fosse quello un preannuncio
della finale natural postura, linea dell’eterno
futuro
che non prova più la gioia e il dolore ma solo
pace,
e forse in sé sogna quel fiore nato nella
madre-terra,
preludio di vita in un gomitolo di curve, ed è
felice,
e sorride nel vedersi, rannicchiato, ancora in
boccio.
Sala
cinematografica
Sembra
che il film nient'altro abbia ancora da raccontare
e ti
vedo trepidare sulla scena che vorresti fosse l’ultima.
Lunga
l'attesa che lo schermo rechi scritta la parola Fine,
il
Regista sorride del tuo timore d’un indesiderato epilogo.
Vedi
la luce di una torcia che punta verso la tua poltrona?
Qualcuno ti cerca
nel buio di questa sala cinematografica
per venirti a dire
che una illustre Signora in vestaglia nera
attende
con impazienza che ritorni a casa, non vorrà sapere
le
scene che hai visto, ma solo raccontarti Lei quella finale.
Timore di peregrinare
Forse non è questo l'ultimo mio approdo,
dove il timoniere la barca mi ha ancorato,
ma troppe volte il sentiero della mia vita
s'è deviato da previste rotte, ed io trepido
al pensiero di dover vagare ancora nello
spazio di questa terra, ora che stanchezza
grava sulle spalle e ogni nuovo cammino
è duro al passo. Mi sento come gabbiano
nauseato da odore di salmastro che vuole
antico monte per sua quiete, or ch’è vano
travaglio un ansioso volo sopra ogni mare.
Nido di gabbiano
Nuvole che arrivano da lontani orizzonti
posano a lungo, avvinte ad un cocuzzolo
che si lascia abbracciare nella confidenza
che ha col cielo. Poi restano adagiate sui
tetti delle case per interi giorni e l’animo
gravano e le serali strade, dove appaiono
ignote sagome i passanti nella fitta nebbia.
Se mi porterò sotto quelle nubi forse lassù
troverò il nido di gabbiano da cui giovane
mossi per un lungo monotono grigio volo,
sul panorama senza respiro, dove né calde
estati né tripudi di primavera, ma autunno
di sottili brume che le ossa mi han corroso.
Se vi tornerò attenderò il vento da ponente,
non franto da muri d’Appennino, che spazzi
via le nuvole di viola ed il mio cielo squarci.
Se io tornerò lassù, porterò nello zaino solo
l'essenza di profumo d’amor goduto e ritmi
d’un madrigale, lauro della mia bronzea età.
A
Giorgio Bàrberi Squarotti
Congedo di una silloge
Sto
per licenziarti, mia seconda silloge, ora che
hai
ruotato da me verso il mondo, ed era tempo
che
gli occhi lacrimosi si rivolgessero all'eterno.
Così
rincuorata, vola fuori dall'angustia di casa,
e
posati fra mani di lettor clemente, come quelle
del
saggio che sparse lodi di tua maggior sorella.
Vano
è ardire di poter lenire un incolmabil vuoto,
impotenti
nella triste solitudine lascia la sventura.
L'inseparata
sua Piera, puro spirito, a lui da canto,
attenda
che torni il sereno perché lo sposo intinga
l'insuperabile
sua penna per un ultimo commento
all'alto
verso: questa che mai da me non fia divisa.
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