domenica 23 febbraio 2020

SILLOGE 2 DI POESIA



Il campanone della Cattedrale

Ti ho riconosciuto da tempo, vecchio campanone
della Cattedrale, grande che sei ti hanno collocato
accanto alla statua di Padre Pio. Per tutti del borgo
sei solo una campana di bronzo d'antico verde, chi
potrà farcela a portare su nel campanile l'enormità
di tonnellate, ma l'immagine tua, nel dolce ricordo,
ha già spiccato il volo, suona già trentatré rintocchi
di gioia nell'animo mio. Giunge bella per tutti l'ora
della liberazione, gli anni di Cristo hanno risuonato,
anche dalle lontane contrade del fiume hanno sentito
il tramonto finalmente più vicino, viva la liberazione
dal duro lavoro dei campi. Il Signore ogni giorno 33
anni li compie per sciogliere dall'affanno, sei liberato
anche tu, fanciullo, dallo sgradito sonno pomeridiano.
Evviva, la porta è spalancata e al dodicesimo scalino
si apre la tua via. Più tardi altra campanella il Vespro
la Messa a tua madre annunzierà, la casa ora è pulita.







La danza macabra

Mi sgridavi, se volevo ascoltare quella musica, temevi forse
che potesse piacere tanto alla Morte da indurla ad affacciarsi
sulla porta della stanza e arrivare fin nel mio letto per donare
l'ultima carezza al tuo bambino pallido, vivace, che accettava
al mattino il profumo dei capelli rossicci del dottore, quando
col capo sul suo petto gli ascoltava a lungo il ritmo del cuore.
Quanto ritmo vitale c'era in quella danza delle ossa dei morti,
quanta sottile malinconia nella livida alba che l’interrompeva.

















Estate a Salerno

Non era dietro l'angolo il mio sorriso e neanche il tuo, o madre.
Solo dopo la lunga fila di votivi ceri, la danza di tenebra cessò,
scomparve il lugubre ritmo e l'alba lentamente avanzò, cercava
ampi spazi di cielo, un luogo per rifulgere e apparirmi più bella.
La luce di un sole abbacinante mi colse su una spiaggia invasa
da decine di grossi carri armati arrugginiti, ma distolse il raggio
per non essere ghermita dai sinistri colori di quel metallo morto
e mi abbagliò dall’onde a specchio del mio primo mare. Nei bei
meriggi, sul barroccino sgangherato che passava sotto il campo
sportivo a volte s’abbatteva l’urlo d’un goal, gioia del cocchiere.
















Visioni dell’adolescenza

O pure apparenze della realtà, colte dall'adolescenza,
perché negli occhi non permane, né dentro all'animo,
lo stampo che lasciò l'ingenua visione dell'età felice?
Perché un'immagine indifferente per una mente pura
attende l'ora per mostrare di essere dura significanza
d'acuto dolore, il volto ascoso d’una storica tragedia?                         
Non so dire perché erano seppelliti nei profondi strati
i fotogrammi di quelle carcasse corrose dalla ruggine.
Forse in ognuno di noi transita su e giù una carrucola,
che precipita nei vergini fondali l’apparenza del male,
che poi riporta alla luce al richiamo di una emozione.
Il cuore eterno fanciullo immutata vorrebbe rivederla,
una mente ch’ha perduto l'innocenza l’ha trasfigurata.

    










Liberazione e morte

O aerei che solcavate il cielo sorvolando i tetti della mia casa natia,
non posso chieder di ripagarmi del rombo di terrore da me sofferto
se l'ammasso rugginoso dei carri abbattuti sulla mia prima spiaggia
fu opera vostra.
O poveri e giovani soldati, imprigionati nel sogno del Mein Kampf
e bruciati entro quelle macchine di guerra, trasformate in un lampo
in vostre tombe, non posso piangervi o rattristarmi per una dannata
vita così perduta.
O ritrovato banco di scuola da cui ho udito parole roboanti di libertà,
soltanto il mio primo sole marino con la luce inorridita dalla ruggine     
mi ha detto che talvolta, nella storia, bisogna pur infliggere la morte
per conquistarla.












Un sarto

Tu non ci sei più, Gerardo, ma ancora mi sorridi
con i tuoi dolci occhi di bue, sotto le lenti spesse
come fondi di bicchiere. Nel ricordo di tutti v'era
il tremendo sisma, nel tempo in cui nel campetto
di Santa Rita accoglievi nella tua piccola sartoria,
piena di stufe, una compagnia infreddolita, esule
dal solitario inverno di baracca che si confortava
nel calore e nell'allegria del tuo mestiere, nel riso
che suscitavi quando per clienti panciuti o smilzi,
quasi scherzando, forgiavi abiti a pennello. Per te,
Gerardo, accantonavano un po’ la loro vita grama.













Una sarta

Tu, invece, la mia serena sarta antica,
non trovi godimento nella compagnia,
sembri una piccola gruccia sulla soglia
di casa tua dove m’attendi, sul braccio
appesi camicia e pantaloni, e lì davanti
mostri gli aggiusti perfetti dell'arte tua
dell'ago e del filo. Non ti è mai gradito,
nel silenzioso tuo pudore, ogni sguardo
nella stanza intima. Ancora credi, beata
te, alla mia e alla tua eterna giovinezza.
Felice specchio il tuo bianco inamidato.












Brown

Ricordo che, bambino, giocavo con Fritz,
e che piansi quando lo vidi steso nell'atrio
con un bubbone nel fianco. Accanto a me
anche zio Marciano in silenzio lacrimava.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        
Sbiadito era il ricordo del cane domestico,
quando tu, Nobel, bretone bianco arancio,
giungesti dove vivevo i meriggi d'inverno.
Salti festosi con dolci morsi ai miei arrivi,
ma ora che più non mi riconosci, una foto
dà la gioia del tuo scodinzolio di cucciolo.
L'ultimo cane, forse, della mia vita sei tu, 
piccolo bastardo senza blasoni. Ci separa
una rete da cui muovi, discreto, il mugolio
di fame alla tua vivandiera, che nella sera
soffre, lo ignori, quando di te s'è scordata.
Con il tuo sguardo sfuggente m'hai svelato
un'infanzia rischiosa vagar per cibo, chissà
quante luci di ruote spietate lungo le strade.
Ora scorgo nella profondità degli occhi tuoi
la pienezza di un cuor di cane, che la specie
umana che nel creato mena di sé gran vanto
mai ha posseduto: l'infinita capacità d'amare.



Tommy

Mi dicesti di aver visto un piccolo cane fulvo
passare rapido nel viale, poi dileguarsi con il
cancello chiuso, forse per un varco nella rete.
Mi venne invece in mente il vecchio Tommy,
è stata forse l'anima sua ad affacciarsi appena
per guardare i cani di famiglia, quelli di razza,
portati dopo la sua morte in un mondo nuovo.
Ma la cuccia era pronta qui anche per lui, che
non ha mai chiesto nulla. Ora l'ha su una stella
piccolissima della sua Costellazione, nel cielo
dei cani miti, lassù, dove di certo l'ha meritata.
                                                  













Un giardiniere

In questa nostra terra gli uccelli e i fiori
sono di bellezza tale da non aver l'eguale.
Lasciatemi godere ancora dei tanti colori
del mio giardino, alzare gli occhi al cielo
per sentire la felicità, fugace, di ali veloci.
Al sopravvenir della mia sera
starò a guardare solo le stelle,
le pregherò di non essere avare
di quel po’ di luce che compensi
l’arcobaleno di una vita serena.















Marciano

T’ho conosciuto dopo l’alba del millennio,
che godevi della passione per la fotografia
e per un superbo vino Taurasi, che offrivi
in una tua rustica, sorprendente cantinella,
con rituali, gesti, boccali dal cuore antico.
Là riemergeva in me una infanzia lontana,
spesso era mio nonno, o un uomo anziano,
mi afferrava la mano per riportarmi a casa.
Le sentivo accanto in quelle sere le parole
tremule di dolcezza, cariche d'alito vinoso.
Ripensavo a qualche cantina del mio paese, 
nessuno ricordava come te l'uomo maschio,
possanza di un cuore e raffiche di una voce.











Prima vita solitaria

All'apparenza luccicavi d'oro, casa che scelsi
per vivere non per veder morire. Ma vi entrò
un'aria di piombo e negli animi prese dimora,
né lume di speranza dal verde del tuo parco,
ripulsa di fastidio dalle tue squadrate aiuole,
quotidiana offesa per il disordine del cuore.
Un lontano suono come zampogna natalizia
mi parve di riascoltare nel budello di strada
che offrì l'ultimo asilo alla mia triste libertà.
Passavano vocianti i giovani zaini di scuola,
alla mia prima vita solitaria si unì un amico,
sentì che mozzato ancora era il mio respiro,
né pendeva una cometa sugli embrici nuovi.                                                                                                                                                                                                                                                                                             











Eretica preghiera

E' Natale, e una mia eretica preghiera ti chiede con ardore
di rinnegare il celeste Padre. Di questo mondo il Creatore,
un amore sconfinato come il tuo non nutrì per noi mortali,
non perdonò, ma già per i figli suoi dettò dura condanna.
Non può averti generato, o mio tenero Bambino. Nato dal
mite Giuseppe, dalla dolcissima Maria, lasciasti la tua casa
per abbracciar le folle e poi la Croce. All'Essenza Suprema
non sei salito. Vive qui la vita che innocente ci hai donato.

















Mamma Schiavona

Ora la tua figura è divenuta lucente immagine,
che i miei occhi sospinge in alto, per guardare
fino al limite d'orizzonte dove tu vivi venerata,
lassù, fra possenti rocce e su profondi crepacci.
Non pensavo mai di dimorarti così d'appresso
alla corona di luci che ti circonda. Mi apparivi
molto lontana quando guardavo il punto bianco
stampato sul celeste che dall'ampio panorama
del paese natio additavo a mamma per sapere,
ma non comprendevo la sua risposta, risonava
di solennità e confondeva la mia piccola mente
di bambino, che invece era contento di pensare
che fossi solo una splendida stella, incastonata
su un monte anziché nel cielo, come ti vedevo
nell'oscurità serale. Eri tanto bella che l'aurora,
mentre uno dopo l'altro tutti gli astri spegneva,
lasciava ancor brillare il lume tuo fino all'alba
chiara perché nuovamente ti vestisse di bianco.          






Sindone del Partenio

Ti hanno portato accanto, Vergine del Partenio,
il santo lenzuolo appena nel mondo si levarono
alte fiamme di guerra. Hai rivisto così il sudario
che tutto avvolse il corpo senza vita di tuo figlio.
Ma da tali e tanti veli cinta e dall'arte sublimata,
il tragico ricordo tenevi già stampato nel cuore,
sì che quando son saliti alla gloria del tuo cielo
le anime di giovani immolatisi con vero amore
per ogni umana libertà, tu sei discesa nelle case
per alleviare lo strazio delle madri a te levatosi
con mani oranti, strette, sui fazzoletti lacrimati
non una goccia di sangue di un figlio disperso.










San Damiano

Frate Francesco, lascio la cupola imponente,
la basilica innalzata a celebrare la tua gloria,
e discendo qui, dove il tuo cuore ha cantato
la gioia d'amare il mondo e quella di morire,
inestricabile mistero che par svelare la danza
degli archi che con leggerezza si susseguono
come saltelli in acqua d’un ciottolo scagliato,
eleganti allo sguardo che ripercorre incantato
questi voli, come il volo dei tuoi cari uccelli,
come i cerchi che si allargano su infinite rive.
Il mio accostamento è incredulo e commosso
dal dorato bagliore di tanto eccelsa cattedrale.
Simona, leggi a me il Cantico di Frate Sole,
se sapessi la melodia, ti pregherei di cantarlo.
E tu, Andrea, deponi la chitarra, la sua voce
desidero ascoltarla a cappella, senza corredo
d’arpa o giga, che possa offuscare le parole.
Voglio che si rifranga sulle volte santificate,
su questi archi, e discenda pura sopra di noi,
eco d'una celeste voce che solo da tal luogo
ha sì gran forza da diffondersi nell'universo
intero, dove il Sole, la luna, le stelle restino
ad ascoltare con una gran meraviglia, come
te, Simona, che ancor non conoscevi quanto
dolore e quanta poesia celasse questa chiesa
accorata, e hai scoperto come qui Francesco
velò la morte con una rosata lapide di gioia.
Ali di cera

Or che del cigno si va spegnendo il canto,
sento la mia anima più leggera e il grande
peso di dovermela portare dentro in pezzi
si è allentato. Il dubbio però mi schiaccia
ancora, tarpandomi lo slancio di elevarmi
fino al tuo splendore immutabile ed eterno.
M'incombe sul capo un frullo di ali di cera,
quello d’un Icaro frantumato nel suo sogno
da una sterile logica e il mio pensiero teme
uno spirito non saldo su di una debole fede.














Cielo arcano

Intenso, sempre più oscuro blu della notte,
buio fitto impenetrabile da me il tuo fondo.
Stelle dalle luci fredde, interrogarvi vorrei
dell’incessante brillio che mi dà sgomento,
come il mistero della solitudine silenziosa
mi sgocciola malinconia più arcana di Dio.




















Quel momento di terrore

Soltanto con un lieve palpito reagisce
il cuore a ogni voce che in lui risveglia
quel momento lento e lungo di terrore.                                                                                                                                                                         
Col capo chino la coscienza riconosce
d’aver sepolto nel ricordo una tragedia
che non più versa nell’animo tristezza.
E’ forse uman costume la dimenticanza
dei lutti antichi, ma resta incancellabile
il rimorso d’esserci in fretta allontanati
dai luoghi disastrati, lontan lasciando il
patimento degli amati genitori. Solo ora
v’è struggimento, perché vinse la paura:
quel tremuoto tremendo la mente invase
di una pavida attesa di mortali repliche e
ci mise in fuga all'alba dalla nostra terra
ferita, stipati nelle auto, lungo una strada
tranquilla, senza crolli ai lati, alle spalle
i monti irpini, impauriti da cinereo cielo.
Ci accolse la Ciociaria come privilegiati,
eletti dal Signore, distanziato il lamento
ed il "tanto più dolor che punse a guaio".                                                                                                                                                                                                                                                                                             
Quando, vincendo la paura, sei là tornato,
non trovasti né il Tribunale, né la tua toga,
con le macerie finale sposalizio v'era stato.

Itinerario breve

Fissate pure della notte il fondo nero,
o miei occhi insaziabili di cielo, delle
stelle mirate pure i volti, sono palpiti
di cuor sidereo, scintillio senza posa
che per sé brilla e a noi cela il Tutto.
Paghi siano gli occhi d’un sorridente
sole, di un’argentea luna che ci parli
e che talora, col suo candor d’avorio,
i nostri patimenti teneramente ascolti.
                                                                                                                                                                              
















Compagna di poesia

Più volte mi hai esortato alla poesia nella
età longeva da dolce riva che a me offrivi.
Io, grato, saltando dai secchi rami, timido
cinguettio ricambiai, talora anche la voce
triste di vecchio cùculo di bosco, scandito
dalla mia memoria cristallizzata il passato,
spaurito dai fermenti del cuore il presente,
con diafana proiezione di empatia il futuro.


















Quel foulard giallo-nero

Fu così che nelle mie mani divenne messaggero
quel tuo foulard di seta dai colori di vaso greco,
giallo e nero. L’avevi lasciato a casa nella fretta
del meriggio quando incombeva l’ora famigliare.
Parvero impresse ai lati quattro teste di Medusa,
ma quando mi accostai sorrisero altrettanti volti.
Fu allora che uno sgomento m'investì al rintuzzo
forte di una idea che rimescolai, trepido di gioia. 
Ti attese sul cuscino accanto a un sogno solitario,
tua dolce mano al mio risveglio felice lo raccolse.
















Libertà dell’anima

Questa libertà, amore, è una prigionia più dura
di una catena di piombo che al piede sia legata,
perché si è aggrovigliata tutta intorno all'anima.
Il cuore è stolto, sussulta e vaneggia per niente,
predilezione sua ogni tracciato irto e impervio,
non ode voce, né cura il luccicare di un binario.
L’anima accetta invece il travaglio del dialogo,
sa che arriverà per gli istinti il tempo della resa,
quand’io guarderò nello specchio che mi porge.













                                                                                         A Liliana



O dolorosa gioia

Ora che sei tanto lontana nel tempo
e impossibile riabbracciare l'umana
tua essenza, non dispersa io ti vedo
in una galassia di luce inconoscibile.
Una stella già opaca che ora splende
per sé volle attrarre la luminescenza
che da te radiava, con voce così lieve
ti chiamò che ascoltare io non potevo
dagli spazi infiniti, per me impietosi.
O dolorosa gioia, per cui quest'alma
è mesta e si consola del bel riverbero
di quella luce che cruda morte spense.











Atteone

Tu la giornata mia vai seguitando,
non una sola ora che quest’anima
non si senta braccata dai tuoi cani,
eppure io mai ti volli veder nuda, 
mai volli penetrare i tuoi pensieri.














                                                                                   
                                                                                     

Sorrisi d’acqua dolce

Da un esiguo specchio d'acqua emergeva il tuo sorriso,
spargeano gli occhi un riflesso perlaceo tutto d’intorno,
gara di splendore coi raggi del sol calante; sulle ciocche
dei capelli v'era il brillar di gocce tremule che aleggiava
su ogni tuo pensiero in quel meriggio di latente sonorità
domestica. Eri lontana anche da me, che l'incanto di una
sirena, sorda al mio canto, ormai subivo, e nei riverberi
della luce anelavo un po' alla tua distante allegria. Miei
deboli segnali si infrangevano sull'impenetrabile vetrata.


















Donna fuori dal tempo

Visioni che si susseguono nella memoria,
soltanto questo è il trascorrere del tempo.
Non la troverai cambiata, nello specchio
del risveglio di domani, la tua immagine.
Sentirai snodarsi nel cuore la lunga serie
di mattini innocenti che non hanno osato
gualcire del tuo volto il disegno leggero.
Che tu possa, cara amica, vederti sempre
così, felice nella bellezza. Non guardare
l’inutile oscillare della caparbia pendola,
lei che non potrà giammai soffrire, cieca
della luminosità cangiante della sua sfera.













Donna dentro il tempo

Null’altro che il ricordo di immagini del tuo passato
remoto o recente che si susseguono, questo il tempo.
Non tardi a riconoscere che esse si sono trasformate,
né accusi d’empietà l’ora che intatte non l’ha serbate.
Tu sai che non ti apparirà uguale il volto al risveglio
di domani, che sentirai snodarsi nello specchio e nel
cuore una lunga serie di giorni, mesi e diseguali anni
che più linee hanno alterato del tuo disegno leggero.
Sorridi pure della caparbia, irrequieta pendola, cieca
è la sua speranza di arrestare l’attimo che la precede,
come quella di poter fermare una bellezza cangiante.














Il colore del diritto

Dentro l’alveo materno attendevo Napoli,
quando l’imminente rombo di ali di morte
tolse alla prima vista il suo azzurro mare.
Vidi così la luce nella mia verde Irpinia,
dove bruciai l’infanzia consumando l’ore
nei semplici giochi dei ragazzi di borgata.
Su altro colle mi attendeva l’età inquieta,
la dolce adolescenza, che ebbe compagno
sempre amore di ragazza. Da studi classici
attinsi, come per dono, parole come colori.
Il diritto dipinse poi di grigio l’animo mio.













Il colore del processo

Solo nel processo caldi colori ricoprivano
il grigio del diritto. Quella battaglia aspra,
dura, che un forte impegno mi richiedeva
quand’ero arbitro di tenzoni per la libertà,
ora mi vede quasi spettatore nelle contese
per opporsi al Fisco. Nel gioco di mestiere
mi diverto, sorrido di arringhe talor suicide.
Taluni non si accorgono di navigare a vista
per mari sconosciuti, spesso nella burrasca,
onde di tasse e il formale rito aprono come
insidiose rocce grosse fenditure negli scafi,
carichi di logiche di acqua da colare a picco.
Ancora per pochi mesi ne godrò. Se velato
di mestizia sarà il colore del finale viaggio
nel diritto non so dire, l’esperienza diversa
di giustizia di lassù vorrebbe viver l’anima.




Fama di giudice

Casa che m'infondesti gioia come la piccola città,
in te fu la sorpresa della paternità di una bambina,
che sol di notte avvertivo nella mia appartenenza,
quando talvolta la cullavo inventandole una nenia.
Non attratto dalla grande vera felicità, mi appariva
la fama del giudice espandersi per le vie cittadine,
penetrando anche nelle pareti dov’era sorta la vita
della mia famiglia. Ignoravo che proprio là opaca
era la mia figurata gloria, e indifferenti gli sguardi
a quella mia immaginaria e vanesia appariscenza.       















Giudice del mio tempo

Sei ritornato quello delle grida, ora ben massimate,
giudice del mio tempo, disamato, che sei incarnato
nelle aride riviste, sì che di carta tutto sei rivestito,
né vi è gomma che cancelli o che ti cambi d’abito,
e ti riporti alla tua natura, donde nella incoscienza
ti trasse fuori lo studio astrale, disumano del diritto.
Io vi ho lasciato per sempre, compagni di cordata,
che già vi avvolgeva questo mostruoso involucro.
Vi rivedo incapaci di trovare un sabato per l’uomo,
l’unica strada che l’Idra scruta con il timore grande
che sia tizzone ardente per le sue labirintiche teste.














Cinque borse nere

Sono tutte e cinque nere, solo il manico ha la pelle
giallo ocra di camoscio. Tornano alla mente piene
di taglienti sciabole di carta, memorie di un tempo
antico che non vogliono andar via per sempre, ma
si affacciano dalle viscere d'una vita vissuta altrove,
che gli pare ora come un defunto riveduto in sogno.
Portate là, vi prego, anche quest'ultimo suo corredo
funerario, le cinque borse alleggerite degli strumenti
di dolore. Né sopravviva altro che un riposo eterno,
senza rimpianto del vuoto che io colmavo un tempo.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         
Il colore d'autunno mi sia nunzio d’un Natale sereno.













                                        Casa derelitta

Sei stata la mia domina, la mia regina, e la regista
dei film che ha vissuto la famiglia. Nelle tue mura
non racchiudi che silenzio e frastuono di memorie,
or che attendi rari miei arrivi, casa derelitta di via
Tuoro. Sono tante le occasioni che m’invento per
ritrovarmi in te: una scacchiera, un libro, qualche
pastore del presepe da portar via quand’è esaurita
l’ora della visita, troncati gli spezzoni di tristezza.
Lascio il silenzio nelle stanze, i ricordi a far ressa
dietro la soglia, che mi chiedono di restare ancora.
Dolente saluto è chiudermi alle spalle la tua porta.













I ritorni

Calda stagione della mia gioventù,
il tuo frutto pregno dal mio albero
si è staccato e il vento ha disperso
il seme in lontani luoghi, né spero
di vedere i ritorni di un germoglio.
Nei mesti occhi degli avi il riflesso
v'era del biancheggiar di un gregge
che si allontanava nel mattino, con
un figlio pastore e un cane. Rapido 
si dissolveva nel fogliame, ma sul
rugoso volto giammai era disillusa
l'attesa dei sereni ritorni nella sera.













Curve di un fiore

Mio corpo, che da tempo rifuggi dall’inarcamento,
mi hai con dolcezza annunciato di non aver potuto
chinarti a raccogliere un fiore, e pago dell’effluvio
di profumo e di colore, deluso, sei tornato a ergerti,
triste nel pensiero che fosse quello un preannuncio
della finale natural postura, linea dell’eterno futuro
che non prova più la gioia e il dolore ma solo pace,
e forse in sé sogna quel fiore nato nella madre-terra,
preludio di vita in un gomitolo di curve, ed è felice, 
e sorride nel vedersi, rannicchiato, ancora in boccio.














Sala cinematografica

Sembra che il film nient'altro abbia ancora da raccontare
e ti vedo trepidare sulla scena che vorresti fosse l’ultima.
Lunga l'attesa che lo schermo rechi scritta la parola Fine,
il Regista sorride del tuo timore d’un indesiderato epilogo.
Vedi la luce di una torcia che punta verso la tua poltrona?
Qualcuno ti cerca nel buio di questa sala cinematografica                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            
per venirti a dire che una illustre Signora in vestaglia nera
attende con impazienza che ritorni a casa, non vorrà sapere
le scene che hai visto, ma solo raccontarti Lei quella finale.

        












Timore di peregrinare

Forse non è questo l'ultimo mio approdo,
dove il timoniere la barca mi ha ancorato,
ma troppe volte il sentiero della mia vita
s'è deviato da previste rotte, ed io trepido
al pensiero di dover vagare ancora nello
spazio di questa terra, ora che stanchezza
grava sulle spalle e ogni nuovo cammino
è duro al passo. Mi sento come gabbiano
nauseato da odore di salmastro che vuole
antico monte per sua quiete, or ch’è vano
travaglio un ansioso volo sopra ogni mare.















Nido di gabbiano

Nuvole che arrivano da lontani orizzonti
posano a lungo, avvinte ad un cocuzzolo
che si lascia abbracciare nella confidenza
che ha col cielo. Poi restano adagiate sui
tetti delle case per interi giorni e l’animo
gravano e le serali strade, dove appaiono
ignote sagome i passanti nella fitta nebbia.
Se mi porterò sotto quelle nubi forse lassù
troverò il nido di gabbiano da cui giovane
mossi per un lungo monotono grigio volo,
sul panorama senza respiro, dove né calde
estati né tripudi di primavera, ma autunno
di sottili brume che le ossa mi han corroso.
Se vi tornerò attenderò il vento da ponente,
non franto da muri d’Appennino, che spazzi
via le nuvole di viola ed il mio cielo squarci.
Se io tornerò lassù, porterò nello zaino solo
l'essenza di profumo d’amor goduto e ritmi
d’un madrigale, lauro della mia bronzea età.

                                                                                                         


A Giorgio Bàrberi Squarotti



Congedo di una silloge

Sto per licenziarti, mia seconda silloge, ora che
hai ruotato da me verso il mondo, ed era tempo
che gli occhi lacrimosi si rivolgessero all'eterno.
Così rincuorata, vola fuori dall'angustia di casa,
e posati fra mani di lettor clemente, come quelle
del saggio che sparse lodi di tua maggior sorella.
Vano è ardire di poter lenire un incolmabil vuoto,
impotenti nella triste solitudine lascia la sventura.
L'inseparata sua Piera, puro spirito, a lui da canto,
attenda che torni il sereno perché lo sposo intinga
l'insuperabile sua penna per un ultimo commento
all'alto verso: questa che mai da me non fia divisa.  




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