martedì 25 febbraio 2020

SILLOGE 3 DI POESIA


INTRODUZIONE, BIOGRAFIA E PREFAZIONE ALLA SILLOGE
Guscio di noce
Nel convincimento che ogni creazione letteraria o artistica, a maggior ragione la poesia lirica, non possa essere disgiunta dalle esperienze di vita dell’autore e dai segni che esse hanno lasciato nel suo animo, ho ritenuto di far seguire a questa Introduzione, nello stesso contesto, sia la Prefazione che la mia Biografia, anche perché ho avvertito l’esigenza di raccordare questa silloge alle prime due, con l’intento di riunirle poi in un cofanetto.
Premetto di aver già esposto nell’Introduzione alla silloge “Quel foulard giallo-nero” le ragioni per cui ho ritenuto di scrivere io stesso le prefazioni ai miei libri. Confesso, in breve, la diffidenza verso chi potrebbe pretendere di leggermi nell’animo alla ricerca della fonte dell’ispirazione, quando la stessa ricerca per me è risultata spesso ardua, se non vana. Non gradisco, inoltre, i quasi immancabili inquadramenti letterari, poiché credo che ogni testo poetico abbia una vita propria in quanto sorge dall’ispirazione che l’autore ha attinto dai sottofondi e dai bassifondi della sua vita, e talora anche dai doppifondi, che sono forse la vera essenza della poesia.
La presente raccolta segue di un anno “Quel foulard giallo-nero” e di due anni la prima silloge: “Vivere balenando in burrasca”, e a queste due appare ai miei occhi indissolubilmente legata, al punto da sembrare un solo libro, che inizia a raccontare in versi il percorso di una vita, frantumatasi in più di un’esperienza personale e professionale e poi ricomposta in forza dell’amore di una donna (“Vivere…”), prosegue con un’analisi più ampia e approfondita di temi esistenziali, d’amore, religiosi, filosofici, con frequenti riflessioni su antichi ricordi (“Quel foulard…”) e continua infine su temi pressocché analoghi e omogenei, cui però se ne aggiungono altri in virtù delle visitazioni e riflessioni sui nuovi luoghi in cui si è spostata la vita, restando quasi eliminati i temi nascenti dai ricordi e accresciuti, al contrario, quelli ispirati dalle proiezioni nel futuro. Sempre presente è la vena malinconica, che pervade tutti e tre i volumi, mentre traspare uno sguardo di meraviglia di come sia trascorsa una vita che è sembrata tutta inventata, e l’autore non sa neanche da chi.
Eppure questo libro è nato in mezzo all’allegria, dove un guscio di noce ha donato l’integrità del suo frutto al titolo, un ciliegio è fiorito per adornare la copertina e quattro giovani innamorati hanno meritato il posto nella dedica.
E che dire all’autore? Forse gradirebbe sentirsi recitare:
Tu pensoso in disparte il tutto miri; non compagni, non voli, non ti cal d’allegria, schivi gli spassi, canti, e così trapassi di tua vita e degli anni gli ultimi fiori
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Sono nato a Frigento nell’estate del 1940. Dopo la scuola media la mia piccola famiglia si trasferì ad Ariano Irpino, dove mio padre era giudice e io potei studiare il liceo classico, maturandomi nel 1959. Laureatomi in legge, divenni magistrato e fui prima pretore a Napoli e poi giudice ad Avellino, dove si è svolto tutto il resto della mia carriera, come Pubblico Ministero, Giudice del settore civile e Presidente della Sezione penale e della Corte d’assise. Perduta mia moglie nel 1994, mi dimisi nel 2004 dalla Magistratura e assunsi la carica di Presidente del Teatro Gesualdo di Avellino, ricoperta per tre anni fino al settembre 2007. Passai a nuove nozze nel settembre del 2010 con Anna, e continuai la carriera di magistrato tributario fino alla  carica di Presidente della Commissione Regionale della Campania.
Dal 2002 mi sono dedicato all’Educazione alla Legalità nelle scuole ed a lezioni di Diritto penale e processual-tributario presso la Scuola forense di Avellino, le Università di Napoli e di Salerno e la Scuola di Alta Formazione del Giudice tributario in Napoli, pubblicando articoli su riviste (“Successione nel tempo delle leggi penali tributarie” nel 2000 e “Annualità dell’illecito penale tributario” nel 2001, nonché “Teoria generale dell’interpretazione” nel 2006, opuscolo destinato ai Dirigenti Scolastici della cui Associazione ero divenuto socio onorario.
Nel contempo ho partecipato  a vari convegni su materie letterarie e artistiche, con particolare riguardo alla poesia e alla musica: “Carlo Gesualdo, poetica e musica” (2003), “La poesia tra Rinascimento, Manierismo e Barocco” (2004), “Francesco Petrarca e la modernità della sua passione amorosa” (2004), “Carlo Gesualdo, l’uomo, i suoi tempi e le sue passioni” (2005), “Leopardi e Montale” (2006), “La Poesia e la donna” (2011), “Carlo Gesualdo nel 400° della nascita (2013), e anche con brevi saggi: “Socrate in classe” (2008),  Poesia e Musica” (2009), “Filosofia e Musica” (2010), “Viaggio nel diritto e dintorni” (2013), “Giovanni Palatucci e il suo sacrificio della vita” (2012), “L’immortalità dell’anima in Sant’Agostino” (2012), “Una testimonianza per Alberto Moravia” (2013), “Reditus ad Deum” di padre Michele Bianco (2013), nonché alla prefazione di testi di poeti irpini: “Breviter, sic et simpliciter regula ludi” di Pietro Pelosi, “Falsomagro” di Monia Gaita, “Poesie d’amore” di Alessandro Di Napoli. Nell’ambito degli studi sulla vita e sulle opere di Gesualdo da Venosa, cui mi dedicai soprattutto nel periodo della presidenza dell’omonimo teatro, oltre alle menzionate conferenze, ho pubblicato un saggio dal titolo “Ricerca dei madrigali anonimi di Carlo Gesualdo”, richiestomi dal prof. Giovanni Iudica quale presidente della Commissione che sta pubblicando in Milano l’Opera Omnia di Gesualdo da Venosa.
Ho collaborato con la Rivista “Passages” edita da Passigli, Milano, pubblicando “Il caso Erika” e collaboro attualmente con “Nuovo Meridionalismo”, periodico irpino di attualità e cultura, nonché con “Sinestesie”, rivista di cultura letteraria fondata presso l’Università di Salerno.
Ho pubblicato con l’editore A. Guida di Napoli: “Io, giudice cristiano ed eretico” (2004), “Verità al risveglio” (2006), “Percorsi tra Legalità e Valori” (2009), “Sentinella di vita” (2010), “Sciroppo amaro ed altri veleni” (2012), e con l’editore “International Printing” di Avellino “I ragazzi della via Vasoli” (2012).
Con “Vivere balenando in burrasca”, silloge di 20 liriche edita da Scuderi di Avellino, sono pervenuto in età più che matura e quasi inconsapevolmente alla poesia, essendo nate le prime liriche (“Meriggio sonnolento” e “Meriggio pensoso”) dal desiderio di mia moglie Anna che scrivessi qualche verso per lei. Incoraggiato da un lusinghiero giudizio critico del professor Giorgio Bàrberi Squarotti, ed essendomi quindi appassionato alla poesia, ho continuato a scrivere altre composizioni che, concedendo un minore spazio ai contenuti autobiografici di “Vivere balenando in burrasca”, esprimevano le emozioni nascenti dagli interrogativi su tematiche di più ampio respiro. Nacquero così, circa un anno dopo, le 40 liriche di “Quel foulard giallo-nero”, rivisitazioni e approfondimenti per settori delle mie esperienze di vita, con riflessioni filosofiche e religiose, proprie dell’età longeva.
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Intanto, già nella fase di pubblicazione della seconda silloge, ho continuato a scrivere componimenti ispirati dalle più varie occasioni e con un’accresciuta versatilità, nei quali ogni ordine prefissato e qualsivoglia schema progettuale hanno ceduto il passo alla spontaneità di idee e nuclei di pensiero potenzialmente omogenei alla creazione poetica, corredate di immagini, di simboli, di visioni. E mi sono avveduto, nella stesura delle 40 liriche di questo volume, che in esse aveva trovato conferma una concezione della poesia da me già espressa sulla copertina di “Quel foulard…”, quella cioè di un rifugio dell’anima e quindi dell’essere, cosicché non mi sono sentito diverso dall’autore dei primi due libricini. In fondo, nella prima e nella seconda silloge la fonte di attingimento dell’emozione era stata diversa, ma identica la lente dietro la quale l’occhio aveva osservato un momento di vita o un aspetto della realtà. Nella prima e seconda silloge il primo lavoro di scandaglio l’aveva compiuto la memoria, per porgere l’occasione di una trasfigurazione in versi. Stavolta la realtà fisica circostante, le immagini di persone, cose, situazioni o luoghi cari, non hanno fatto in tempo a rinchiudersi nel mondo dei ricordi che l’emozione li ha subito fermati e impressi in versi sulla carta bianca. E’ stato certamente così per quasi tutte le poesie, con le sole eccezioni di “Giocattoli a corda”, e delle fanciulle che ruotarono intorno al cuore di un adolescente, lasciandovi il lieve segno di una indelebile carezza.
                                                            Gennaro Iannarone



Amori celesti

Non avrai più, forse, un Cantico delle Creature,
 o mio mondo, or che da te si leva tanto lamento.
Io ti vedo come un vagabondo dei cieli, nulla di
stabile e di serio potrà mai in te albergare, dopo
 che sono cresciute nel tuo seno stirpi di serpenti.
                    Tu hai sempre ricercato l’amore altrove, nel tuo
primo rotolar per l’Universo intero fu un attimo
dell’infinità del tempo che hai incontrato il Sole
e te ne innamorasti alla follia, or gli giri intorno,
pare per l’eternità, ma la mente piccola di uomo
sa che avrà un dì finale anche l’amor delle stelle.
Minore affetto doni alla Luna, che non ricambia
come l’Astro maggiore, soltanto una faccia agli
occhi tuoi offre, mutevole e falsa, a te nasconde
quella seria immutabile, dove conserva le verità
inconoscibili, lei, Iside, il segreto oscuro e duro.








Anthea
   Ho quasi le visioni di Atteone, quando il tuo passo
osservo, leggero, che par volare senza toccar terra,
ad Artemide mi vien d’assomigliarti, selvatica dea
dei boschi, con le frecce e la faretra. Più serenità mi
dà scoprire in te la triste allegria di marzo che sa di
aver nell’arco dei suoi giorni un pezzo di primavera
                 ma non dimentica un umor d’inverno freddo e cupo
                 alle sue spalle. Sii lieta e ripensa al sorriso di Maria.















Casa avita
In cima al monte, dove è terminata la salita,
si adagia sonnolenta la mia casa, svegliarla
potrebbe solo il campanone della cattedrale
se suonasse ancora una volta i 33 rintocchi.
Un solo cuore pare che tutti ancor li ascolti
e rallenti, compunto, nel numerarne il peso,
vela bellezza e sorriso sui volti la mestizia.
Mi penetra con lo sguardo vivido di febbre
chi giovinezza esaltò con i possenti accordi,
poi con il lacrimar dei suoi quartetti coltivò
una serra di crisantemi dentro l’animo mio.
Mi specchio nell’occhio del folle stralunato,
poi rimugino con triste meraviglia come sia
opera di impietoso tempo questo reliquiario,
che non parla se non per strizzarmi l’anima.







Casa silenziosa
C’è un silenzio nelle stanze che dà parole
alla voce che sta risuonando dentro come
una preghiera. Questo santuario accoglie
uno straniamento del cuore che un antico
palpito di giovanile età risvegliano occhi
d’un ritratto che giammai si spegneranno,
  come gli altri che l’onda di mia cangevol
vita veder non han potuto. Tace ogni altro
estraneo volto assorto ch’adorna le pareti,
il lor pensare si insinua in me e vi aleggia
com’essenza su felpato passo ch’è già via.













Cielo obliato

Non v’è più desiderio di librarmi nel cielo,
il rigore della logica mi mantiene al passo,
sicura guida fu a me nel governo della vita,
or mi dissuade da ogni slancio e non esorta
a levar l’ancora da questa rassicurante riva,
ove la memoria torna all’età dell’innocenza.
Come disteso nel fondo di una barca, sento
il rullio dell’acqua tranquilla che or la culla,
mentre l’inerzia mi dondola l’animo sereno,
e io sorrido al pensiero d’interrogar le stelle.














Colombina

C’è una colombina in gabbia fuor della vetrata,
attende di partire con i bravi cacciatori per fare
da richiamo e attrarre sotto tiro i suoi amichetti.
Intanto spinge giù dalla gabbia con il suo becco
le bricioline che felici fanno gli uccellini. Gode
del sentirsi mamma passera e di aiutare a vivere
chi, volando in libertà, non teme canna di fucile.

















Cos’è l’Amore

Se mi chiedi una prova certa del mio amore,
prenderò in prestito l’intero spazio del cielo
e vi allestirò sulle candide nuvole un grande
altare perché lì risuoni un “sì” divino; anche
il primo nuziale talamo lassù costruirò, luci
di stelle sulle nostre notti folli d’Imeneo, ma
se quando ridiscenderemo sul pianeta vorrai
vedere se nel mio animo appare la tua effige,
ti pregherò d’attendere che risaliamo in cielo,
dove potrà averla impressa soltanto l’eternità.














Cuore gesualdiano

Sei anche tu un principe dalla smarrita fama, come Carlo
e i suoi madrigali che tanto amasti. A questo gesualdiano
vero cuore, che breve tempo ha pulsato, nessun omaggio
han reso musicologi di lontan venuti, ignari di tua tradita
eredità. Ma non crucciarti, Antonio, ché anche il Venosa
soffre al vedere la sua dolente, grande musica dell’anima
dissezionata dalla fredda analisi in accordi ed in semitoni.
Soltanto il Castello è a voi fedele, e lassù ironico sorride
della scienza, che rimane sorda a un cembalo che piange.















Dobermann

Leggenda vuole che la tua anima sia rinchiusa in così
angusto recinto che alcuna espansione può consentire
che diluisca il feroce istinto nella specie dei cani miti,
che non rischiano mai di attinger cattiveria per pazzia.
Tal rischio pare invece incombere sul mio spirito, che
va sempre più estravagando fuori dalla normal misura,
insofferente d’ogni ortodossia, bruciante d’un inquieto
anelito che l’eternità della sua memoria vuole attingere
e s’infuria per lo sbarramento del tempo che lo incalza,
come è tua sorte, cane che soffri l’asfissia dello spazio.














Dolente bellezza

Sto contemplando la mia tristezza, caro illustre amico,
maggior di quella che mi abbian dato gli arrugati volti,
un tempo belli. Ché, se per il pendio natural scoscende
l'armonia di linee che in vetta al colle dell’età giovanile
fu perfetta, si acquieta e tace ogni ragione, ed il logorio
accetta che lo sguardo attinge. Ma se al di fuori il lume
d’intelletto non si affievolisce mentre dentro la fiamma
è accesa e ogni declino dell’esterne sembianze non vale
a spegnerla, ognuno il frutto intramontabil dell’eloquio,
e di suoni e di canti crede di godere.  Più duro e dolente
giunge allora il disinganno, quando archi e colonne ode
e vede crollare in un solo schianto di tanto monumento,
e triste e pensoso si fa della caducità dell'umana specie.

 







 Felicità

La felicità non attraversa il tempo,
si aggira nel nostro esiguo spazio
immenso,
ma quando alla mente arriva
non v’è attimo per coglierne
l'essenza,
che il cuor l’apprende,
per bruciarsela dentro,
in un lampo,
con un lamento.




















Giglio d’oro

Tu sei il più bel figlio della dorata
messe che rigoglia intorno ai tuoi
due fiumi silenziosi, donde venne
il nome del dolce paese collinare,
che al cielo eleva il tuo splendore.
Ti ama con il cuore e con le mani
che ti hanno intrecciato, sapienti,
sensibili, delicate come di madre,
e invoca, con animo in preghiera,
perenne affetto dal Tutor dei mali,
che è bello nella sua misericordia,
mentre sparge lo sguardo dall’oro
che l’adorna su un popolo devoto,
e per lui già vede luminosi campi.














Giocattoli a corda

Mi raccomandavi di non scoppiare a piangere quando
il motociclista con sidecar che correva veloce sotto il
tavolo, girava fra le sedie, cambiava direzione a ogni
urto mentre lo rincorrevo battendo le mani di allegria,
si sarebbe d’improvviso fermato. La sua corda durava
poco tempo, solo un sogno che non si arrestasse mai.
Poi vennero i motociclisti a batteria, e appresso quelli
telecomandati, ma non mi son mai sentito un bambino
sfortunato per essere vissuto all’epoca dei giocattoli a
corda. Caricarlo girando fino in fondo la sua chiavetta
nera dietro la schiena, vederlo scarrozzare nella stanza
la mia gran gioia rinnovava, come se la sua vita da me
dipendesse. Gli carezzavo il casco prima che ripartisse.
                                         
















Gioventù cieca

Quante volte io vorrei parlarti, ragazzo mio,
dell’approssimarsi d’una stagione d’integrale
ottundimento, quando penserai di salpare per
quell’isola che fantasia e passione ti avranno
ragionato e costruito in mente come tua meta.
Sii prudente nel viaggio che ti attende quando
ti avvicinerai alla rada scelta per tuo approdo.
Attento che non tocchi lo scafo una insidiosa
roccia, sporgente dal fondale, che tu potresti
non vedere se ti acceca il brillare delle acque.















Guscio di noce

Non avverte intorno a sé festosità di primavera
un ciliegio fiorito a lato del viale, non lo guarda
l’ospite che arriva triturando pietrisco e polvere.
Qui non c’è cuore triste, eppure gli animi vivono
ciascuno per proprio conto, come in un guscio di
noce aperto il frutto ancora intero con i ventricoli
distaccati. Stanno bene così, nella gioia invisibile
di un pensiero antico che ancor li avvince. Amore
non si donano i due cani, che talvolta litigano per
via di una cuccia al sole, poi si scambiano carezze
meravigliose. Con filosofia è buona una prigionia.



















Jesus, my God

Dormirono tranquilli i giudici quella notte quando nel
cortile del gran Sinedrio si udiva sol la voce di Hanna.
Una domanda sola lo liberò di Te. Pianto amaro versò
il più caro dei discepoli e vana la preghiera di Procula
di aver pietà. Ma patisti il più gran dolore nel sentirti
abbandonato dal tuo Dio prima di spirare sulla croce.
Orgoglioso di essere nato da donna, le Tavole ancora
salde di Mosè avevi ardito corrodere, abrogasti leggi
ch’erano sacri, intoccabili valori di un popolo supino,
che ti fece intorno moltitudine per guarir da infermità,
non per darti cuore d’ascolto alle oscure tue parabole.
Tu le ripetesti in mente quelle parole che oltrepassato
avrebbero tutti i millenni, fino al terminar del tempo,
per la evidenza di una potenza che eguagliava il cielo.
Vedesti maturare la tua gloria non subalterna al Padre
celeste, putativo, come nella profondità dell’animo lo
sentivi Tu, Figlio dell’uomo. Ed allora riemerse la tua
vera natura di ribelle, pulsò il ricordo della gran forza
che uscendo dal tuo seno avea guarito un’emorroissa.
Il buio del sepolcro fu squarciato da divine fiammate,
che ti sospinsero in alto, o sublime figura, e nella luce
dell’alba più radiosa fu tutta tua la vittoria sulla morte.


Kitty

Forse tu non giovane cane, che abbai al gatto lontano
o alla folata di vento che ti scuote la cuccia ed ondula
la tenda, non hai mestizia della solitudine, né un lieve
patimento per l’intemporanea assenza del tuo padrone.
Malinconica per noi umani è l’universale, progressiva
dispersione della realtà, che senza annuncio fugge via,
               si impoverisce della compagnia, spesa che sia la vita.
Credo che i pianeti rallenteranno il giro intorno al sole,
che noi mortali pensiamo sia eterno, come pur le foglie
non orneranno gli alberi nelle nuove stagioni sfigurate.
Di una famiglia numerosa, di grande riserva di amicizie
non resta a te vicino che un cane che neppure ti conosce.
Se con lui discuti che si resta soli a poco a poco, avverte
per istinto che gli stai parlando di cose serie, i suoi occhi
ancor più umidi ti appaiono ed è consolante illusione che
lui abbia capito della tua non lontana dispersione e come
   meglio può un mesto, inespresso saluto ti stia anticipando.










Labirinto della vita

L’uscita dal labirinto della vita è come il ritorno a casa, poi
che al mattino l’hai lasciata per entrar nel reticolo di strade
della città, con tante faccende da sbrigare in un giorno solo,
senza averle programmate, ma pensate nel vago, a seconda
d’un parcheggio trovato libero per caso, d’un ufficio aperto
al pubblico. Peccato per il tempo che hai perduto per uscire
da una via imboccata per sbaglio, perché eri sovrappensiero.
Intanto sono passate rapide le ore, è finita presto la giornata.
Sopraggiunta inattesa è l’inoltrata sera e arrivato il momento
che devi rientrare per la cena; una candela è da tempo accesa
con la pietanza già pronta su una tovaglia bianca. Sei stanco,
non badi alla bontà della cucina, pensi al tanto che è rimasto
d’incompiuto e guardi trepidando solo il tremolante moccolo.
















La compagna vecchiaia

Non so più dove portarti in giro, o mia vecchiaia,
chissà se c’è un posto al mondo ove lasciarti sola.

































Lavorare stanca

Nel passo lento che spingi verso il Tribunale,
caro tronco antico di avvocato, sul tuo stanco
viso inciso dalla lotta colle pretese di vittoria
del cliente, con l’arroganza dei tuoi avversari,
non vedo la impotenza a superare la tardività
di ascolto altrui, ma l’avvilimento della forza
del pensiero, dubbioso di giudici e di giudizi,
e questo io ti leggo sulla fronte: una speranza
trepida, lavorio di cuor che veramente stanca.






















Memoria felice

All’esplosione di grida d’una carnalità gioiosa
che tra poco ci avrebbe compenetrati entrambi,
cacciando fuori dalla coscienza spazio e tempo,
pigiai il tasto rosso seminascosto, che cominciò
ad assorbire nel sonoro venti minuti di memoria
felice, che il mio vissuto non ne serba l’eguale.
Creai un gran tesoro, ora chiuso in uno scrigno,
che talora per amore vuole ripresentarsi ai sensi.
























Nascita di una poesia

Sei rimasta per una vita intera estranea al mio pensiero
che sol freddo raziocinio incasellava in ogni suo scritto.
                Né un volo della fantasia, né lo slancio di una passione
cadevano sulle bianche pagine, che rinchiudevano in sé
la pietà e l’emozione sotto una maschera d’indifferenza.
Solo or m’avvedo, ripercorrendo il passato, che tuttavia
un seme era caduto impercettibilmente nel mio fondale
dal lacrimar terreno e che un germoglio silente era nato,
alimentato dall’umore degli occhi miei quando tristezza
vi albergava o erano commossi per una domestica gioia,
o in loro mutato avea l’amore l’antica vision del mondo.


















Natio borgo lontano

Questa estate agostana par che in me rallenti
fino a fermarsi e nella sua atemporaneità stia
collocata dove la vita si è svuotata come una
piazza dalla gran folla, ch’era prima adunata
con sventolio di bandiere. La stagione nuova
per me non nascerà nel natio borgo, bisbiglia
al mio orecchio l’autunno, che attende lunghi
riposi di gelo. Sente l’avita casa quant’è viva
la voglia di salir sul monte, ma ignora di aver
dentro di sé tanto vuoto da corrodere solitaria
anima né il piombo può alleggerire che grava
 una memoria che vita nuova lassù non attinge.












Occhi di rumena    

Mi hanno fissato gli occhi di una rumena,
che stendeva la mano da una veste lacera.
Passato oltre, giratomi, non l’ho vista più.































Partenio ventoso

 Il vento non sale dalla valle com’è sul mio monte,
ove agita l’aria e fa volteggiare le banderuole che
risucchiano il fumo dai comignoli. Io non credevo
che il vento potesse abbattersi su dal cielo, ma mi
pare di aver visto Eolo inerpicarsi sul Partenio, di
là senz’ordine di un punto cardinale sguinzagliare
i suoi figli, che discesi in luogo ignoto percuotono
la montagna, l’aggirano con furore sopra la cuccia
dei cani, che mugolano chiedendo aiuto. Ci siamo
rinchiusi in villa e ci guardiamo in viso, al tremito
forte delle ampie vetrate volgiamo gli occhi in alto,
e torniamo a guardarci ancora in viso con il terrore
che i frantumi del monte ci scagli il vento addosso;
chissà se s’aprirà presto un varco a libecci e grecali
verso la piana per trovar pace pei mulini scalmanati,
                  








Paura di volare

Fui rotolato dal mio monte ch'ero appena
nato, e mi arrestai a mezza costa per bere
il latte di fortuna d’una nutrice contadina.
Troppi i nocchieri che i sentieri della vita
 hanno più volte deviato, invertito di rotta,
  un ondular d’altalena fu gioco del destino.


















Per una donna giudice

Collocherei gli ardori e le intuizioni tue in Parlamento,
per vederti passionaria d’idee di lotta, di cambiamento,
ma deponi, ti prego, la bilancia della Giustizia. Athena,
che fondò il mitico Tribunale, non era figlia di donna e
dea lei stessa della ragione, la verginità serbò, d’amore
passioni non conobbe, quale emozione della vita turbar
poteva il suo equilibrio nel giudicare Oreste matricida?
Tu guardi l’ago della bilancia, che sopra e sotto lo zero
oscilla, e accade sempre che l’ha superato e a te la roba
 la vendono col buon peso e sii contenta, ma se tu vorrai
 pareggiare la Minerva dell’Areopago, dovrai spogliarti,
 o mia giudice, della natura femminile; vedrai allora che
 la tua bilancia con qualsiasi merce che hai da ponderare
  lo zero spaccherà con una sapiente, sola ed unica pesata.

        








Poesia tardiva

Sei venuta troppo tardi a farmi visita; ora che quasi
tutta è scorsa la vita temo che al nostro amor senile
non basti il tempo per spegnere l’ardore che dentro
si è acceso di osservare la vita con una lente nuova,
non per riconfigurare in linear disegno l’ondulante
ricurvo mio percorso, ma per descriverlo così come
ora appare alla longeva mia vista, ch’è lieta del filo
donato da un’Arianna di fortuna che alfine accanto
 mi ritrovai, per sortire dal labirinto donde passando
  il varco avvistai fra le balze tortuose guida alla foce.

                    












Portale dell'Epifania

Come un notturno itinerario il viaggio che inizia
dal dì dei cimiteri quando si posano con fiori sul
marmo i pensieri per l'estinto, dopo una orazione
biascicata e il mormorio di una recente notula di
famiglia, una curiosità di chi presto si era spento.
Il vero è nell'algor del cuore, e nel pudore d'aver
sentito dentro di sé il pulsare di una longeva vita,
pur prefigurandosi la lenta tombale marcescenza.
Tunnel buio appresta a noi il brumaio, con giorni
assottigliati di luce con nebbie e il cielo plumbeo,
con ampi tappeti di foglie fradice, poche castagne
sparse tra infidi funghi e il rosso arancio del cachi
uno scherzo di natura, o il pentimento tardivo, per
farsi perdonare un autunno che non ha più i colori.
E costante procede un accorciamento dei tramonti,
lontano ancora il solstizio, con la rinascita del sole,                   
ecco, quando anni fa io toccai il fondo, fu proprio
la notte del solstizio che tu moristi. E tale ricordo
ritorna per me duro e spegne ogni possibile letizia.
E il frenetico via vai, e pranzi e cenoni, e il forzato
acquisto dei regali paiono soltanto riti senza fede,
come il blasfemo accumulo di illuminati tesorini in
terra sparsi sopra un albero introvabile a Betlemme,
offesa ai pastori poveri di un Presepe dimenticato.
Poi finalmente, come per liberazione dal passato, tu
apri l'anno e il Portale grande dell'Epifania, tu, mese
dimenticato da musici e poeti, degli altri tuoi fratelli
il più severo, ma serio, con la tua neve che permane,
mese senza lustro di ricorrenze, Januarius della vera
Porta Santa, della visione primiera ch’ebbero i Magi
di Gesù, ed ogni uomo di vita eterna ricevé speranza.



















Solitudine inquieta

Un pomeriggio, e poi due giorni, breve
solitudine inquieta, come corda di arco
tesa. Un cielo prodigo di brillanti stelle,
sfolgorante al mio rientro pedemontano,
dona la promessa di una notturna veglia
su un sonno tardivo e pur di malavoglia.
Chissà quale degli astri la mia vita riunì
ed or gioisce che disegni perfetto corso.
Non v’è alcun altro respiro sui guanciali
fuori del mio che sogna i numeri al lotto
già vincenti. Da uno spiraglio di finestra
una grande stella ridipinge un luminoso
punto sull’abat-jour ch’è appena spento.
Odo la pioggia che striscia sul fogliame,
abbaia il cane cui non sfugge una ruota
cingolata di pietrisco, risuonano battenti
di metallico cancello. Vorrei una musica
a salutare il suo ritorno, ma di un attimo
la precede l’abbraccio felice sulla soglia.





                      Sortilegio

Ti guardo, bianco cigno, mentre intrecci danze a un bellissimo canto sulla verde radura che cinge un lago di acque chiare. Luce radente di un’alba che sta maggiorando dall’alto della collina il tuo stato felice investe, accresce il superbo passo e le altere movenze del tuo candido collo, mentre diffondi la tua melodia su quella che fu un tempo torbida palude e tu la ignoravi. Lontano eri e solo, in un lucore a sprazzi, frastagliato dal fitto fogliame ove vivevi imboscato, ed a sera godevi della voce del vento o cupa di notturni uccelli, contento della serenità donata da quella foresta oscura, custode ignara della tua vera essenza. La scoprì un mago e con un sortilegio ti lievitò fino alla sommità della collina, da cui veder potesti la tua nuova alba. Per incantesimo avevi forti ali, eri dipinto di bianco. Allor volasti presso l’onda azzurra, con la vaghezza di cantar la gioia della tua metamorfosi improvvisa. La palude mutata in chiarità fu da specchio al cielo.












Teatro Gesualdo

Molti vedono nel tuo futuro un Calo di sipario,
sono pensieri che rattristano chi ti ama ancora,
chi serba gelosa nella memoria un’architettura
d’avanguardia che fu voluta da demoni furiosi,
nati da crollati muri. Pulsò dalle macerie cuore
di rivalsa contro l’avversa sorte e palcoscenico
reclamò per ospitar l’Aida, come mare azzurro
un’amplissima platea, grandi spazi alla cultura.
Esorcismo di calamità il sogno di un divertirsi
senza limiti, fu così che sei nato mastodontico,
e con la fragilità che dà la finzione d’una gioia.
In te tutto si può fingere, è la tua vera essenza,
ma non i sentimenti di chi è di te il burattinaio.
                   












Traversa Tuoro

Traversa Tuoro, hai perduto il sorriso nella serietà
dei baci che incollano i ragazzi innamorati, angolo
buio delle scale oscuro come il futuro di un amore.
Ed io non vedo nei raggianti e felici sguardi il sole
che penetrava tra le foglie d’un abete e dalla piazza
riempiva l’anima e il triste mattino della domenica,
ogni nuvola spazzando dal mio cielo quei tuoi begli
occhi che salivano in un lampo i cinque piani, forse
credevano nel chiarore del futuro, come la speranza
che si inerpicava, seme di un fiore, sul mio balcone. 


















Tre fanciulle intorno al cor mi son venute…

Rosinella
Dolce finestra dirimpettaia, tu non eri velatura
di polvere del colore carboncino dei suoi occhi,
che come punta di diamante il vetro penetrava
e giungeva con un sorriso di ignota significanza
fino al mio vergine ed estatico cuore di ragazzo,
e lo traforava di via tortuosa, come stelo di rosa.
Maria
Solo all’uscita dalla scuola qualche timida
ma dolce parola accrebbe l’età ginnasiale,
e ci intrigò fino a un tenero bacio nel buio
d’una soffitta. Gli occhi dei miei compagni
non ti vedevano bella ed io tanto ne soffrii.
Delusa la pagina che si rivide bianca dopo
che una penna intinta nel succo di limone
vi si posò. Non io che lessi con la passione
di un rovente ferro da stiro, che vi dipinse
di giallo ocra la mia prima lettera d’amore.
Vanna
Dal gioco della tombola come per caso parve sorto
il nostro amore. Il susseguirsi dei numeri è mistero
così inestricabile che può anche disegnare il futuro.
Fu il 10 dell’età tua estratto dopo il 2 della fanciulla
che mi avviluppò in una bella, precoce adolescenza.
Fu la cabala d’una sera d’inverno che rivelò l’attesa
 della tua bocca. Fu questa la prima beffa del destino.

Tremula luna

L’occhio lacrimoso ha visto stanotte una tremula luna,
a tratti radiante in cielo dinanzi a un risveglio precoce.
Vano uno stropicciar di palpebre, per rivederla serena.

























Ultimo canto

S’ode talvolta che sale dalla valle un notturno canto,
son voci calde e roche d’indistinta lontananza, versi
e note di melodie antichissime, di lunga malinconia.
Sono forse anime di menestrelli che ancora soffrono
di non lenite pene e da tuguri vuoti elevano armonie
quando bruciano nel ricordo d’un amore provenzale.
O cantori e poeti che siete ora rivissuti nella oscurità,
tornate dai millenni fino a questa spiaggia, inventate
anche per me una nenia d’addormentamento che sia
dolce come dondolio di culla, perché la mia galassia
ha esaurito il suo meraviglioso latte cui m’abbeverai
 per nutrire una vita assetata di gioia, sazia di affanni,
 fiume che guadai fra l’onda lieve e rovi di sterpaglia.


              










Unico eterno amore

Tu sei l’unico grande amore che vorrei mi venisse
in sogno con una vestaglia nera, come è tua moda:
assecondami, e riserva ad altri occhi molte aurore.
































Villa in attesa

 In questa imprevista villa dove è stata risucchiata,
 come in vortice d’acqua dolce o in imboscamento,
una stagione di mia vita involontariamente stanca
 si sta, a destra un monte, come su isolata spiaggia,
 da cui s’attende arrivo d’onde ancora non formate.
Se guardi i lontani orizzonti, ti sembrerà di vedere
un luccichio marino, ma è solo il labile incresparsi
di un futuro che non è il nostro, è di questa pagoda
bella, che avrà durata più di noi e quelle onde potrà
 accogliere nel tempo che si distenderà senza la vita,
 concedersi nuda in solitudine al vento che la sferza,
 e poi le fa piegare in un inchino gli alberi d’intorno.














Visita in sogno

L’amor perduto talora mi fa visita in sogno,
è triste che non sa più rintracciarmi altrove.
si duole di case vuote, d’un giardino di rovi.

























Vita e Destino

Tu sai, padre, quando salgo di rado a casa nostra,
che mi fermo qualche volta per parlarti dei pezzi
di esistenza che contemporanei fummo e ad ogni
mia parola, pure se mormorata, caduta nel raggio
del tuo ritratto, io resto a guardarti fino a quando
sono sicuro che l’hai udita, e così di sentirti vivo
meravigliosamente io gioisco perché mi rincuori
con il dolce sguardo che era a me guida e amore.
Ma stavolta sono salito su Frigento per ragionare
della storia della mia vita che è quasi all’epilogo.
Sono il figlio che ti pareva di vedere come opaco
secchione con le manie per matematica e scacchi,
che correva dietro alle passioni dello zio materno
per il disegno, la fotografia e altri frivoli interessi.
Temevi o padre che dal gene di mia madre avessi
ereditato non le doti di giurista, ma i gusti estetici,
che io reclamavo di voler coltivare. Allor reagisti,
menando vanto della esemplare storia da te scritta.
Non comprendesti allora in qual profondo fossato
quelle parole precipitarono la dignità di tuo figlio.
E pur m’avvidi di non poter scrivere pagine simili
alle tue in magistratura, e dall’emularti si distolse
la mente: l’asse del progetto di una vita si inclinò.
Or saldo è il cuore, scomparso il tremito alla voce
nello scorgere che non mi mostri fronte corrucciata
ma un sorriso, un chiaro segno di distanza dal reale,
mentre risuona più forte nell’orecchio mio un verso
del poeta, più vero al ritorno alla casa dell’infanzia:
Penso che  per  i  più  non  sia salvezza, ma taluno
sovverta   ogni  disegno,  passi  il  varco, qual volle
si  ritrovi”. Non saprei spiegare, padre, perché il tuo
disegno, pur dettato con saggio cuore, s’è sovvertito,
ma allegrati di me che una gran gioia sento che così
sia stato, tu sai che qual mi volevo mi sono ritrovato.
Vedi che trabocca dal ritratto il sorriso di mia madre,
che approva il dir di mia salvezza su questa spiaggia,
da cui salpammo entrambi, dopo che taluno apprestò
per noi uguali caravelle, e di anni dislocò le partenze.
Se amaro ricordo del tuo patito finale sparge un velo
di tristezza su di me, non ti sfuggirà anche il riflesso
d’alti marosi che superai con la volontà di rincorrere
quelle passioni che per te frivole potevano sembrare.
Come l’usare un volgar linguaggio per il diritto serio,
esortare gli scolari con storielle e aneddoti al rispetto
delle regole, suscitare il loro applauso con un parlare
scherzoso, tanta grande gioia quella di essere riuscito
a rivelare alla età dell’innocenza quanti colori umani
si celassero dietro il severo dettato delle nostre leggi.
Quanti i giovani volti sorridenti che hanno offuscato
il ricordo della grande ansia che abbuiava visi di rei,
pensosi solo che misericordia avessi della loro sorte.
Come era diversa l’intelligenza tua, che si sforzava
di non apparire! L’esplicare il sapere è però amore,
e ogniqualvolta desideravo apparire, padre, è stato
per il desiderio d’amare e di sentirmi amato, anche
il silenzio con chi subir doveva di esser processato
per una malintesa sacralità del diritto mi ripugnava
come crudeltà. Perciò io giudice eretico e cristiano
mi definii, non per troncare la traccia da te segnata
ma perché d’un tale demone ero preda e posseduto.
Ed è stato forse per ricerca di libertà scrivere versi,
dai quali talvolta è emerso il fervore di una visione,
tua ricca eredità Gesù, come l’amore per la musica.
Credimi o padre, fievole il batter di mani alla fama
del giudice ma per il presidente del Teatro scroscia
l’applauso; una domanda sorge ed il mio sguardo si
volge ancora sul tuo ritratto che or vede più attento.
Quarant’anni di magistratura come sepolti, pubblico
consenso tributato allo scorcio vuoto e appariscente
d’una diversa esistenza? Tu pensi a cosa siamo stati
noi? L’avere giudicato il bene e il male non avrebbe
assicurato duratura fama! Più vicino al vero è invece
che il titolo rivestito in vita, modesto o elevato, altro
non è ch’una sovrastruttura che a noi non appartiene,
non è la nostra vera umana essenza. La maschera che
portiamo del mestiere dal volto si distacca e precipita
nella tomba, pennello color nero di oblio la ridipinge.
Vano è elevare il nostro sguardo fino a mirar gli astri,
aspirando eternarci. Coscienti siamo che dalla materia
che ci imprigiona non spiccherà un volo né cinguettio,
se da dentro l’animo non nascerà l’idea, la figurazione,
una immagine che si stacchi dalla nostra misera forma,
sì che ognun l’avverta come se specchiasse la sua vita,
la sua natura, la sua gioia, il suo dolore, e sia contento
che il poeta gli abbia scovato occulte, sopite emozioni.
Qui son venuto o padre per confidare a te della brama,
dell’indicibile ansia di uscir da me, per attingere l’arte,
l’invenzione. Se la mia vita s’è orientata fuor dalla tua
previsione, ti prego di inchinarti al Fato, o al superiore
volere che si è contrapposto, e di assecondare la realtà
nuova che ora trasmutar pare tutto l’essere mio. Pongo
nelle tue mani questo desiderio intenso ch’è ora giunto
a bruciarmi dentro e fino a ricondurmi oggi qui, presso
le icone tua e di mamma, come per voto a un santuario.
Il mio primo libro lirico ti accolse come il protagonista
della mia esistenza e raccontò di una insperata salvezza
nel veder ricomposta ogni frantumazione della mia vita.
Il verso ancor nascerà da un’amica malinconia, sempre
accanto come l’occhio tuo al mio passo che s’allontana.
Fine

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