INTRODUZIONE, BIOGRAFIA E PREFAZIONE ALLA SILLOGE
“Guscio di
noce”
Nel convincimento che ogni creazione letteraria o artistica, a
maggior ragione la poesia lirica, non possa essere disgiunta dalle esperienze
di vita dell’autore e dai segni che esse hanno lasciato nel suo animo, ho
ritenuto di far seguire a questa Introduzione, nello stesso contesto, sia la Prefazione
che la mia Biografia, anche perché ho avvertito l’esigenza di raccordare questa
silloge alle prime due, con l’intento di riunirle poi in un cofanetto.
Premetto
di aver già esposto nell’Introduzione alla silloge “Quel foulard giallo-nero” le ragioni per cui ho ritenuto di
scrivere io stesso le prefazioni ai miei libri. Confesso, in breve, la diffidenza
verso chi potrebbe pretendere di leggermi nell’animo alla ricerca della fonte dell’ispirazione,
quando la stessa ricerca per me è risultata spesso ardua, se non vana. Non gradisco,
inoltre, i quasi immancabili inquadramenti letterari, poiché credo che ogni
testo poetico abbia una vita propria in quanto sorge dall’ispirazione che
l’autore ha attinto dai sottofondi e dai bassifondi della sua vita, e talora
anche dai doppifondi, che sono forse la vera essenza della poesia.
La
presente raccolta segue di un anno “Quel
foulard giallo-nero” e di due anni la prima silloge: “Vivere balenando in burrasca”, e a queste due appare ai miei occhi indissolubilmente
legata, al punto da sembrare un solo libro, che inizia a raccontare in versi il
percorso di una vita, frantumatasi in più di un’esperienza personale e
professionale e poi ricomposta in forza dell’amore di una donna (“Vivere…”), prosegue con un’analisi più ampia
e approfondita di temi esistenziali, d’amore, religiosi, filosofici, con
frequenti riflessioni su antichi ricordi (“Quel
foulard…”) e continua infine su temi pressocché analoghi e omogenei, cui
però se ne aggiungono altri in virtù delle visitazioni e riflessioni sui nuovi
luoghi in cui si è spostata la vita, restando quasi eliminati i temi nascenti
dai ricordi e accresciuti, al contrario, quelli ispirati dalle proiezioni nel
futuro. Sempre presente è la vena malinconica, che pervade tutti e tre i volumi,
mentre traspare uno sguardo di meraviglia di come sia trascorsa una vita che è
sembrata tutta inventata, e l’autore non sa neanche da chi.
Eppure
questo libro è nato in mezzo all’allegria, dove un guscio di noce ha donato l’integrità
del suo frutto al titolo, un ciliegio è fiorito per adornare la copertina e
quattro giovani innamorati hanno meritato il posto nella dedica.
E
che dire all’autore? Forse gradirebbe sentirsi recitare:
“Tu pensoso in disparte il tutto miri; non
compagni, non voli, non ti cal d’allegria, schivi gli spassi, canti, e così
trapassi di tua vita e degli anni gli ultimi fiori”
&&&&&
Sono nato a Frigento nell’estate del 1940. Dopo la scuola media la
mia piccola famiglia si trasferì ad Ariano Irpino, dove mio padre era giudice e
io potei studiare il liceo classico, maturandomi nel 1959. Laureatomi in legge,
divenni magistrato e fui prima pretore a Napoli e poi giudice ad Avellino, dove
si è svolto tutto il resto della mia carriera, come Pubblico Ministero, Giudice
del settore civile e Presidente della Sezione penale e della Corte d’assise. Perduta
mia moglie nel 1994, mi dimisi nel 2004 dalla Magistratura e assunsi la carica
di Presidente del Teatro Gesualdo di Avellino, ricoperta per tre anni fino al settembre
2007. Passai a nuove nozze nel settembre del 2010 con Anna, e continuai la
carriera di magistrato tributario fino alla carica di Presidente della Commissione Regionale
della Campania.
Dal 2002 mi sono dedicato all’Educazione alla Legalità nelle
scuole ed a lezioni di Diritto penale e processual-tributario presso la Scuola
forense di Avellino, le Università di Napoli e di Salerno e la Scuola di Alta
Formazione del Giudice tributario in Napoli, pubblicando articoli su riviste (“Successione nel tempo delle leggi penali
tributarie” nel 2000 e “Annualità
dell’illecito penale tributario” nel 2001, nonché “Teoria generale dell’interpretazione” nel 2006, opuscolo destinato
ai Dirigenti Scolastici della cui Associazione ero divenuto socio onorario.
Nel contempo ho partecipato
a vari convegni su materie letterarie e artistiche, con particolare
riguardo alla poesia e alla musica: “Carlo
Gesualdo, poetica e musica” (2003), “La
poesia tra Rinascimento, Manierismo e Barocco” (2004), “Francesco Petrarca e la modernità della sua
passione amorosa” (2004), “Carlo
Gesualdo, l’uomo, i suoi tempi e le sue passioni” (2005), “Leopardi e Montale” (2006), “La Poesia e la donna” (2011), “Carlo Gesualdo nel 400° della nascita (2013),
e anche con brevi saggi: “Socrate in
classe” (2008), “Poesia e Musica” (2009), “Filosofia e Musica” (2010), “Viaggio nel diritto e dintorni” (2013),
“Giovanni Palatucci e il suo sacrificio
della vita” (2012), “L’immortalità
dell’anima in Sant’Agostino” (2012), “Una
testimonianza per Alberto Moravia” (2013), “Reditus ad Deum” di padre Michele Bianco (2013), nonché alla
prefazione di testi di poeti irpini: “Breviter,
sic et simpliciter regula ludi” di Pietro Pelosi, “Falsomagro” di Monia Gaita, “Poesie
d’amore” di Alessandro Di Napoli. Nell’ambito degli studi sulla vita e
sulle opere di Gesualdo da Venosa, cui mi dedicai soprattutto nel periodo della
presidenza dell’omonimo teatro, oltre alle menzionate conferenze, ho pubblicato
un saggio dal titolo “Ricerca dei
madrigali anonimi di Carlo Gesualdo”, richiestomi dal prof. Giovanni Iudica
quale presidente della Commissione che sta pubblicando in Milano l’Opera Omnia
di Gesualdo da Venosa.
Ho collaborato con la Rivista “Passages”
edita da Passigli, Milano, pubblicando “Il
caso Erika” e collaboro attualmente con “Nuovo Meridionalismo”, periodico irpino di attualità e cultura, nonché
con “Sinestesie”, rivista di cultura
letteraria fondata presso l’Università di Salerno.
Ho pubblicato con l’editore A. Guida di Napoli: “Io, giudice cristiano ed eretico”
(2004), “Verità al risveglio” (2006),
“Percorsi tra Legalità e Valori”
(2009), “Sentinella di vita” (2010),
“Sciroppo amaro ed altri veleni”
(2012), e con l’editore “International
Printing” di Avellino “I ragazzi
della via Vasoli” (2012).
Con “Vivere balenando in
burrasca”, silloge di 20 liriche edita da Scuderi di Avellino, sono
pervenuto in età più che matura e quasi inconsapevolmente alla poesia, essendo
nate le prime liriche (“Meriggio
sonnolento” e “Meriggio pensoso”)
dal desiderio di mia moglie Anna che scrivessi qualche verso per lei. Incoraggiato
da un lusinghiero giudizio critico del professor Giorgio Bàrberi Squarotti, ed
essendomi quindi appassionato alla poesia, ho continuato a scrivere altre
composizioni che, concedendo un minore spazio ai contenuti autobiografici di “Vivere balenando in burrasca”,
esprimevano le emozioni nascenti dagli interrogativi su tematiche di più ampio
respiro. Nacquero così, circa un anno dopo, le 40 liriche di “Quel foulard giallo-nero”, rivisitazioni
e approfondimenti per settori delle mie esperienze di vita, con riflessioni
filosofiche e religiose, proprie dell’età longeva.
&&&&&
Intanto, già nella fase di pubblicazione della seconda silloge, ho
continuato a scrivere componimenti ispirati dalle più varie occasioni e con
un’accresciuta versatilità, nei quali ogni ordine prefissato e qualsivoglia
schema progettuale hanno ceduto il passo alla spontaneità di idee e nuclei di
pensiero potenzialmente omogenei alla creazione poetica, corredate di immagini,
di simboli, di visioni. E mi sono avveduto, nella stesura delle 40 liriche di
questo volume, che in esse aveva trovato conferma una concezione della poesia
da me già espressa sulla copertina di “Quel
foulard…”, quella cioè di un rifugio dell’anima e quindi dell’essere,
cosicché non mi sono sentito diverso dall’autore dei primi due libricini. In fondo,
nella prima e nella seconda silloge la fonte di attingimento dell’emozione era
stata diversa, ma identica la lente dietro la quale l’occhio aveva osservato un
momento di vita o un aspetto della realtà. Nella prima e seconda silloge il primo
lavoro di scandaglio l’aveva compiuto la memoria, per porgere l’occasione di
una trasfigurazione in versi. Stavolta la realtà fisica circostante, le
immagini di persone, cose, situazioni o luoghi cari, non hanno fatto in tempo a
rinchiudersi nel mondo dei ricordi che l’emozione li ha subito fermati e impressi
in versi sulla carta bianca. E’ stato certamente così per quasi tutte le
poesie, con
le sole eccezioni di “Giocattoli a corda”,
e delle fanciulle che ruotarono intorno al cuore di un adolescente, lasciandovi
il lieve segno di una indelebile carezza.
Gennaro Iannarone
Amori celesti
Non avrai più, forse, un Cantico delle Creature,
o mio mondo, or che da te
si leva tanto lamento.
Io ti vedo come un vagabondo dei cieli, nulla di
stabile e di serio potrà mai in te albergare, dopo
che sono cresciute nel tuo
seno stirpi di serpenti.
Tu hai sempre ricercato
l’amore altrove, nel tuo
primo rotolar per l’Universo intero fu un attimo
dell’infinità del tempo che hai incontrato il Sole
e te ne innamorasti alla follia, or gli giri intorno,
pare per l’eternità, ma la mente piccola di uomo
sa che avrà un dì finale anche l’amor delle stelle.
Minore affetto doni alla Luna, che non ricambia
come l’Astro maggiore, soltanto una faccia agli
occhi tuoi offre, mutevole e falsa, a te nasconde
quella seria immutabile, dove conserva le verità
inconoscibili, lei, Iside, il segreto oscuro e duro.
Anthea
Ho quasi le visioni di Atteone, quando il tuo passo
osservo, leggero, che par volare senza toccar terra,
ad Artemide mi vien d’assomigliarti, selvatica dea
dei boschi, con le frecce e la faretra. Più serenità mi
dà scoprire in te la triste allegria di marzo che sa di
aver nell’arco dei suoi giorni un pezzo di primavera
ma non dimentica un umor
d’inverno freddo e cupo
alle sue spalle. Sii lieta e
ripensa al sorriso di Maria.
Casa avita
In cima al
monte, dove è terminata la salita,
si adagia
sonnolenta la mia casa, svegliarla
potrebbe solo
il campanone della cattedrale
se suonasse
ancora una volta i 33 rintocchi.
Un solo cuore
pare che tutti ancor li ascolti
e rallenti,
compunto, nel numerarne il peso,
vela bellezza
e sorriso sui volti la mestizia.
Mi penetra
con lo sguardo vivido di febbre
chi
giovinezza esaltò con i possenti accordi,
poi con il
lacrimar dei suoi quartetti coltivò
una serra di
crisantemi dentro l’animo mio.
Mi specchio
nell’occhio del folle stralunato,
poi rimugino
con triste meraviglia come sia
opera di
impietoso tempo questo reliquiario,
che non parla
se non per strizzarmi l’anima.
Casa silenziosa
C’è un silenzio nelle stanze che dà parole
alla voce che sta risuonando dentro come
una preghiera. Questo santuario accoglie
uno straniamento del cuore che un antico
palpito di giovanile età risvegliano occhi
d’un ritratto che giammai si spegneranno,
come gli altri che l’onda
di mia cangevol
vita veder non han potuto. Tace ogni altro
estraneo volto assorto ch’adorna le pareti,
il lor pensare si insinua in me e vi aleggia
com’essenza su felpato passo ch’è già via.
Cielo obliato
Non v’è più desiderio di librarmi nel cielo,
il rigore della logica mi mantiene al passo,
sicura guida fu a me nel governo della vita,
or mi dissuade da ogni slancio e non esorta
a levar l’ancora da questa rassicurante riva,
ove la memoria torna all’età dell’innocenza.
Come disteso nel fondo di una barca, sento
il rullio dell’acqua tranquilla che or la culla,
mentre l’inerzia mi dondola l’animo sereno,
e io sorrido al pensiero d’interrogar le stelle.
Colombina
C’è una colombina in gabbia fuor della vetrata,
attende di partire con i bravi cacciatori per fare
da richiamo e attrarre sotto tiro i suoi amichetti.
Intanto spinge giù dalla gabbia con il suo becco
le bricioline che felici fanno gli uccellini. Gode
del sentirsi mamma passera e di aiutare a vivere
chi, volando in libertà, non teme canna di fucile.
Cos’è l’Amore
Se mi chiedi una prova certa del mio amore,
prenderò in prestito l’intero spazio del cielo
e vi allestirò sulle candide nuvole un grande
altare perché lì risuoni un “sì” divino; anche
il primo nuziale talamo lassù costruirò, luci
di stelle sulle nostre notti folli d’Imeneo, ma
se quando ridiscenderemo sul pianeta vorrai
vedere se nel mio animo appare la tua effige,
ti pregherò d’attendere che risaliamo in cielo,
dove potrà averla impressa soltanto l’eternità.
Cuore gesualdiano
Sei anche tu un principe dalla smarrita fama, come Carlo
e i suoi madrigali che tanto amasti. A questo gesualdiano
vero cuore, che breve tempo ha pulsato, nessun omaggio
han reso musicologi di lontan venuti, ignari di tua tradita
eredità. Ma non crucciarti, Antonio, ché anche il Venosa
soffre al vedere la sua dolente, grande musica dell’anima
dissezionata dalla fredda analisi in accordi ed in semitoni.
Soltanto il Castello è a voi fedele, e lassù ironico sorride
della scienza, che rimane sorda a un cembalo che piange.
Dobermann
Leggenda vuole che la tua anima sia rinchiusa in così
angusto recinto che alcuna espansione può consentire
che diluisca il feroce istinto nella specie dei cani miti,
che non rischiano mai di attinger cattiveria per pazzia.
Tal rischio pare invece incombere sul mio spirito, che
va sempre più estravagando fuori dalla normal misura,
insofferente d’ogni ortodossia, bruciante d’un inquieto
anelito che l’eternità della sua memoria vuole attingere
e s’infuria per lo sbarramento del tempo che lo incalza,
come è tua sorte, cane che soffri l’asfissia dello spazio.
Dolente bellezza
Sto contemplando la mia tristezza, caro illustre amico,
maggior di quella che mi abbian dato gli arrugati volti,
un tempo belli. Ché, se per il pendio natural scoscende
l'armonia di linee che in vetta al colle dell’età giovanile
fu perfetta, si acquieta e tace ogni ragione, ed il logorio
accetta che lo sguardo attinge. Ma se al di fuori il lume
d’intelletto non si affievolisce mentre dentro la fiamma
è accesa e ogni declino dell’esterne sembianze non vale
a spegnerla, ognuno il frutto intramontabil dell’eloquio,
e di suoni e di canti crede di godere. Più duro e dolente
giunge allora il disinganno, quando archi e colonne ode
e vede crollare in un solo schianto di tanto monumento,
e triste e pensoso si fa della caducità dell'umana specie.
Felicità
La felicità non attraversa il tempo,
si aggira nel nostro esiguo spazio
immenso,
ma quando alla mente arriva
non v’è attimo per coglierne
l'essenza,
che il cuor l’apprende,
per bruciarsela dentro,
in un lampo,
con un lamento.
Giglio d’oro
Tu sei il più bel figlio della dorata
messe che rigoglia intorno ai tuoi
due fiumi silenziosi, donde venne
il nome del dolce paese collinare,
che al cielo eleva il tuo splendore.
Ti ama con il cuore e con le mani
che ti hanno intrecciato, sapienti,
sensibili, delicate come di madre,
e invoca, con animo in preghiera,
perenne affetto dal Tutor dei mali,
che è bello nella sua misericordia,
mentre sparge lo sguardo dall’oro
che l’adorna su un popolo devoto,
e per lui già vede luminosi campi.
Giocattoli a
corda
Mi raccomandavi di non scoppiare a piangere quando
il motociclista con sidecar che correva veloce sotto il
tavolo, girava fra le sedie, cambiava direzione a ogni
urto mentre lo rincorrevo battendo le mani di allegria,
si sarebbe d’improvviso fermato. La sua corda durava
poco tempo, solo un sogno che non si arrestasse mai.
Poi vennero i motociclisti a batteria, e appresso quelli
telecomandati, ma non mi son mai sentito un bambino
sfortunato per essere vissuto all’epoca dei giocattoli a
corda. Caricarlo girando fino in fondo la sua chiavetta
nera dietro la schiena, vederlo scarrozzare nella stanza
la mia gran gioia rinnovava, come se la sua vita da me
dipendesse. Gli carezzavo il casco prima che ripartisse.
Gioventù
cieca
Quante volte io vorrei parlarti, ragazzo mio,
dell’approssimarsi d’una stagione d’integrale
ottundimento, quando penserai di salpare per
quell’isola che fantasia e passione ti avranno
ragionato e
costruito in mente come tua meta.
Sii prudente
nel viaggio che ti attende quando
ti
avvicinerai alla rada scelta per tuo approdo.
Attento che non tocchi lo scafo una insidiosa
roccia, sporgente dal fondale, che tu potresti
non vedere se ti acceca il brillare delle acque.
Guscio di
noce
Non avverte intorno a sé festosità di primavera
un ciliegio fiorito a lato del viale, non lo guarda
l’ospite che arriva triturando pietrisco e polvere.
Qui non c’è cuore triste, eppure gli animi vivono
ciascuno per proprio conto, come in un guscio di
noce aperto il frutto ancora intero con i ventricoli
distaccati. Stanno bene così, nella gioia invisibile
di un pensiero antico che ancor li avvince. Amore
non si donano i due cani, che talvolta litigano per
via di una cuccia al sole, poi si scambiano carezze
meravigliose. Con filosofia è buona una prigionia.
Jesus, my God
Dormirono tranquilli i giudici quella notte quando nel
cortile del gran Sinedrio si udiva sol la voce di Hanna.
Una domanda sola lo liberò di Te. Pianto amaro versò
il più caro dei discepoli e vana la preghiera di Procula
di aver pietà. Ma patisti il più gran dolore nel sentirti
abbandonato dal tuo Dio prima di spirare sulla croce.
Orgoglioso di essere nato da donna, le Tavole ancora
salde di Mosè avevi ardito corrodere, abrogasti leggi
ch’erano sacri, intoccabili valori di un popolo supino,
che ti fece intorno moltitudine per guarir da infermità,
non per darti cuore d’ascolto alle oscure tue parabole.
Tu le ripetesti in mente quelle parole che oltrepassato
avrebbero tutti i millenni, fino al terminar del tempo,
per la evidenza di una potenza che eguagliava il cielo.
Vedesti maturare la tua gloria non subalterna al Padre
celeste, putativo, come nella profondità dell’animo lo
sentivi Tu, Figlio dell’uomo. Ed allora riemerse la tua
vera natura di ribelle, pulsò il ricordo della gran forza
che uscendo dal tuo seno avea guarito un’emorroissa.
Il buio del sepolcro fu squarciato da divine fiammate,
che ti sospinsero in alto, o sublime figura, e nella luce
dell’alba più radiosa fu tutta
tua la vittoria sulla morte.
Kitty
Forse tu non giovane cane, che abbai al gatto lontano
o alla folata di vento che ti scuote la cuccia ed ondula
la tenda, non hai mestizia della solitudine, né un lieve
patimento per l’intemporanea assenza del tuo padrone.
Malinconica per noi umani è l’universale, progressiva
dispersione della realtà, che senza annuncio fugge via,
si impoverisce della compagnia,
spesa che sia la vita.
Credo che i pianeti rallenteranno il giro intorno al sole,
che noi mortali pensiamo sia eterno, come pur le foglie
non orneranno gli alberi nelle nuove stagioni sfigurate.
Di una famiglia numerosa, di grande riserva di amicizie
non resta a te vicino che un cane che neppure ti conosce.
Se con lui discuti che si resta soli a poco a poco, avverte
per istinto che gli stai parlando di cose serie, i suoi occhi
ancor più umidi ti appaiono ed è consolante illusione che
lui abbia capito della tua non lontana dispersione e come
meglio può un mesto,
inespresso saluto ti stia anticipando.
Labirinto
della vita
L’uscita dal labirinto della vita è come il ritorno a casa, poi
che al mattino l’hai lasciata per entrar nel reticolo di strade
della città, con tante faccende da sbrigare in un giorno solo,
senza averle programmate, ma pensate nel vago, a seconda
d’un parcheggio trovato libero per caso, d’un ufficio aperto
al pubblico. Peccato per il tempo che hai perduto per uscire
da una via imboccata per sbaglio, perché eri sovrappensiero.
Intanto sono passate rapide le ore, è finita presto la giornata.
Sopraggiunta inattesa è l’inoltrata sera e arrivato il momento
che devi rientrare per la cena; una candela è da tempo accesa
con la pietanza già pronta su una tovaglia bianca. Sei stanco,
non badi alla bontà della cucina, pensi al tanto che è rimasto
d’incompiuto e guardi trepidando solo il tremolante moccolo.
La compagna
vecchiaia
Non so più dove portarti in giro, o mia vecchiaia,
chissà se c’è un posto al mondo ove lasciarti sola.
Lavorare
stanca
Nel passo lento che spingi verso il Tribunale,
caro tronco antico di avvocato, sul tuo stanco
viso inciso dalla lotta colle pretese di vittoria
del cliente, con l’arroganza dei tuoi avversari,
non vedo la impotenza a superare la tardività
di ascolto altrui, ma l’avvilimento della forza
del pensiero, dubbioso di giudici e di giudizi,
e questo io ti leggo sulla fronte: una speranza
trepida, lavorio di cuor che veramente stanca.
Memoria
felice
All’esplosione di grida d’una carnalità gioiosa
che tra poco ci avrebbe compenetrati entrambi,
cacciando fuori dalla coscienza spazio e tempo,
pigiai il tasto rosso seminascosto, che cominciò
ad assorbire nel sonoro venti minuti di memoria
felice, che il mio vissuto non ne serba l’eguale.
Creai un gran tesoro, ora chiuso in uno scrigno,
che talora per amore vuole ripresentarsi ai sensi.
Nascita di
una poesia
Sei rimasta per una vita intera estranea al mio pensiero
che sol freddo raziocinio incasellava in ogni suo scritto.
Né un volo della fantasia, né
lo slancio di una passione
cadevano sulle bianche pagine, che rinchiudevano in sé
la pietà e l’emozione sotto una maschera d’indifferenza.
Solo or m’avvedo, ripercorrendo il passato, che tuttavia
un seme era caduto impercettibilmente nel mio fondale
dal lacrimar terreno e che un germoglio silente era nato,
alimentato dall’umore degli occhi miei quando tristezza
vi albergava o erano commossi per una domestica gioia,
o in loro mutato avea l’amore l’antica vision del mondo.
Natio borgo
lontano
Questa estate agostana par che in me rallenti
fino a fermarsi e nella sua atemporaneità stia
collocata dove la vita si è svuotata come una
piazza dalla gran folla, ch’era prima adunata
con sventolio di bandiere. La stagione nuova
per me non nascerà nel natio borgo, bisbiglia
al mio orecchio l’autunno, che attende lunghi
riposi di gelo. Sente l’avita casa quant’è viva
la voglia di salir sul monte, ma ignora di aver
dentro di sé tanto vuoto da corrodere solitaria
anima né il piombo può alleggerire che grava
una memoria che vita nuova
lassù non attinge.
Occhi di rumena
Mi hanno fissato gli occhi di una
rumena,
che stendeva la mano da una veste
lacera.
Passato oltre, giratomi, non l’ho
vista più.
Partenio
ventoso
Il vento non sale dalla
valle com’è sul mio monte,
ove agita l’aria e fa volteggiare le banderuole che
risucchiano il fumo dai comignoli. Io non credevo
che il vento potesse abbattersi su dal cielo, ma mi
pare di aver visto Eolo inerpicarsi sul Partenio, di
là senz’ordine di un punto cardinale sguinzagliare
i suoi figli, che discesi in luogo ignoto percuotono
la montagna, l’aggirano con furore sopra la cuccia
dei cani, che mugolano chiedendo aiuto. Ci siamo
rinchiusi in villa e ci guardiamo in viso, al tremito
forte delle ampie vetrate volgiamo gli occhi in alto,
e torniamo a guardarci ancora in viso con il terrore
che i frantumi del monte ci scagli il vento addosso;
chissà se s’aprirà presto un varco a libecci e grecali
verso la piana per trovar pace pei mulini scalmanati,
Paura di volare
Fui rotolato dal mio monte ch'ero appena
nato, e mi arrestai a mezza costa per bere
il latte di fortuna d’una nutrice contadina.
Troppi i nocchieri che i sentieri della vita
hanno più volte deviato,
invertito di rotta,
un ondular d’altalena fu
gioco del destino.
Per una donna giudice
Collocherei gli ardori e le intuizioni tue in Parlamento,
per vederti passionaria d’idee di lotta, di cambiamento,
ma deponi, ti prego, la bilancia della Giustizia. Athena,
che fondò il mitico Tribunale, non era figlia di donna e
dea lei stessa della ragione, la verginità serbò, d’amore
passioni non conobbe, quale emozione della vita turbar
poteva il suo equilibrio nel giudicare Oreste matricida?
Tu guardi l’ago della bilancia, che sopra e sotto lo zero
oscilla, e accade sempre che l’ha superato e a te la roba
la vendono col buon peso e
sii contenta, ma se tu vorrai
pareggiare la Minerva
dell’Areopago, dovrai spogliarti,
o mia giudice, della natura
femminile; vedrai allora che
la tua bilancia con
qualsiasi merce che hai da ponderare
lo zero spaccherà con una
sapiente, sola ed unica pesata.
Poesia tardiva
Sei venuta troppo tardi a farmi visita; ora che quasi
tutta è scorsa la vita temo che al nostro amor senile
non basti il tempo per spegnere l’ardore che dentro
si è acceso di osservare la vita con una lente nuova,
non per riconfigurare in linear disegno l’ondulante
ricurvo mio percorso, ma per descriverlo così come
ora appare alla longeva mia vista, ch’è lieta del filo
donato da un’Arianna di fortuna che alfine accanto
mi ritrovai, per sortire
dal labirinto donde passando
il varco avvistai fra le
balze tortuose guida alla foce.
Portale dell'Epifania
Come un
notturno itinerario il viaggio che inizia
dal dì dei
cimiteri quando si posano con fiori sul
marmo i
pensieri per l'estinto, dopo una orazione
biascicata e
il mormorio di una recente notula di
famiglia, una
curiosità di chi presto si era spento.
Il vero è
nell'algor del cuore, e nel pudore d'aver
sentito
dentro di sé il pulsare di una longeva vita,
pur
prefigurandosi la lenta tombale marcescenza.
Tunnel buio
appresta a noi il brumaio, con giorni
assottigliati
di luce con nebbie e il cielo plumbeo,
con ampi
tappeti di foglie fradice, poche castagne
sparse tra
infidi funghi e il rosso arancio del cachi
uno scherzo
di natura, o il pentimento tardivo, per
farsi
perdonare un autunno che non ha più i colori.
E costante
procede un accorciamento dei tramonti,
lontano
ancora il solstizio, con la rinascita del sole,
ecco, quando
anni fa io toccai il fondo, fu proprio
la notte del
solstizio che tu moristi. E tale ricordo
ritorna per
me duro e spegne ogni possibile letizia.
E il
frenetico via vai, e pranzi e cenoni, e il forzato
acquisto dei
regali paiono soltanto riti senza fede,
come il
blasfemo accumulo di illuminati tesorini in
terra sparsi
sopra un albero introvabile a Betlemme,
offesa ai
pastori poveri di un Presepe dimenticato.
Poi
finalmente, come per liberazione dal passato, tu
apri l'anno e
il Portale grande dell'Epifania, tu, mese
dimenticato
da musici e poeti, degli altri tuoi fratelli
il più
severo, ma serio, con la tua neve che permane,
mese senza
lustro di ricorrenze, Januarius della
vera
Porta Santa,
della visione primiera ch’ebbero i Magi
di Gesù, ed
ogni uomo di vita eterna ricevé speranza.
Solitudine inquieta
Un pomeriggio, e poi due giorni, breve
solitudine inquieta, come corda di arco
tesa. Un cielo prodigo di brillanti stelle,
sfolgorante al mio rientro pedemontano,
dona la promessa di una notturna veglia
su un sonno tardivo e pur di malavoglia.
Chissà quale degli astri la mia vita riunì
ed or gioisce che disegni perfetto corso.
Non v’è alcun altro respiro sui guanciali
fuori del mio che sogna i numeri al lotto
già vincenti. Da uno spiraglio di finestra
una grande stella ridipinge un luminoso
punto sull’abat-jour ch’è appena spento.
Odo la pioggia che striscia sul fogliame,
abbaia il cane cui non sfugge una ruota
cingolata di pietrisco, risuonano battenti
di metallico cancello. Vorrei una musica
a salutare il suo ritorno, ma di un attimo
la precede l’abbraccio felice sulla soglia.
Sortilegio
Ti guardo, bianco cigno, mentre intrecci danze a un bellissimo
canto sulla verde radura che cinge un lago di acque chiare. Luce radente di
un’alba che sta maggiorando dall’alto della collina il tuo stato felice investe,
accresce il superbo passo e le altere movenze del tuo candido collo, mentre
diffondi la tua melodia su quella che fu un tempo torbida palude e tu la
ignoravi. Lontano eri e solo, in un lucore a sprazzi, frastagliato dal fitto
fogliame ove vivevi imboscato, ed a sera godevi della voce del vento o cupa di
notturni uccelli, contento della serenità donata da quella foresta oscura,
custode ignara della tua vera essenza. La scoprì un mago e con un sortilegio ti
lievitò fino alla sommità della collina, da cui veder potesti la tua nuova
alba. Per incantesimo avevi forti ali, eri dipinto di bianco. Allor volasti
presso l’onda azzurra, con la vaghezza di cantar la gioia della tua metamorfosi
improvvisa. La palude mutata in chiarità fu da specchio al cielo.
Teatro Gesualdo
Molti vedono nel tuo futuro un Calo di sipario,
sono pensieri che rattristano chi ti ama ancora,
chi serba gelosa nella memoria un’architettura
d’avanguardia che fu voluta da demoni furiosi,
nati da crollati muri. Pulsò dalle macerie cuore
di rivalsa contro l’avversa sorte e palcoscenico
reclamò per ospitar l’Aida, come mare azzurro
un’amplissima platea, grandi spazi alla cultura.
Esorcismo di calamità il sogno di un divertirsi
senza limiti, fu così che sei nato mastodontico,
e con la fragilità che dà la finzione d’una
gioia.
In te tutto si può fingere, è la tua vera
essenza,
ma non i sentimenti di chi è di te il
burattinaio.
Traversa Tuoro
Traversa
Tuoro, hai perduto il sorriso nella serietà
dei
baci che incollano i ragazzi innamorati, angolo
buio
delle scale oscuro come il futuro di un amore.
Ed
io non vedo nei raggianti e felici sguardi il sole
che
penetrava tra le foglie d’un abete e dalla piazza
riempiva
l’anima e il triste mattino della domenica,
ogni
nuvola spazzando dal mio cielo quei tuoi begli
occhi
che salivano in un lampo i cinque piani, forse
credevano
nel chiarore del futuro, come la speranza
che
si inerpicava, seme di un fiore, sul mio balcone.
Tre
fanciulle intorno al cor mi son venute…
Rosinella
Dolce finestra dirimpettaia, tu non eri velatura
di polvere del colore carboncino dei suoi occhi,
che come punta di diamante il vetro penetrava
e giungeva con un sorriso di ignota significanza
fino al mio vergine ed estatico cuore di
ragazzo,
e lo traforava di via tortuosa, come stelo di
rosa.
Maria
Solo all’uscita dalla scuola qualche timida
ma dolce parola accrebbe l’età ginnasiale,
e ci intrigò fino a un tenero bacio nel buio
d’una soffitta. Gli occhi dei miei compagni
non ti vedevano bella ed io tanto ne soffrii.
Delusa la pagina che si rivide bianca dopo
che una penna intinta nel succo di limone
vi si posò. Non io che lessi con la passione
di un rovente ferro da stiro, che vi dipinse
di giallo ocra la mia prima lettera d’amore.
Vanna
Dal gioco della tombola come per caso parve
sorto
il nostro amore. Il susseguirsi dei numeri è
mistero
così inestricabile che può anche disegnare il
futuro.
Fu il 10 dell’età tua estratto dopo il 2 della
fanciulla
che mi avviluppò in una bella, precoce
adolescenza.
Fu la cabala d’una sera d’inverno che rivelò
l’attesa
della tua
bocca. Fu questa la prima beffa del destino.
Tremula
luna
L’occhio lacrimoso ha visto stanotte una tremula luna,
a tratti radiante in cielo dinanzi a un risveglio precoce.
Vano uno stropicciar di palpebre, per rivederla serena.
Ultimo canto
S’ode talvolta che sale dalla valle un notturno
canto,
son voci calde e roche d’indistinta lontananza,
versi
e note di melodie antichissime, di lunga
malinconia.
Sono forse anime di menestrelli che ancora
soffrono
di non lenite pene e da tuguri vuoti elevano
armonie
quando bruciano nel ricordo d’un amore
provenzale.
O cantori e poeti che siete ora rivissuti nella
oscurità,
tornate dai millenni fino a questa spiaggia,
inventate
anche per me una nenia d’addormentamento che sia
dolce come dondolio di culla, perché la mia
galassia
ha esaurito il suo meraviglioso latte cui
m’abbeverai
per
nutrire una vita assetata di gioia, sazia di affanni,
fiume che
guadai fra l’onda lieve e rovi di sterpaglia.
Unico
eterno amore
Tu
sei l’unico grande amore che vorrei mi venisse
in
sogno con una vestaglia nera, come è tua moda:
assecondami,
e riserva ad altri occhi molte aurore.
Villa
in attesa
In questa
imprevista villa dove è stata risucchiata,
come in
vortice d’acqua dolce o in imboscamento,
una stagione di mia vita involontariamente
stanca
si sta, a
destra un monte, come su isolata spiaggia,
da cui
s’attende arrivo d’onde ancora non formate.
Se guardi i lontani orizzonti, ti sembrerà di
vedere
un luccichio marino, ma è solo il labile
incresparsi
di un futuro che non è il nostro, è di questa
pagoda
bella, che avrà durata più di noi e quelle onde
potrà
accogliere nel tempo che si distenderà senza
la vita,
concedersi nuda in solitudine al vento che la
sferza,
e poi le
fa piegare in un inchino gli alberi d’intorno.
Visita
in sogno
L’amor perduto talora mi fa visita in sogno,
è triste che non sa più rintracciarmi altrove.
si duole di case vuote, d’un giardino di rovi.
Vita e Destino
Tu sai, padre, quando salgo di rado a casa
nostra,
che mi fermo qualche volta per parlarti dei
pezzi
di esistenza che contemporanei fummo e ad ogni
mia parola, pure se mormorata, caduta nel raggio
del tuo ritratto, io resto a guardarti fino a
quando
sono sicuro che l’hai udita, e così di sentirti
vivo
meravigliosamente io gioisco perché mi rincuori
con il dolce sguardo che era a me guida e amore.
Ma stavolta sono salito su Frigento per
ragionare
della storia della mia vita che è quasi
all’epilogo.
Sono il figlio che ti pareva di vedere come
opaco
secchione con le manie per matematica e scacchi,
che correva dietro alle passioni dello zio
materno
per il disegno, la fotografia e altri frivoli
interessi.
Temevi o padre che dal gene di mia madre avessi
ereditato non le doti di giurista, ma i gusti
estetici,
che io reclamavo di voler coltivare. Allor
reagisti,
menando vanto della esemplare storia da te
scritta.
Non comprendesti allora in qual profondo fossato
quelle parole precipitarono la dignità di tuo
figlio.
E pur m’avvidi di non poter scrivere pagine
simili
alle tue in magistratura, e dall’emularti si
distolse
la mente: l’asse del progetto di una vita si
inclinò.
Or saldo è il cuore, scomparso il tremito alla
voce
nello scorgere che non mi mostri fronte
corrucciata
ma un sorriso, un chiaro segno di distanza dal
reale,
mentre risuona più forte nell’orecchio mio un
verso
del poeta, più vero al ritorno alla casa
dell’infanzia:
“Penso
che per
i più non
sia salvezza, ma taluno
sovverta ogni
disegno, passi il
varco, qual volle
si ritrovi”. Non saprei spiegare, padre, perché il tuo
disegno, pur dettato con saggio cuore, s’è
sovvertito,
ma allegrati di me che una gran gioia sento che
così
sia stato, tu sai che qual mi volevo mi sono
ritrovato.
Vedi che trabocca dal ritratto il sorriso di mia
madre,
che approva il dir di mia salvezza su questa
spiaggia,
da cui salpammo entrambi, dopo che taluno
apprestò
per noi uguali caravelle, e di anni dislocò le
partenze.
Se amaro ricordo del tuo patito finale sparge un
velo
di tristezza su di me, non ti sfuggirà anche il
riflesso
d’alti marosi che superai con la volontà di
rincorrere
quelle passioni che per te frivole potevano
sembrare.
Come l’usare un volgar linguaggio per il diritto
serio,
esortare gli scolari con storielle e aneddoti al
rispetto
delle regole, suscitare il loro applauso con un
parlare
scherzoso, tanta grande gioia quella di essere
riuscito
a rivelare alla età dell’innocenza quanti colori
umani
si celassero dietro il severo dettato delle
nostre leggi.
Quanti i giovani volti sorridenti che hanno
offuscato
il ricordo della grande ansia che abbuiava visi
di rei,
pensosi solo che misericordia avessi della loro
sorte.
Come era diversa l’intelligenza tua, che si
sforzava
di non apparire! L’esplicare il sapere è però
amore,
e ogniqualvolta desideravo apparire, padre, è stato
per il desiderio d’amare e di sentirmi amato,
anche
il silenzio con chi subir doveva di esser
processato
per una malintesa sacralità del diritto mi
ripugnava
come crudeltà. Perciò io giudice eretico e
cristiano
mi definii, non per troncare la traccia da te
segnata
ma perché d’un tale demone ero preda e
posseduto.
Ed è stato forse per ricerca di libertà scrivere
versi,
dai quali talvolta è emerso il fervore di una
visione,
tua ricca eredità Gesù, come l’amore per la
musica.
Credimi o padre, fievole il batter di mani alla
fama
del giudice ma per il presidente del Teatro
scroscia
l’applauso; una domanda sorge ed il mio sguardo
si
volge ancora sul tuo ritratto che or vede più
attento.
Quarant’anni di magistratura come sepolti,
pubblico
consenso tributato allo scorcio vuoto e
appariscente
d’una diversa esistenza? Tu pensi a cosa siamo
stati
noi? L’avere giudicato il bene e il male non
avrebbe
assicurato duratura fama! Più vicino al vero è
invece
che il titolo rivestito in vita, modesto o
elevato, altro
non è ch’una sovrastruttura che a noi non
appartiene,
non è la nostra vera umana essenza. La maschera
che
portiamo del mestiere dal volto si distacca e
precipita
nella tomba, pennello color nero di oblio la
ridipinge.
Vano è elevare il nostro sguardo fino a mirar
gli astri,
aspirando eternarci. Coscienti siamo che dalla
materia
che ci imprigiona non spiccherà un volo né
cinguettio,
se da dentro l’animo non nascerà l’idea, la
figurazione,
una immagine che si stacchi dalla nostra misera
forma,
sì che ognun l’avverta come se specchiasse la
sua vita,
la sua natura, la sua gioia, il suo dolore, e
sia contento
che il poeta gli abbia scovato occulte, sopite
emozioni.
Qui son venuto o padre per confidare a te della
brama,
dell’indicibile ansia di uscir da me, per attingere
l’arte,
l’invenzione. Se la mia vita s’è orientata fuor
dalla tua
previsione, ti prego di inchinarti al Fato, o al
superiore
volere che si è contrapposto, e di assecondare
la realtà
nuova che ora trasmutar pare tutto l’essere mio.
Pongo
nelle tue mani questo desiderio intenso ch’è ora
giunto
a bruciarmi dentro e fino a ricondurmi oggi qui,
presso
le icone tua e di mamma, come per voto a un
santuario.
Il mio primo libro lirico ti accolse come il
protagonista
della mia esistenza e raccontò di una insperata
salvezza
nel veder ricomposta ogni frantumazione della
mia vita.
Il verso ancor nascerà da un’amica malinconia,
sempre
accanto come l’occhio tuo al mio passo che
s’allontana.
Fine
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