venerdì 2 settembre 2016

RACCONTI (Ricordi dell'adolescenza)


RICORDI  DELL’ADOLESCENZA

(Primi amori e primi giochi)



Non ricordo di aver goduto nell’età dell’adolescenza uno “stato soave” e una “stagion lieta”, pur non essendo mancati squarci di azzurro intenso nel mio cielo. L’innata vivacità, una grande riserva di energie nonostante mangiassi pochissimo, e una sfrenata passione per i giochi mi spingevano fuori di casa, giù nella strada fra i ragazzi più grandicelli di me. Ma per guadagnare la porta di uscita dovevo superare ogni volta un grande ostacolo. Mia madre, di temperamento possessivo e ansioso, mi proibiva spesso di andar fuori perché si preoccupava che giocando mi facessi male. Quante volte ho guardato con invidia i miei compagni dal balconcino della casa di zio Marciano, che è l’ultima sulla destra per chi guarda via Roma con le spalle rivolte alla piazza, che facevano “su la piazzuola in frotta…un lieto romore”, e quanto ho sofferto di non poter essere in mezzo a loro! Specie nei pomeriggi assolati, quando mi si costringeva ad andare a letto con mio padre per evitare che uscissi nella controra, mi giungevano dalla strada le loro grida festose che non mi facevano dormire, e io aspettavo con ansia i trentatré rintocchi del campanone della cattedrale, che avvertivano anche i lavoratori agricoli delle più lontane contrade che mancavano tre ore al tramonto del sole, perché quel suono svegliava il genitore e faceva cessare il mio martirio. E quando talvolta protestavo per liberarmi da quella quotidiana prigionia, mia madre diceva di tenermi tanto caro da temere che persino una folata di vento potesse farmi male.

Un momento di grandissima gioia fu il regalo di una bicicletta, marca Gloria, di colore rosso. Avevo dodici anni, e, quando mio padre me la portò, la casa si riempì di ragazzini che facevano festa intorno a me mentre la liberavo dall’imballaggio. I primi giri li feci nel lungo corridoio di casa, ma passò più di un mese prima che potessi portarla sui Vasoli. Imparai subito, e quando tolsi le piccole ruote laterali di sicurezza toccai con un dito la felicità. Non mancarono le solite imposizioni di percorsi obbligati, ma per via Limiti ci andai lo stesso, gustando le prime vere trasgressioni, divertendomi un mondo e rimediando anche delle cadute e qualche sbucciatura alle ginocchia, che mi facevano temere di più dei rimproveri di mamma. Tanto che, una volta che zio Aniello accennò a dire che glielo avrebbe riferito, cominciai a rincorrerlo e a tirargli addosso delle pietre, l’una dopo l’altra, fino a costringerlo a rinchiudersi in casa. Tornavo spesso sudato da quelle veloci pedalate e ciò che più mi indispettiva era l’immediata ispezione del collo, seguita dall’immancabile sgridata. Per non subirla, giunsi al punto di espormi al vento nei vicoli del paese, più spesso nello stretto della Baracca, dove soffiava più forte e più fresco il ponente, sbottonandomi persino la camicia per farmi asciugare al più presto il sudore. Fu forse a causa di queste imprudenze che mi ammalai di una pleurite che per sette lunghi mesi mi tenne lontano dalla scuola, riducendomi in condizioni di impressionante magrezza. Tutti i medici del paese si avvicendarono al mio letto, senza riuscire a capire quale malattia avessi contratto, fino a quando mio padre, consultando l’Enciclopedia dei Fratelli Pomba, non sospettò l’esatta diagnosi. Alcune iniezioni di streptomicina, appena da qualche anno nel mercato farmaceutico, mi guarirono nel giro di una settimana, ma lo spavento, quello che avevo letto nel viso dei miei genitori con la psicologia già strutturata del figlio unico, mi lasciò i segni indelebili di un brutto trauma, che credo sia all’origine della mia patofobia.  Seguì il ritorno agli studi, alla scuola media presso l’Istituto Schettino, e ai giochi, tra cui comparvero le carte e soprattutto gli scacchi, che sarebbero diventati la mia più grande passione ludica: seria, scientifica, ma intrisa di estro e a suo modo anche di violenza.

Erano finalmente arrivati gli anni delle dolci sensazioni, nei quali molto precocemente avvertii l’interesse per l’altro sesso. Mi si risvegliò infatti una tale curiosità che un giorno, toccandomi, godetti un solitario orgasmo con lo stupore di una scoperta tutta personale, sconosciuta agli altri maschi, tanto che parlai con i miei compagni del grandissimo piacere che avevo provato. Avevo circa tredici anni quando ebbi il primo innamoramento. Una brunetta dagli occhi molto espressivi era venuta da Guardia dei Lombardi per trascorrere qualche mese con la zia, dirimpettaia della casa di nonno Gennarino. Io fui subito attratto dal suo sorriso, ma per rivolgerle una parola d’amore dovetti farmi molto coraggio per chiederle, dopo pochi giorni che l’avevo conosciuta: “Ti vuoi mettere a fare l’amore con me?”, classica “dichiarazione d’amore” di quell’epoca, di tutt’altro significato da quello che le stesse parole potrebbero avere oggi. Fu un idillio che durò l’arco di un inverno, con teneri sguardi e qualche timida, ma forte stretta di mani, cui offrirono occasione anche le funzioni religiose in chiesa, dove ci sedevamo sullo stesso banco, senza il minimo turbamento di peccato. Finì con il regalo di una piccola collana, che appena indossata si spezzò, lasciandola irrimediabilmente delusa di me.

In quel tempo trascorrevo spesso le serate in casa di Ninino, mio coetaneo, figlio dell’avvocato Testa, col quale m’intrattenevo a giocare, nel periodo natalizio anche a tombola, con le sorelle e le mie zie Ada ed Elena, amiche della famiglia. La sorella più piccola si chiamava Vanna, e benché avesse appena una decina d’anni appariva ai miei occhi già come una piccola donna, in una incipiente ma evidente pubertà. Restavo sempre più incantato dalla sua bellezza, e ogni sera mi scoprivo desideroso di parlarle, o di fissare lo sguardo nei suoi occhi mentre si giocava, trovando sempre più di frequente una dolce corrispondenza nel modo come a sua volta mi guardava e mi sorrideva. Rimasti soli una sera nel grande soggiorno, mentre gli altri della famiglia erano in cucina a cenare, fu un tutt’uno avvicinarmi a lei, cingerla in vita con un braccio e baciarla sulla bocca, a labbra chiuse. Restammo così, immobili per un minuto, e io sentivo il cuore che mi batteva forte mentre lei si abbandonava a quel bacio a occhi chiusi. Un rumore di passi che si avvicinavano ci fece staccare, e io riuscii a cogliere solo un attimo per dirle con voce roca che mi ero innamorato. Quella notte mi rotolai in una immensa gioia fino al mattino nel letto dove dormivo nella casa dei nonni paterni con gli zii Angelo e Michele. Seguirono incontri ancora più belli, tanto appassionati quanto casti. Poi ci perdemmo di vista, perché il padre la mandò a studiare a Napoli, nel collegio della Suore Dorotee. Ritrovatici entrambi soli sulla soglia dell’età anziana, più volte abbiamo parlato dell’indelebile ricordo del nostro primo amore, amaramente constatando quanto fosse difficile riannodare percorsi di vita che si erano divaricati quarant’anni prima. Sapendola poi, qualche anno fa, gravemente ammalata, ho inciso un messaggio su un telefonino, che, accostato al suo orecchio dalla figlia Serena in un letto d’ospedale, ha fatto affiorare un ultimo sorriso dal suo terminale torpore. 

Fu nello stesso anno di quel primo bacio che ci trasferimmo ad Ariano Irpino, tornando a Frigento nei fine-settimana e naturalmente nei periodi festivi. Anche ad Ariano alleviai con una fidanzatina, compagna di ginnasio, l’iniziale tristezza di quell’esilio conventuale in cui l’esigenza di frequentare gli studi classici mi avevano relegato. Con Maria ci fu qualche dolce incontro, con baci innocenti, nella soffitta della caserma dei carabinieri, con la complicità del figlio del maresciallo. Durante le vacanze estive mi spedì a Frigento una lettera appassionata, che aveva scritto intingendo il pennino nel succo di limone, e che io lessi passandovi sopra il ferro da stiro molto caldo, come lei mi aveva suggerito per mantenere segreta la nostra corrispondenza. E così, man mano che il calore faceva emergere i caratteri dal foglio bianco e, iscurendoli, li rendeva leggibili, provai la forte emozione che può dare la prima lettera d’amore.

Durante la primavera dell’anno che seguì vidi per la prima volta Liliana. Fu un giorno che padre e figlia salirono insieme dalla via Baracca in piazza Municipio per recarsi nella vecchia farmacia, che si trovava all’angolo opposto dello stesso edificio di piazza Municipio dove ora si trova. Lui, un bell’uomo alto con gli occhiali e i baffetti, la teneva per mano e lei, poco più di una bambina, vestita di rosa, con le trecce e due grandi occhi sognanti, gli camminava a fianco girando attorno lo sguardo con quella timidezza che sarebbe stata una delle note dominanti del suo carattere. Fra noi ragazzi, che ormai parlavamo sempre più spesso di amore, si era già sparsa la notizia che era arrivata in paese una ragazza molto carina, figlia del nuovo veterinario e perciò, incuriositi, scendevamo spesso al borgo San Marciano dove si trovava la sua casa per poterla vedere. Ma la visione che ebbi quel giorno fu superiore ad ogni aspettativa, di quelle che s’imprimono nella memoria per essere destinate a restarvi per sempre, quasi come un mondo che prima apparteneva al sogno e poi era divenuto realtà. Visione che fa parte ormai della eternità delle idee che ciascuno di noi si porta intatte dentro l’anima, pur nella consapevolezza che l’esistenza continua a svolgersi e ad annullarsi. Immagine che il pittore Luigi Bellini, cui il mio ricordo va grato, volle fissare sulla tela in quel bellissimo ritratto di bambina che sovrasta di lato il caminetto della casa di Avellino, con gli occhi appena lacrimosi, quasi presaghi del breve destino di vita che le sarebbe toccato.

Conobbi Ovidio sul finire degli anni ’40, in un tardo pomeriggio d’estate in cui Fausto Coppi vinse ancora una volta il Giro d’Italia. Lo vidi che correva per le strade del paese in testa a un gruppo di una decina di ragazzini, gridando “Viva Coppi” e sventolando una piccola bandiera ben confezionata con due pezzi di stoffa, uno bianco e uno celeste, legati a un bastoncino dalla parte del bianco. Subito mi accodai e fu la prima volta che provai entusiasmo per il ciclismo, divenendo anch’io tifoso di Coppi, in una Irpinia appassionata allora di ciclismo quanto di calcio, quasi interamente “fedele” a Bartali e alla Juventus.

Più grandicello di noi, Ovidio partecipava qualche volta ai nostri giochi, come quello del rimbalzo delle monetine contro il muro. Via Vasoli, dalla bella pavimentazione liscia e chiara, dove a quel tempo vi passava un’automobile sì e no due volte al giorno, era una delle pochissime del paese se non l’unica adatta a quel gioco, perché le altre strade erano in terra battuta e qualcuna ricoperta di pietrisco. Si misurava la distanza tra la monetina che un giocatore, battendola contro il muro, aveva fatto rimbalzare sui basoli e quelle che facevano rimbalzare gli altri giocatori. Chi riusciva a far avvicinare la sua monetina a un’altra, in modo che il palmo della sua mano premeva su tutt’e due, catturava quella dell’avversario e aveva anche diritto a un altro tiro. E ne vinceva in aggiunta ancora un’altra dal giocatore perdente se riusciva a coprirle entrambe con pollice e indice. Un gioco semplice, animato da grida di vittoria e talora anche da qualche vivace contestazione. E in questi casi si ricorreva quasi sempre ad Ovidio perché facesse da arbitro e verificasse, con la sua precisione e l’indiscutibile autorità, se le due dita premevano entrambe contro terra le due monete, secondo la regola del gioco, oppure se le sfiorassero soltanto.

Anche il gioco del “naso” era semplice, adatto all’età di noi ragazzini. Ci riunivamo per questo, verso sera, nella bottega di un falegname che si trovava nel terzo vicolo a sinistra che, diramandosi da via Vasoli di fronte al bar, raggiunge la sottostante via Duomo con una maggior pendenza. Peppo, il figlio di fra’ Giulio, quando il padre aveva terminato la sua giornata poco prima del tramonto del sole, ci faceva entrare nella bottega per giocare con le carte napoletane. Lì dentro non c’era la corrente elettrica e perciò dovevamo illuminare con una candela il banchetto, coperto da uno spesso strato di segatura. Tirato il tocco, chi usciva stabiliva la posta, di solito una monetina da una o due lire che si deponeva sul banchetto e formava il “piatto”, e dava due carte per ciascuno. Se erano di colore diverso, valevano “primiera”, e il punto più alto dipendeva dai sette, dai sei o dagli assi che si avevano in mano. Se invece le due carte erano dello stesso colore, quella coppia si chiamava “naso” e batteva la “primiera”. C’era poi la regola del “due”, che da solo era una misera scartina, ma in coppia con un altro due diventava il miglior “naso” e vinceva su tutti, prendendo l’intero piatto a terra. Perciò, per evitare uno scontro alla pari, all’inizio del gioco si toglieva dal mazzo uno dei quattro due. Quando il cartaro imponeva poste più alte, il gioco cominciava ad animarsi anche troppo, e andava avanti senza incidenti per non più di una mezzora, perché poi, complice la semioscurità, in mezzo al gruppetto di sei o sette ragazzi spuntava quasi sempre il baro che nascondeva una buona carta di ricambio sotto la segatura, e qualche altro che, nel parapiglia che seguiva alle contestazioni dell’imbroglio, smorzava con un soffio deciso la candela e arraffava tutte le monetine dal “piatto”. Terminava così, il più delle volte, quella bisca di ragazzini, e si usciva dalla bottega fra chi protestava e chi rideva, ma tutti contenti di aver giocato, perché sapevamo fin dall’inizio che alla fine poco valeva menar vanto della fortuna, e molto di più, invece, l’aver mostrato ben presto la spregiudicata malizia dei grandi e la capacità di scoprire le magagne altrui.

Cresciuti in età, ritrovammo Ovidio ad istruirci nella costruzione di qualche giocattolo più importante, di quelli che i ragazzi di città potevano comprare in negozio. Si cominciò con il monopattino e così impiantammo un piccolo laboratorio in un locale destinato a trappeto, dove ci ospitava Bruno, il più caro fra i compagni di scuola. Lì arrivarono i primi pezzi da montare, una tavola, delle ruote, un manubrio, portati sia da Ovidio che da Peppo di fra’ Giulio. Tutta l’opera veniva creata dall’inventiva e sotto la direzione di Ovidio, che sembrava già un esperto artigiano, attento a tutti gli innesti e le connessioni delle parti mobili che potessero dare solidità e scorrevolezza al monopattino. Eravamo ansiosi di percorrere al più presto la larga piazza Municipio, i Vasoli e la panoramica Via Limiti, che rappresentava per noi un vero autodromo. Ma più di tutto ci preoccupava e nello stesso tempo ci eccitava il pensiero della discesa di via Duomo che portava giù al borgo San Marciano. Notavo, dalle spiegazioni che Ovidio dava a Bruno, che più di noialtri riusciva a seguirlo nelle fasi della costruzione, che proprio i prevedibili rischi di quella discesa, dal fondo stradale in pavé, richiedevano il massimo impegno nella costruzione di quell’oggetto fatto tutto di legno. Sicuramente Ovidio teneva conto della sua fragilità nel progetto che andava man mano attuando, giorno dopo giorno, nel trappeto di Bruno, ma nella fantasia di noi poco più che bambini quel monopattino appariva già come un bolide che avrebbe sbalordito tutti gli altri ragazzi del paese, tra i quali soltanto qualcuno, intorno agli anni ‘50, aveva forse guidato una bicicletta.

Ultimata la costruzione, ci divertimmo abbastanza, scorrazzando per le strade del paese per alcuni mesi. Non era però trascorso più di un anno che, sempre nella mente ingegnosa di Ovidio, sorse un più ambizioso progetto: quello della costruzione di una “macchina” a quattro posti, naturalmente scoperta ma con le portiere, con gli stessi materiali e la stessa tecnica, certamente con maggiori difficoltà. Erano le quattro ruote, la pedaliera ed il freno gli elementi e al tempo stesso i maggiori problemi da risolvere, più difficili di quello del volante, che con due tiranti in ferro riuscimmo subito a far ruotare bene. Sempre nel laboratorio del trappeto, che aveva una sorta di succursale nella vicina falegnameria per seghe, martelli, pialle ed altri attrezzi, non tardò ad arrivare anche questa volta il tavolame necessario. Ovidio e Bruno presero a discutere un giorno delle “samoie”, di cui non riuscii a capire subito l’importanza, fino a quando non scendemmo un pomeriggio da un fabbro ferraio, che aveva la bottega nel borgo San Rocco, nel vicolo che fiancheggia la chiesa e sbocca su via Cedolone. Il bravo artigiano aveva eseguito su incarico di Ovidio quattro anelli di ferro molto doppi, del diametro di circa tre centimetri, e fu lui stesso ad incastrarli con forti colpi di martello nei fori creati a centro delle quattro ruote. Innestò anche due assi di ferro nelle “samoie” delle ruote, dopo averli unti di grasso, e così portammo i due pezzi già belli e montati al nostro laboratorio, che sembravano molto simili agli attrezzi usati dagli atleti nel sollevamento pesi. Nelle successive fasi della lavorazione partecipai più attivamente alla ricerca di una soluzione per il freno. Dopo averne discusso un poco tra noi, si decise di fissare al sedile posteriore, con una grossa vite che ne permetteva la giusta inclinazione e rotazione, una robusta sbarra di legno da azionare in modo che il suo energico sfregamento sulla ruota posteriore destra ne rallentasse i giri fino a bloccarla. Anche la chiusura delle due portiere venne assicurata da due robusti listelli interni.

Superati brillantemente i primi giri di prova su piazza Municipio e per via Limiti, decidemmo di affrontare la discesa, seguiti da frotte di ragazzini che facevano una gran baldoria, con la speranza di poter fare anche loro un giro sulla nostra “fuoriserie”. Il primo tragitto andò bene. Con alla guida Ovidio, a fianco a lui Bruno, io dietro con Nino, altro caro compagno di scuola, uscimmo dal laboratorio direttamente su piazza Municipio e percorsi i Vasoli cominciammo a discendere per Via Duomo. Che divertimento! La nostra vettura passò davanti alla Caserma dei Carabinieri, percorrendo poi due curve a serpentina, quelle dove nel pomeriggio invertiva la marcia la corriera, e dopo un breve tratto pianeggiante imboccò la discesa davanti alla macelleria di Ludovico. Qui la maggiore pendenza della strada le impresse una certa velocità, troppa per la sua struttura di legno che cominciò a scricchiolare in modo che dovette preoccupare Ovidio se ad un certo punto, con voce un po’ concitata, mi ordinò: “frena, frena!”. Io, che stando sul sedile posteriore destro avevo questo ruolo, tirai con energia la barra di legno, ma questa, probabilmente per la conformazione molto irregolare della strada, oltre che strisciare contro la ruota posteriore destra, dovette urtare anche contro qualche cubetto più elevato del pavé, provocando il totale ribaltamento della nostra macchinetta e scaraventandoci tutti fuori dalla parte sinistra, fino ad arrestarsi contro il muro del palazzo di don Loreto Flamma. Nessuno di noi riportò ferite, ma restammo molto dispiaciuti dell’insuccesso, tra le risate di quelli che dovevano essere i nostri fans. Ovidio, benché deluso, prese subito a domandarsi il perché di quell’infortunio e ad osservare tutta la vetturetta, rimasta un po’ sgangherata, con il tipico atteggiamento della sua fronte aggrottata e pensosa. Nessuno di noi riusciva a credere ad un suo errore, avendo visto con quanta precisione aveva misurato tutti i pezzi prima di montarli, usando anche un metro per muratori, di quelli in legno che si snodano a zig-zag.

Il filo della memoria che lega la mia adolescenza ad Ovidio si ferma qui. Poi, per molto tempo, ci rivedemmo raramente. Fu forse in uno dei miei ritorni di fine settimana da Ariano Irpino che, entrando con altri amici nella sua casa di via San Giovanni, lo trovai che dipingeva un bel quadro, posto su un cavalletto. Mi accorsi del tempo che era trascorso, della sua età che ora appariva molto più matura della mia, degli ormai divergenti percorsi delle nostre vite. Non compresi che lui aveva cominciato a fare sul serio con l’arte pittorica, e anche quando venni a sapere che suonava la cornetta in una banda musicale, credetti che fossero degli hobby, senza rendermi perfettamente conto che stavolta, praticando con grande impegno la musica e soprattutto la pittura, egli aveva intravisto la giusta via della ricerca di un lavoro di prestigio, che sarebbe diventato anche la sua fondamentale ragione di vita.

Più di tutto, però, mi sarebbe rimasto impresso il suono di quella sua cornetta, quando, dopo la mezzanotte di ogni giovedì santo, percorrendo tutte le strade del paese e fermandosi a ogni crocevia, emetteva due lunghe e strazianti note, intervallate da un lugubre rullo di tamburo, per ricordare la Madonna che andava in cerca del figlio arrestato. Quando Ovidio lasciò Frigento, questo rito pasquale cessò, e credo che nessuno dopo di lui avrebbe saputo esprimere con tanta suggestione il lamento, il grido disperato, il presagio di morte e di immenso dolore ch’erano raccolti all’unisono in quelle due note, lunghe e tese, nel cuore della notte santa. 


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