Il
caso Erika
Nel
Codice penale la disciplina dell’imputabilità si fonda sulla tripartizione
classica delle funzioni della mente: intelletto, volontà e sentimento, in cui
si avverte una qualche analogia con l’anima sensibile, irascibile e
concupiscibile della filosofia platonica. Non si è imputabili soltanto se le
prime due funzioni (intelletto e volontà) siano alterate, o per non
essere pervenute alla piena maturazione (come si presume in senso assoluto
negli infraquattordicenni, e in senso relativo negli infradiciottenni, nei cui
confronti è necessario accertare se sia avvenuta la suddetta maturazione), o
per essere escluse a causa di un vizio totale di mente, o grandemente scemate a
causa di vizio parziale di mente. Gli stati emotivi o passionali, riguardanti
il sentimento, non escludono né diminuiscono l’imputabilità. Essi possono
eccezionalmente aver rilievo, ai fini della esclusione o dell’attenuazione
della capacità d’intendere e di volere, solo quando, esorbitando dalla sfera
psicologica, degenerino in un vero e proprio squilibrio mentale. Se n’è
discusso con riferimento al tema della gelosia,
per ritenere che essa, sebbene sia un sentimento morboso, non incide
sull’imputabilità se non quando provochi disordini nelle funzioni della mente e
assurga ad una vera e propria forma psicopatologica, nonché con riferimento al
tema della paura, la quale, se
è pure compatibile con le libere scelte e con l’integrità mentale dell’autore
di un reato, menoma peraltro la sua imputabilità solo se dilatata in una
dimensione morbosa di infermità o seminfermità psichica. Se dal campo della capacità d’intendere e di volere ci si
sposta in quello ontologicamente diverso della coscienza e volontà
dell’azione, si passa dalla considerazione della mente presa di per sé sola, cioè come il complesso di tutte le
facoltà psichiche dell’uomo, dalla memoria alla coscienza, dall’intelligenza
alla volontà, dal raziocinio al senso morale, a quella della relazione tra la mente e le sue idee. In tale relazione
consiste la volontà, la quale non è
solo il potere d’impulso che la mente dà alle sue idee per far produrre loro un
effetto nel mondo esterno, ma è altresì potere di inibizione, cioè di arrestare
l’azione quando la volizione cosciente pone l’uomo in condizioni di valutare la
portata immorale e comunque negativa delle proprie scelte.
Se questi sono i principi fondamentali
che le attuali dottrine giuridiche hanno posto a base delle teorie
sull’elemento psicologico del reato, ci si domanda se può l’uomo di oggi essere
ancora giudicato con categorie del diritto penale che fondano la colpevolezza
sulla coscienza dell’azione da parte del reo, ovvero se, oltre la coscienza,
possano venire in gioco nel campo penale anche manifestazioni ricollegabili
all’inconscio e al subconscio, che cagionino alterazioni della visione del
mondo esterno e conseguenti spinte all’azione non controllate dal potere di
inibizione.
Appare subito evidente, entrati in
queste tematiche, che non si può prescindere dalla psicoanalisi, dato che la
“scienza nuova” di Sigmund Freud non era stata compiutamente esposta all’atto
della regolamentazione dell’elemento psicologico nel Codice del 1930. Essa
avrebbe infatti sconvolto il comune convincimento che l’uomo avesse la piena
conoscenza della propria interiorità e potesse cioè governare e dirigere le
proprie azioni, insegnando, invece, quanto complessa e quasi insondabile fosse
la psicologia dell’essere umano. Era stata questa la scoperta rivoluzionaria
dell’ “inconscio” e del “subconscio”, serbatoio di tutte le
“rimozioni”; donde era venuta la spiegazione di molte manifestazioni umane, dai
sogni ai lapsus e ad altre “psicopatologie della vita quotidiana”, mentre la
punibilità delle azioni illecite rilevanti per il diritto penale rimaneva
sempre ancorata alla “coscienza” e
alla “volontà” dell’agire.
Ora invece, e da qualche tempo, non si
è più sicuri dell’esattezza di tali relazioni poiché si sono verificati
nell’epoca contemporanea, in Italia ed in altri paesi del mondo, delitti così
efferati, così orrendi e mostruosi, con una particolare specificità per i
serial killer e per gli omicidi in famiglia, che gran parte della pubblica
opinione ne è rimasta sconvolta al punto
da non credere ad una responsabilità “umana”, cioè riconducibile ad una persona
consapevole del bene e del male e cosciente della portata delle proprie azioni,
e al punto, altresì, da rimanere talora persino incredula di fronte ai responsi
di periti psichiatrici che avevano ritenuto capaci di intendere e di volere
soggetti condannati per siffatti delitti, giacché si è dubitato del fatto che
alla loro commissione avesse potuto presiedere la “coscienza” di un uomo.
Peraltro qualche studioso, confermando, per così dire, le “sensazioni a pelle”
dell’opinione pubblica, è rimasto dubbioso sull’attuale validità dei canoni
della psicologia e della psichiatria classica, ai quali le nuove
raccapriccianti realtà sembravano aver dato un forte scossone. Così si è giunti
a chiedersi, guardando a casi concreti fra i più impressionanti come quelli di
Novi Ligure (il caso Erika), di Cogne (il caso Franzoni), di Ancona (Donato
Bilancia), se la psiche dell’essere umano non abbia subito profonde
trasformazioni, ossia se non siano insorte nell’uomo, divenuto “non umano”, e
forse già “post-umano”, nuove psicopatologie non catalogabili in quelle
tradizionali.
Volendo analizzare il caso di Novi
Ligure, che più degli altri ha sconvolto gli italiani, ed entrando subito in
argomento, un aspetto posto in evidenza nella personalità di Erika Di Nardo
sarebbe l’indifferenza verso la madre, un sentimento espresso più volte quando
il perito le ha chiesto perché Omar l’aveva plagiata e convinta – come lei
dapprincipio asseriva – ad ammazzare sua madre. Ad una prima valutazione
l’indifferenza poteva essere equiparata all’anaffettività, non riconducibile
però ad una forma di schizofrenia, della quale mancavano del tutto gli altri
caratteristici sintomi, anche perché gli stessi periti, evidenziando nella
ragazza chiare “note di narcisismo” (che si nutre pur sempre di amore), avevano
accertato una caratteristica della personalità inconciliabile con la
schizofrenia, in cui sono sintomatiche le sensazioni di “assedio”, di
“ostilità” del mondo, le connesse manie di persecuzione. Altri studiosi hanno
ravvisato nella ragazza una visione piatta della realtà, priva di emozioni e di
affetti, ma ricca di fatuità e di manierismo, dove il rispetto delle regole
formali sarebbe apparso addirittura superiore al valore della vita umana (da
uno dei colloqui con Erika: “…avrei
dovuto prendere qualcosa, come dice mio padre, e tirarlo dietro ad Omar, anche
se sarebbe stato brutto…” e ciò mentre stava raccontando che Omar sgozzava
madre e fratello), e hanno ipotizzato un pensiero totalmente “dereistico”, dove
non vi sarebbero differenze di valori, dove tutto sarebbe uguale a tutto, dove
la realtà verrebbe vissuta come una realtà virtuale, tanto che si tratterebbe
di una psicopatologia nuova, non incasellabile né nelle banali etichette della
psicopatologia moderna, né in quelle della psicopatologia classica,
determinando così un contenzioso tra psichiatria e legge e un conseguente
auspicio ad una modifica dello stereotipato quesito “era il soggetto capace
d’intendere e di volere?”, il quale non riuscirebbe a comprendere
interamente il complesso quadro delle psicopatologie.
Sorge allora spontanea e immediata in
chi deve giudicare un imputato la preoccupazione che con l’attuale disciplina
penalistica più si amplia il campo delle psicopatologie, maggiori diventano le
probabilità che i più efferati assassini restino impuniti a seguito del
riconoscimento di una loro totale infermità di mente. Ma invece di rifiutare in
tal modo il dialogo con la scienza, sembra opportuno osservare che lo stesso va
instaurato su un piano del tutto diverso, pur di sviluppare un confronto che,
prendendo sempre a base il caso concreto di Erika e Omar, tenti di darne una
spiegazione la quale, pur non offrendo soluzioni certe, contribuisca ad
indicare le basi programmatiche per fondare una nuova disciplina
dell’imputabilità.
Partendo dallo stesso dato
dell’affermata “indifferenza” verso la persona della madre, occorre domandarsi
prima di tutto se Erika sia stata sincera nelle risposte oppure abbia mentito
sui propri sentimenti. Interessante è notare in proposito che, fra le
espressioni riportate dal Collegio di periti, vi è quella con cui lei si
autocolloca nella famiglia e si autodefinisce, dicendosi: “Figlia di genitori modello, inserita in una famiglia felice,
studentessa discreta, comunque dotata di alti valori morali trasmessigli da una
madre affettuosa, vicina ed amica meravigliosa”. La stessa Erika però
riferisce altrove di “incomprensioni”
con la madre, a seguito delle quali lei si ritirava “sdegnosa” nella sua camera, dove la madre poco dopo la raggiungeva,
parlavano “come amiche”, e “tutto diventava come prima” ed afferma
poi, in altro significativo colloquio con i periti, che tutti quelli che
ammazzano le persone “tanto a posto non
sono”. Inoltre riconosce, su precisa domanda del perito, che un segno di
anormalità è il precedente (non attuale) suo assoluto non attaccamento alla
madre, e al perito che le comunica che “tutti
pensano che lei odiasse sua madre”, risponde: “No, odiare no…era indifferenza…perché dovevo odiare la mia mamma?”.
Orbene, a questo punto non si può
tralasciare di osservare, nell’accingerci a rispondere al preliminare quesito
sulla sincerità delle risposte di Erika, sincerità che costituisce una base
operativa di cui occorre esser certi, che, pur perseguendo periti e giudici il
medesimo fine di accertamento della verità, solitamente il magistrato è incline
a battere strade diverse per comprendere la psicologia dell’autore di un
delitto e i moventi che lo hanno spinto ad agire. Più precisamente, se il
giudice fosse chiamato pronunciare una sentenza soltanto sulla base di una
indagine psicologica, non porrebbe alle persone indiziate domande relative al
delitto, com’è invece accaduto in alcuni dei colloqui dei periti con Erika, i
quali (ci si perdoni questa franca opinione) si son quasi sostituiti ai giudici
nello scandagliare se quei delitti avessero un movente e quale, mentre si sarebbero
dovuti limitare a un campo d’indagine unicamente psicologico, del tutto diverso
da quello che richiamava alla mente dei ragazzi il delitto di cui erano
indiziati, in quanto in tale campo essi avrebbero avuto remore ad aprirsi ad un
interlocutore.
D’altra parte, se i periti hanno posto
alla ragazza anche domande che riguardavano i suoi rapporti con la famiglia, e
in particolare con la madre, e quelli che la legavano ad Omar, non è questa
parte dei test che poteva essere utilizzata per uno studio sulla vera
psicologia di Erika per capire i rapporti tra la sua “coscienza” e i gravissimi fatti commessi, poiché il condizionamento
derivante istintivamente dal nesso tra quanto riferito e gli esiti di un
processo, ha inciso certamente sulla spontaneità delle risposte e quindi
sull’affidabilità dei risultati del colloquio.
Perciò, fino a quando in questi
straripamenti di campo incorreranno psicologi e psichiatri, fondandosi in
ultima analisi su materiale infido, non vi potranno mai essere le condizioni
per una reciproca comprensione tra la psichiatria e il giudice. La ragione
della distanza che ancora divide è che per il perito punto di partenza e
fondamento della sua indagine sono le risposte del soggetto interrogato o
sottoposto ai test di cui dispone la sua scienza, che egli considera senz’altro
come espressioni corrispondenti all’interiorità, spontanee e sincere, per cui
vi costruisce sopra, con una sicurezza che certamente pecca d’ingenuità, il
proprio teorema (ad esempio quello del pensiero “dereistico”), mentre il
giudice, al contrario, parte dal punto fermo che l’interrogato, se colpevole,
tende innanzitutto a escludere la propria responsabilità, per cui naturalmente
nasconde il proprio pensiero e non rivela i moventi che hanno dato luogo al
delitto, quando i sentimenti che sono alla base di quei moventi appaiono in
tutta la loro riprovevolezza. Nella fase in cui subentra il senso di colpa,
egli avverte un rimorso che non gli dà pace, e compaiono nella sua mente, a
volte in una mescolanza che può sembrare assurda ma non lo è, da un lato un
certo bisogno di espiazione, e dall’altro la paura del castigo stesso, che è di
duplice natura: a) quello che infligge la generale riprovazione e si riflette
nella coscienza. Erika infatti ha sentito un “rimorso proprio dentro”, nel contempo si è vista “un
mostro fuori” (e perciò ha dichiarato
ai periti che “aveva tutte le ragioni del
mondo di starsene calma e sorridente ad aspettare che si facesse luce ed il
castello di menzogne costruito sul suo conto si sfaldasse…”) e b) quello
concreto consistente nella paura della pena carceraria, dell’isolamento dal
mondo, nel caso di Erika della perdita chissà per quanti anni, anche per
sempre, di quella libertà anche sessuale di cui aveva goduto più intensamente
con Omar.
Perciò i cambiamenti che si colgono a
piene mani nelle varie versioni che ella dà dei fatti e nella tendenza a
falsificare la realtà non sono i sintomi di una psicopatologia nuova e non
ancora classificata, ma il prodotto della grande paura della punizione,
congiunto al senso di colpa e al lacerante rimorso, e dell’insopprimibile
istinto di conservazione e di difesa contro spaventevoli prospettive di
reclusione a vita, il tutto subentrato nell’area della consapevolezza – questo
è il punto fondamentale della nostra analisi – soltanto dopo l’avvio delle
indagini e comunque un po’ di tempo dopo il sanguinoso eccidio. In conclusione,
su tale punto, sebbene Erika abbia parlato di “indifferenza” nel rispondere alla domanda se nutrisse odio verso la
genitrice e abbia confessato di aver nutrito questo sentimento anche quando,
nel corso dello stesso colloquio, il perito ha introdotto abilmente il termine
“fastidio”, molto vicino a sensazioni di mal sopportazione della madre al fine
evidente di indurla a qualche ammissione su un sentimento che confinava sia
pure alla larga con l’odio (“…Fastidio
no….indifferenza”, ha continuato a rispondere), riteniamo, per quanto
già detto sulla mutevolezza delle sue
parole e delle versioni offerte, di poter dare con la massima sicurezza al
preliminare quesito che ci siamo prefissi la risposta che la ragazza non è
stata sincera e anzi ha più volte mentito. Appare certo, infatti, che Erika
odiasse sua madre, anche se non è altrettanto certo che tale sentimento fosse
pervenuto al livello della sua coscienza nei terribili momenti dell’esecuzione
omicidiaria. E’ assai più probabile, infatti, che quest’odio sia rimasto
stratificato profondamente nel suo inconscio, per effetto delle chissà quante
rimozioni da lei operate ogni volta che il rigore, la inflessibilità, la
durezza della genitrice (la quale “…aveva una forza interna terrificante”)
e la di lei predilezione del fratellino le suscitava pulsioni sempre
interiormente represse e relegate nel sostrato della inconsapevolezza e poi
trasformate, inconsciamente e assieme ad Omar, in un’aspirazione a una
“completa libertà”, che aveva più la consistenza di una illusoria visione che
quella di un concreto obiettivo.
Da questo sottofondo magmatico (è il
campo dell’ “Es” non salito al livello dell’ “Io”) è emerso
quella sera un irrefrenabile impulso a uccidere, a massacrare, a eliminare per
sempre la madre e il fratellino, le cui esistenze soffocavano direttamente e
indirettamente la sua vita e la sua ansia di libertà. Questo impulso non
proveniva in lei dall’aver concepito freddamente e nei particolari i delitti
prima di portarli a compimento, poiché ciò, oltre a costituire la spia di
un’ansia cosciente di libertà, l’avrebbe presumibilmente indotta a limitare
l’esecuzione agli atti strettamente necessari a spegnere le due vite: pochi
colpi di coltello assestati in parti vitali del corpo delle vittime, con
l’attiva collaborazione di Omar. Si assiste, invece, ad una duplice impulsività
scatenata, ad una tale efferatezza e crudeltà da impressionare una intera
collettività nazionale, proprio perché i due sono apparsi alla pubblica
opinione come portatori della ferocia delle belve. Sono quindi anche i dati
oggettivi che fanno molto dubitare dello stato delle coscienze di quei
massacratori appena adolescenti. Coscienze da immaginare perciò del tutto
obnubilate, poi chiarificatesi man mano che le indagini e gli interrogatori
hanno fatto rivivere ai ragazzi le fasi del delitto che avevano commesso. Quando
Erika, nella sua terza versione, ammette la propria partecipazione attiva,
aggiunge che i ricordi le sono ritornati leggendo il resoconto dell’autopsia
dei familiari e si esprime in modo sufficiente a confermare la tesi
dell’originaria incoscienza. Enorme meraviglia destano le sue parole: “L’autopsia spiega tutto…e quindi bisognava
essere in due. Mi sono venute delle crisi…Un po’ di giorni fa ho aperto il
rubinetto e ho visto il sangue uscire….Poi ho urlato…Comunque l’Erika che è qui
adesso non è quella di quella sera…” Qui, a parte il tentativo di suscitare
compassione, si ravvisa una sorta di sdoppiamento di personalità poiché compare
una Erika cosciente che guarda, analizza e giudica un’altra Erika, incosciente
al momento del crimine, la quale recupera dopo il delitto un attaccamento verso
la madre che prima non aveva, in quanto prima provava solo indifferenza, mentre
ora, all’osservazione del perito psichiatra (che le dice: “Un segno di anormalità è il tuo assoluto non attaccamento a tua mamma”),
risponde: “Adesso sì, però!!”, in un
secondo evidente tentativo di separare la propria personalità del passato da
quella del presente. E’ subentrata dunque una consapevolezza diversa da quella,
verosimilmente inesistente, del momento delle uccisioni, laddove qualcos’altro
deve aver funzionato nella mente della ragazza e deve aver governato quei
crudelissimi impulsi, senza che la persona umana Erika se ne sia resa conto,
perché chi agiva quella sera era un inconscio o subconscio che recava in sé un
serbatoio di feroci istinti di odio verso la genitrice e indirettamente, per
via di una morbosa gelosia, verso il fratellino e forse anche verso l’intera
famiglia (è stato forse fortunato il padre a non essere rientrato a casa in
quei frangenti), e si scatenava per mano di un essere non umano, le cui azioni
omicidiarie si rivelano chiaramente all’esterno come “disumane”, ma non possono
essere ritenute tali sul piano morale perché sono state compiute senza
coscienza, anche se con una intensissima volontà di uccidere. “Follia
intellettiva” (intellettuale e morale) secondo la definizione di antichi
teorici.
Ci
si chiederà di Omar, ma lui è divenuto completamente succubo di Erika, la
quale, soggiogandolo con i piaceri del sesso certamente sconvolgenti per la sua
età, era stata capace di trasmettergli la propria falsa, illusoria visione di
una condizione di vita nuova, caratterizzata da una incomprensibile “completa
libertà”, conquistandolo totalmente e togliendogli così ogni capacità di
autodeterminazione. Anche la coscienza del più giovane fidanzatino era dunque
completamente ottenebrata per effetto di un processo di identificazione con
Erika, che si era accentuato negli ultimi quattro mesi in cui la coppia si era
chiusa ad ogni rapporto sociale, intensificando solo quelli personali, e che lo
ha fatto partecipare al tremendo eccidio come un automa, accomunato però a lei
da una perfetta simbiosi psicologica, caratterizzata anche da una inquietante
affinità: una morbosa gelosia di Omar che lo portava ad impedire a suo padre
qualsiasi espressione affettiva nei confronti della moglie.
Quindi
la scissione del binomio coscienza-volontà è certamente avvenuta nei due
giovanissimi assassini, con il superamento delle teorie che costituiscono il
fondamento del Codice Rocco circa l’inscindibilità del detto binomio. Sembra un
assurdo quello di una volontà che agisce senza coscienza, si manifesta come una
spaventevole mostruosità quella di due coscienze inesistenti e di quattro
braccia e quattro mani che si agitano e freneticamente sferrano oltre novanta
fendenti sui corpi indifesi di persone care, come due autentiche, acefale
macchine di morte, ma non è possibile dare una spiegazione diversa se si
vogliono conciliare tutti gli elementi oggettivi e soggettivi emergenti dalla
terribile vicenda, a partire dallo scenario del delitto fino a percorrere ogni
fase delle indagini e delle dichiarazioni di Erika, non perdendo mai di vista
gli impressionanti risvolti psicologici della loro mutevolezza, delle finzioni,
delle riprovevoli menzogne, come, tra le altre, l’iniziale accusa contro il
ragazzo che aveva completamente plagiato e che molto probabilmente lei non
amava.
Se
dunque i crimini più efferati possono nascere anche da impulsi non governati
dalla coscienza, allora la disciplina dell’imputabilità va modificata, ma non nel senso di rendere più rigorosa
l’indagine sulla capacità d’intendere e di volere del minore infradiciottenne,
bensì considerando, in un quadro assai più ampio dell’intera problematica, che
il dato “uomo”, nella sua complessione psicofisica, è mutato nell’attuale
momento storico che stiamo vivendo, particolarmente nelle società più civili e
progredite e quindi anche in Italia.
Nel
chiederci il perché, non possiamo tralasciare di osservare che è cambiato il
rapporto tra i componenti della famiglia e tra il cittadino e la società, ora
caratterizzato, nella prima, da un’innegabile accentuazione dei contrasti
derivanti da esigenze di lavoro, da una minore comunanza di vita e da una
maggiore libertà del singolo, disancorato dall’antica coesione del nucleo
familiare, nella seconda da un fenomeno di schiacciamento della massa
sull’individuo, foriero di acutissime divergenze di vedute e di valori, sulla
scia del relativismo etico e della verità, con conseguente accentuazione della
libertà di critica e, in definitiva, di contrapposizioni e reazioni anche
violente degli uni contro gli altri, poiché non pochi individui si sentono
vittime della famiglia o della società, cui attribuiscono, con assai maggiore
frequenza che in passato, tutte le colpe delle loro frustrazioni e dei loro
insuccessi, più frequenti anch’essi in una vita sociale ispirata al consumismo
e all’edonismo e purtroppo piena di delusioni e di insoddisfazioni. Sta qui
l’origine di tante pulsioni contro il “moderno” male di vivere e di
manifestazioni continuamente rimosse, ma che si sedimentano pericolosamente nel
subconscio di molti, per poi esplodere nella commissione dei più orrendi
crimini, come gli omicidi in famiglia e quelli dei serial killer, nei quali il
subconscio gonfio di invidia, di desideri di rivalsa, di vendetta, di odio, di
giustizialismo, dinanzi a tanta fame e sete di giustizia che non viene saziata,
è divenuto un meccanismo di funzionamento della mente non più controllato dal
potere di inibizione. Tutto ciò nel contesto di indebolimento, nelle civiltà
democratiche e di massa, del principio di autorità e di quelle linee-guida più
sicure che appartenevano all’unità di una cultura che strutturava diversamente,
e forse meglio, la vita e la psicologia dell’individuo.
Questi
sono, purtroppo, i risultati della presente analisi, la quale, se da un lato
suggerisce certamente una modifica della imputabilità penale e della
costruzione teorica del rapporto coscienza-volontà, dall’altro però non ci
consente di formulare proposte da legislatori. Meglio conservare al momento il
ruolo più modesto di chi ha sentito il bisogno di esporre i termini e la
portata, enorme e drammatica, di un problema che investe l’intima essenza
dell’umano e le sue profonde modificazioni, anche al fine della ricerca di una
base di comprensione tra la psichiatria e il diritto, tra la scienza e la
legge
Gennaro Iannarone