mercoledì 7 settembre 2016

Poesia di Gennaro Iannarone (Commento di Armando Saveriano)


Inizio modulo



https://scontent-mxp1-1.xx.fbcdn.net/v/t1.0-1/p50x50/12494940_137254619984991_3935309319459636588_n.jpg?oh=501b31076922e7ef7c822bb36c004c27&oe=5844C679





Si può esordire, e brillantemente, nel mondo controverso della Poesia in età matura? E spiazzare poetini e poetucole autoreferenziali e noiosamente insistenti nella Fiera delle Vanità?
Certamente. L'ex giudice Gennaro Iannarone ci è riuscito, con l'approvazione di Barberi Squarotti, tra l'altro. Con la raccolta "QUEL FOULARD GIALLO-NERO" ridomina il panorama lirico con la nuova soggettività, sterrando una nuova area, dialogando o monologando in un portale di locazione personale, efficacissima, della parola lirica. Il vero interlocutore, resta, sottotraccia, la Poesia, che viene interpellata, interrogata su se stessa, accarezzata e dissezionata, nel contempo, per mettere a nudo le sue potenzialità, tra lirica tardo romantica e schietto confessionalismo, idillio domestico e fotogramma dell'ieri e dell'oggi, con personaggi che s'intersecano, fanno ascoltare la propria eco, imprimono una silhouette nell'immaginario di chi legge le 40 tranches de vie contenute nell'agile, ma corposissimo libretto edito da Scuderi. QUEL FOULARD GIALLO-NERO completa, ma non conclude, il percorso del precedente, e bellissimo, "VIVERE BALENANDO IN BURRASCA": un diario in versi, un titillamento della memoria, un atto di giustizia verso IL RICORDO, affinché non venga mortificato dalle nebbie del revisionismo psichico o dalle sabbie dell'oblio. Poesia di descrizioni, di soprassalti emotivi, di immagini focalizzate e fermate in un dipinto lessicale e armonico che continua ad occhieggiare a Cardarelli e a Lee Masters, con l'affiorante empatia di un Kavafis. Una poesia che incede coi ritmi della discorsività intrisa di pathos pervasivo, dove può non a caso emergere un lieve tono satirico, donando un tinteggiamento mimetico tutt'altro che sottovalutabile. Ogni testo è preceduto da un commento dell'autore, che mette sulla punta del cucchiaino la genesi dei morceaux affettivi, erotici, filosofici, morali, miticheggianti (Atteone), attinenti all'esperienza professionale (Il colore del diritto, Il colore del processo, Fama di Giudice, Giudice del mio tempo, Cinque borse nere), fino ad un bilancio terminale, schiettamente agro, che culmina con Nido di Gabbiano e con Congedo di una silloge. VIVERE BALENANDO IN BURRASCA e questo altrettanto spregiudicato QUEL FOULARD GIALLO-NERO, a mezzo di richiami logici ed elementi lirici cuciti nel tessuto interno del linguaggio espressivo, costituiscono delle teche di storia individuale che però si allarga a descrivere il mondo sia interiore sia inter-relazionale sotto osservazione poetica. Poesia, quella di QUEL FOULARD GIALLO-NERO, che è trattazione del quotidiano e della memoria che nel quotidiano irrompe in modalità, ripeto, colloquiale, non solo letteraria. Anche gli oggetti, in primis il foulard del titolo, costituiscono una compensazione del destino, si animano di un fatalismo irresistibile, forse più dei luoghi. A.S.

QUEL FOULARD GIALLO NERO

Fu così che nelle mie mani divenne messaggero
quel tuo foulard di seta dai colori di vaso greco,
giallo e nero. L'avevi lasciato a casa nella fretta
del meriggio, quando incombeva l'ora familiare.
Parvero impresse ai lati quattro teste di Medusa,
ma quando m'accostai, sorrisero altrettanti volti.
Fu allora che uno sgomento m'investì al rintuzzo
forte di un'idea che rimescolai, trepido di gioia.
Ti attese sul cuscino accanto a un sogno solitario,
tua dolce mano al mio risveglio felice lo raccolse.

*

FAMA DI GIUDICE

Casa che m'infondesti gioia come la piccola città,
in te fu la sorpresa della paternità di una bambina,
che sol di notte avvertivo nella mia appartenenza,
quando talvolta la cullavo inventandole una nenia.
Non attratto dalla grande vera felicità, mi appariva
la fama del giudice espandersi per le vie cittadine,
penetrando anche nelle pareti dov'era sorta la vita
della mia famiglia. Ignoravo che proprio là spenta
era la mia figurata gloria, e indifferenti gli sguardi
a quella mia immaginaria e vanesia appariscenza.

*

TIMORE DI PEREGRINARE

Forse non è questo l'ultimo mio approdo,
dove il timoniere la barca mi ha ancorato,
ma troppe volte il sentiero della mia vita
s'è deviato da previste rotte, ed io trepido
al pensiero di dover vagare ancora, nello
spazio di questa terra, ora che stanchezza
grava sulle spalle e ogni nuovo cammino
è duro al passo. Mi sento come gabbiano
nauseato da odore di salmastro che vuole
la riva per sua fatal quiete 1), ora che è vano
travaglio un ansioso volo sopra ogni mare.

GENNARO IANNARONE

1) citaz.Foscolo, Sonetto "Alla sera"
















sabato 3 settembre 2016

RACCONTI (Ricordi della gioverntù)


RICORDI  DELLA  GIOVENTU’

(Biella e la magistratura)



Non volevo iscrivermi alla facoltà di legge dopo la maturità classica, ma a quelle di ingegneria o di matematica e fisica, le materie che avevo amato di più al liceo. Mio padre mi convinse a prendere giurisprudenza, facendo leva sui miei punti deboli, come soltanto lui sapeva fare. Vedi – mi disse – non pensare che da ingegnere costruirai i ponti o i grattacieli, finirai per insegnare materie scientifiche in qualche scuola; e poi, la frequenza dei corsi universitari è obbligatoria per le facoltà che ti piacciono e non potendo raggiungere ogni giorno Napoli da Frigento, cento chilometri all’andata e cento al ritorno, dovrai risiedere là. Se invece prendi legge, l’università te la fai in casa, andrai a Napoli soltanto per sostenere gli esami e potrai anche contare sul mio aiuto. Non accennò ad altro, poiché era sempre rispettoso e discreto con me e del resto poteva anche fingere di ignorare i miei legami sentimentali, ben prevedendo l’effetto che avrebbero prodotto le sue parole. Ben sapeva di quanta nostalgia avevo sofferto durante i sei lunghi anni trascorsi ad Ariano Irpino, e non poteva aver dimenticato la gioia con cui, dopo aver visto i quadri dei voti della maturità, eravamo ritornati a Frigento a bordo della sua Fiat 500 di colore nero. Doveva essere più che sicuro di quanto si fosse rafforzata in me la volontà di riappropriarmi interamente di quella realtà che mi riempiva la vita, fino ad allora goduta a sorsi soltanto nei fine-settimana. Sapeva del mio attaccamento alla cerchia degli amici, al Sali e Tabacchi di Peppino d’Arminio, dove trascorrevo alcune ore della giornata ad ascoltare al jukebox le canzoni degli anni ‘60 o a giocare al biliardo, al “Circolo degli intellettuali”, dove giocavo a scacchi ed a poker per interi pomeriggi.

Così le sue parole trovarono una facile breccia nel mio animo, facendomi svegliare contento dal sogno di diventare ingegnere, e si riaccese ancor più forte in me il desiderio di restare nel mio piccolo paese per coltivarvi tutte le mie passioni, prima fra tutte l’amore per la mia Liliana, con le passeggiate della tarda mattinata e con quelle della sera per una via Limiti senza lampioni, dove ci potevamo guardare bene in viso soltanto quando c’era la luna.

Ma appena mi iscrissi a legge, il bravo genitore dovette partire per Biella perché promosso e trasferito di ufficio per ricoprire colà il posto di Procuratore della Repubblica, come si usava allora con i migliori di noi, o più probabilmente con quelli che avevano sempre dimostrato un’assoluta e talvolta non gradita indipendenza di pensiero. Si era insediato da qualche anno il Consiglio Superiore della Magistratura, che sballava i neopromossi dal Nord al Sud dell’Italia, come si faceva con i soldati in servizio di leva e come oggi non si fa neppure con i marescialli dei Carabinieri. A Roma, dove si era recato di persona per cercare di evitare quel forzato allontanamento dalla sua terra, non avevano voluto sentire ragioni. Partì con il treno insieme con mia madre da Benevento, e io ebbi un tuffo al cuore e una forte palpitazione quando sentii il fischio del capostazione e lo stridio di ruote del convoglio che si muoveva, immaginando che i suoi occhi, appena scomparso alla mia vista, si sarebbero imperlati di lacrime.

I primi due anni di università non andarono bene. Quattro o cinque esami in tutto e mi ero indotto persino a falsificare il libretto per fargli credere di aver dato qualche esame in più. A dire la verità lo studio del diritto non mi piaceva perché lo trovavo astratto, noioso e mnemonico, e così diminuirono man mano le mie ore di scrivania. A Napoli, nei giorni in cui mi trattenevo durante le sessioni di esami, preferivo abbandonarmi agli scherzi goliardici o alle attrattive di una città che si faceva amare per la sua varietà, per il piacere di goderla negli aspetti regali e aristocratici e nella vivacità dei suoi vicoli, o di osservarla nel suo toccante degrado sociale, e anche a Frigento i giochi e gli amici mi distraevano molto dallo studio. Passavo poi buona parte della serata con la fidanzata, rimasta delusa anche lei della scelta di iscrivermi a giurisprudenza, che a quei tempi appariva come il rifugio di chi non sapeva cosa avrebbe voluto fare nella vita e mirava a quella laurea, non con l’idea di soddisfare un preciso interesse culturale ma solo con l’intento di avere una maggiore possibilità d’impiego. Mi entrò perciò in mente, per un ritorno di fiamma dell’antica passione, l’idea di cambiare facoltà e subito la coltivai seriamente, al punto che ritirai i moduli all’università per la domanda e mi feci prestare da un amico il testo di Analisi di Ugo Amaldi, ritornando così con gioia alla mia matematica, anche se il pensiero era spesso rivolto a Biella e a papà che immaginavo lavorasse sodo, sognando un figlio magistrato. Questo lo avevo capito, come lui aveva capito le distrazioni del paese e la mia scarsa applicazione allo studio. E così, dopo un insuccesso nell’esame di “Diritto Privato”, dove avevo scansato per la clemenza del professor Leonardo Coviello una bocciatura a libretto, rimasi con ben pochi argomenti per oppormi al suo desiderio di farmi soggiornare per alcuni mesi a Biella, allettato anche dalla promessa che mi avrebbe fatto guidare la sua Fiat ‘600 quasi per l’intero viaggio di mille chilometri. Al termine della prima tappa ci fermammo per la notte in una pensioncina alla buona, nei pressi di Ancona, che ci consentì l’indomani di visitare Recanati. Indimenticabile l’impressione che provai sotto il piccolo colle dell’Infinito, pensando ingenuamente all’ispirazione che Leopardi avrebbe tratto dall’imponenza dei miei monti, ma profonda fu la suggestione nel vedere, grazie alla cortesia del conte pronipote, la casa del poeta, le biblioteche, la coperta grigia e quasi lacera con cui si copriva nel freddo delle notti, per continuare a poetare “alla fioca lucerna”. Ripreso il viaggio, pranzammo a Rimini, in un ristorante che dava su una bella e grande spiaggia ancora deserta, e poi raggiungemmo Bologna, che attraversai senza difficoltà, per prendere l’autostrada che ci condusse a Voghera, donde uscimmo in direzione di Alessandria e di Vercelli.

Giungemmo a Biella verso sera e dopo cena la stanchezza ci condusse subito nella stanza di albergo di viale Italia, che mi avrebbe ospitato in quei mesi di forzato soggiorno. Non sono in grado di descrivere il senso di solitudine e di tristezza che mi assalì appena mi distesi a letto. Ricordo che, pensando lungamente a Frigento, non riuscivo a prendere sonno. Ma qualche giorno dopo, come mi sarebbe poi accaduto spesso nella vita, mi ero già ambientato, io, paesanotto del Sud, in quelle strade tanto diverse dalle nostre, che di prima mattina e sul tramonto si riempivano di uno sciame di operai e operaie che scorreva verso le fabbriche, e nel resto della giornata apparivano invece semideserte, calate in uno strano silenzio, scandito in lontananza dal ritmico rumore dei tanti invisibili telai rinchiusi in grandi capannoni. In piazza sostavano solo alcuni pensionati, che trovavano da ridire, per quel poco che potei capire dal loro stretto dialetto, sulle migliori condizioni di cui godevano i lavoratori, a differenza dei tempi duri del loro passato. Più raramente si udiva il passo frettoloso di donne che uscivano per spese, quasi tutte magre, dagli occhi piccoli e dai nasi affilati, che per la verità mi sembrarono un po’ bruttine, forse perché i miei canoni estetici erano legati, allora e a quell’età, alle più formose bellezze mediterranee. Ogni tanto mi colpiva l’orecchio il rombo dei motori di auto molto belle, fra cui le Lancia Appia e qualche fuoriserie di proprietà dei Rivetti, degli Zegna, dei Cerruti e di altri famosi lanieri di quella industriosa e ridente cittadina. I quali si ritrovavano tutti in chiesa la mattina della domenica a ringraziare il Signore della loro prosperità, perché, come diceva mio padre, pur apparendo cattolici praticanti, la loro fede di fondo era quella calvinista e si ritenevano toccati dalla grazia già in terra. Frequentai spesso la grande piscina che Rivetti aveva fatto costruire in memoria di un figlio morto in un incidente stradale e visitai anche il notissimo lanificio di Cerruti, dove mia madre acquistò tra l’altro del filato con cui confezionò un pullover che ancora indosso, raramente e nei mesi invernali, per non far alterare il bellissimo colore verde che ancora conserva. In serata qualche raro bar era aperto e uno in particolare mi attraeva per una scacchiera di antica e pregiata fattura, con cui qualche sera mi ci giocai anche il caffè, dal sapore, però, di una buona tazza d’orzo rinfrescante.

 Dopo circa una settimana che avevo preso l’abitudine della passeggiata pomeridiana, mi capitò di incontrare finalmente una ragazza veramente carina. Al mio timido approccio, mi disse subito che era fidanzata, ma quando le risposi che per me non era un problema perché non ero un tipo geloso mi sorrise con malizia e accettò che le facessi compagnia. Fu così che i nostri incontri si ripetettero piacevolmente ogni pomeriggio, sia pure per un breve tratto di strada, quella che lei percorreva per giungere allo studio dove lavorava come ragioniera. Che rabbia e che figura quando mi chiese se avevo la macchina e io dovetti risponderle che purtroppo mio padre, appena arrivati, l’aveva collocata sui cavalletti nel garage dell’albergo! Rimediai in qualche modo recandomi a trovarla nel suo paese, Andrate, distante ventiquattro chilometri, noleggiando un taxi con qualche migliaio di lire che prelevai furtivamente dal portafogli di mio padre, provando il sottile piacere di un dispetto. Non me la presi tanto, invece, quando lei, credendo che trascorressi tutto il mio tempo a gironzolare per le strade di Biella diversamente dalle abitudini di quei laboriosi cittadini, mi disse: “Sei un pelandrone di Napoli, Gennaro!”. Così, nell’ultimo pomeriggio in cui la vidi, parlandole del mio lontano paese irpino e delle lunghe ore di studio cui mi stavo dedicando quasi per l’intera giornata, riuscii a intenerirla e a rubarle anche un bacio dietro un portone socchiuso. Poco dopo, nel salutarla per sempre, mi venne di dirle che ero il figlio del Procuratore della Repubblica, ma se rivedo l’espressione del suo viso, tale che mi parve di capire di essermi reso antipatico ai suoi occhi nel darmi in quel modo importanza, penso che quel bacio, solitario fiore di campo della mia unica primavera nordica, l’avrei forse perduto.

Ora che mi tornano alla mente quei pochi mesi del ‘61 e ripenso alle lunghe ore in cui rimanevo inchiodato sul testo di diritto privato del Trabucchi, e riascolto la voce di mio padre che, negli intervalli delle istruttorie che conduceva nella stanza a fianco, mi esponeva i principi fondamentali di quella materia con tanta passione da inciderli nella mia mente come medaglie, ritrovo nei valori di una forte tradizione culturale che si era fatta scuola per amore filiale la spiegazione della mia inaspettata scoperta del diritto, del fervore degli studi che seguirono, del rapido recupero del tempo perduto, e, naturalmente, anche del perché sia diventato giudice.

         E provo ancora meraviglia quando mi soffermo a pensare che la svolta decisiva e felice della mia vita era avvenuta in un contesto di solitudine, di tristezza e di nostalgia, in un ambiente totalmente straniero, dove nell’angusta stanza di un Tribunale del Nord la sorte aveva deposto il seme di una passione che non mi avrebbe più abbandonato, quella per il diritto e per la mia Magistratura.

Ma sono il taxi per Andrate, la purezza di quel viso di ragazza e le belle auto degli industriali a risvegliarmi qualche volta il piacevole ricordo di Biella.

La partenza per Napoli, dove all’indomani avrei prestato giuramento come uditore giudiziario presso la Corte d’appello fu accompagnata da espressioni indimenticabili che sembrarono allora due battute in quel pomeriggio del gennaio ’66. Mentre uscivo dal portone di casa per andare a prendere il pullman, sulla soglia ricevetti dai due magistrati di famiglia, mio padre e mio zio, l’abbraccio augurale, ma mi ero appena girato che mi raggiunse alle spalle una frase di mio padre che se non avesse avuto il tono scherzoso sarebbe risuonata ai miei orecchi come una sfiducia: “Viri, Michè – disse rivolto al fratello – la f... è fenuta mmano a le ccriature!”.

Fece seguito una gran bella risata di zio Michele, mentre proseguivo, sorridendo anch’io, verso la piazzetta dove faceva capolinea il pullman. Vi salii dopo una breve attesa con le mani impegnate dalla borsa e da una grande busta, dov’era ben piegata la fiammante toga di magistrato, che avevo comprato a Napoli in via Duomo e mi era costata centomila lire in più del mio primo stipendio. Dopo aver dato uno sguardo ai posti liberi, accettai di buon grado l’invito di un contadino del paese a sedermi accanto a lui. Mi conosceva e anch’io ricordavo le volte ch’era venuto a consiglio da mio padre per questioni di contratti agrari, in quel tempo in cui, dopo più di una riforma demolitrice, era stata finalmente abrogata l’ingiusta mezzadria. Dopo i primi convenevoli, mi giunse da lui la domanda che desideravo mi facesse, poiché in verità non ci stavo nei panni dalla contentezza per la carriera che stavo per intraprendere. Risposi subito ch’ero diventato giudice e che dovevo raggiungere Napoli come prima destinazione. Seguì una pausa, non breve, durante la quale restai naturalmente in attesa dei complimenti per quella mia prestigiosa sistemazione professionale. Il buon villano invece non mi diede alcuna soddisfazione, non si scompose, non mosse verso di me neppure la testa, che mantenne poggiata sullo schienale del sedile, ma girò soltanto i suoi piccoli occhi neri verso il basso, come se guardasse le mie scarpe, e abbozzando un riso sardonico fece testualmente: “Don Gennarì – appellandomi come si usava in paese verso i cosiddetti figli di papà – io, prima re ve fa fa’ a vui lo giurice, ve facevo fa’  trent’anni re zappa”.

Compresi subito che non si trattava di un attacco personale, e perciò non mi turbai, anzi gli sorrisi anch’io, ma, sinceramente sorpreso da quelle parole che non mi aspettavo, mi sforzai di trovare subito una risposta azzeccata. Uno spontaneo, immediato raccordo della “zappa” alla “f...” udita poco prima, faceva però ressa nella mia mente. La zappa era il simbolo di una vita di lavoro faticoso, che il contadino mi avrebbe dal suo punto di vista imposto prima di affidarmi il delicato compito di amministrare la giustizia. L’altra era invece una realtà altrettanto importante nel senso che le aveva voluto attribuire il genitore, che ben sapeva quanta maturità fosse necessaria per capire l’intrinseca “essenza” e i veri valori della donna. Mi venne per un attimo l’idea di cavarmela riferendo proprio della battuta di mio padre, ma non mi piacque il pensiero di dargli in sostanza ragione e ancor meno quello di vederlo sorridere una seconda volta. Eppoi non mi veniva di mescolare la sottile ironia del genitore, che in fin dei conti mi esortava a considerare la magistratura come una realtà difficile da affrontare ma importante e appassionante quanto l’altra “naturale” e umana, con la brutale serietà di quello sfiduciante ammonimento, nel quale si avvertiva anche la tipica mentalità contadina e operaia che considerava arti leggere le professioni intellettuali e, alimentando l’odio di classe, portava in quei tempi molti voti al partito comunista.

Decisi quindi di portare il discorso sullo scherzo, riferendogli di un episodio che proprio a mio padre, popolare per sensibilità ma intellettualmente aristocratico, piaceva raccontare. Quando era giudice ad Ariano Irpino, in una delle udienze che spesso presiedeva, dopo aver sentito come testimone un contadino del posto, lo aveva invitato a sottoscrivere il verbale. Il buon uomo, al quale era costata già una gran fatica comprendere le domande e spiegare bene come erano andati i fatti, aveva cominciato a scrivere il suo nome e cognome con esasperante lentezza, dopo aver girato e rigirato in mano la penna che il cancelliere gli aveva porto, non perché fosse analfabeta ma per la difficoltà di impugnare in modo idoneo quell’oggetto, al quale aveva rivolto più occhiate che allo stesso foglio su cui stava firmando. Con il sudore sulla fronte e venutagli poi meno ogni energia nelle dita per stilare l’ultima sillaba del suo cognome, alzando uno sguardo scoraggiato verso mio padre e lasciando cadere la penna sulla carta, si era alla fine arreso dicendo: “Presidè, è meglio la zappa!”.

Non ricordo la reazione del mio indimenticabile compagno di viaggio e il seguito di quel discorso, tranne che si parlò dei soliti argomenti sulla vita di campagna e su quella di città, e che nel salutarmi con cordialità mi augurò una carriera bella come quella di mio padre. Quando rimasi solo nel seguito del viaggio, mi venne da pensare, non senza meraviglia, ma anche con trepidazione per il mestiere che stavo per affrontare, che sia l’uomo di legge, sia il lavoratore dei campi avevano espresso, entrambi con l’esperienza dell’età, il comune convincimento che i giovani non fossero in grado di comprendere e di gestire le situazioni più importanti della vita.






venerdì 2 settembre 2016

RACCONTI (Ricordi dell'adolescenza)


RICORDI  DELL’ADOLESCENZA

(Primi amori e primi giochi)



Non ricordo di aver goduto nell’età dell’adolescenza uno “stato soave” e una “stagion lieta”, pur non essendo mancati squarci di azzurro intenso nel mio cielo. L’innata vivacità, una grande riserva di energie nonostante mangiassi pochissimo, e una sfrenata passione per i giochi mi spingevano fuori di casa, giù nella strada fra i ragazzi più grandicelli di me. Ma per guadagnare la porta di uscita dovevo superare ogni volta un grande ostacolo. Mia madre, di temperamento possessivo e ansioso, mi proibiva spesso di andar fuori perché si preoccupava che giocando mi facessi male. Quante volte ho guardato con invidia i miei compagni dal balconcino della casa di zio Marciano, che è l’ultima sulla destra per chi guarda via Roma con le spalle rivolte alla piazza, che facevano “su la piazzuola in frotta…un lieto romore”, e quanto ho sofferto di non poter essere in mezzo a loro! Specie nei pomeriggi assolati, quando mi si costringeva ad andare a letto con mio padre per evitare che uscissi nella controra, mi giungevano dalla strada le loro grida festose che non mi facevano dormire, e io aspettavo con ansia i trentatré rintocchi del campanone della cattedrale, che avvertivano anche i lavoratori agricoli delle più lontane contrade che mancavano tre ore al tramonto del sole, perché quel suono svegliava il genitore e faceva cessare il mio martirio. E quando talvolta protestavo per liberarmi da quella quotidiana prigionia, mia madre diceva di tenermi tanto caro da temere che persino una folata di vento potesse farmi male.

Un momento di grandissima gioia fu il regalo di una bicicletta, marca Gloria, di colore rosso. Avevo dodici anni, e, quando mio padre me la portò, la casa si riempì di ragazzini che facevano festa intorno a me mentre la liberavo dall’imballaggio. I primi giri li feci nel lungo corridoio di casa, ma passò più di un mese prima che potessi portarla sui Vasoli. Imparai subito, e quando tolsi le piccole ruote laterali di sicurezza toccai con un dito la felicità. Non mancarono le solite imposizioni di percorsi obbligati, ma per via Limiti ci andai lo stesso, gustando le prime vere trasgressioni, divertendomi un mondo e rimediando anche delle cadute e qualche sbucciatura alle ginocchia, che mi facevano temere di più dei rimproveri di mamma. Tanto che, una volta che zio Aniello accennò a dire che glielo avrebbe riferito, cominciai a rincorrerlo e a tirargli addosso delle pietre, l’una dopo l’altra, fino a costringerlo a rinchiudersi in casa. Tornavo spesso sudato da quelle veloci pedalate e ciò che più mi indispettiva era l’immediata ispezione del collo, seguita dall’immancabile sgridata. Per non subirla, giunsi al punto di espormi al vento nei vicoli del paese, più spesso nello stretto della Baracca, dove soffiava più forte e più fresco il ponente, sbottonandomi persino la camicia per farmi asciugare al più presto il sudore. Fu forse a causa di queste imprudenze che mi ammalai di una pleurite che per sette lunghi mesi mi tenne lontano dalla scuola, riducendomi in condizioni di impressionante magrezza. Tutti i medici del paese si avvicendarono al mio letto, senza riuscire a capire quale malattia avessi contratto, fino a quando mio padre, consultando l’Enciclopedia dei Fratelli Pomba, non sospettò l’esatta diagnosi. Alcune iniezioni di streptomicina, appena da qualche anno nel mercato farmaceutico, mi guarirono nel giro di una settimana, ma lo spavento, quello che avevo letto nel viso dei miei genitori con la psicologia già strutturata del figlio unico, mi lasciò i segni indelebili di un brutto trauma, che credo sia all’origine della mia patofobia.  Seguì il ritorno agli studi, alla scuola media presso l’Istituto Schettino, e ai giochi, tra cui comparvero le carte e soprattutto gli scacchi, che sarebbero diventati la mia più grande passione ludica: seria, scientifica, ma intrisa di estro e a suo modo anche di violenza.

Erano finalmente arrivati gli anni delle dolci sensazioni, nei quali molto precocemente avvertii l’interesse per l’altro sesso. Mi si risvegliò infatti una tale curiosità che un giorno, toccandomi, godetti un solitario orgasmo con lo stupore di una scoperta tutta personale, sconosciuta agli altri maschi, tanto che parlai con i miei compagni del grandissimo piacere che avevo provato. Avevo circa tredici anni quando ebbi il primo innamoramento. Una brunetta dagli occhi molto espressivi era venuta da Guardia dei Lombardi per trascorrere qualche mese con la zia, dirimpettaia della casa di nonno Gennarino. Io fui subito attratto dal suo sorriso, ma per rivolgerle una parola d’amore dovetti farmi molto coraggio per chiederle, dopo pochi giorni che l’avevo conosciuta: “Ti vuoi mettere a fare l’amore con me?”, classica “dichiarazione d’amore” di quell’epoca, di tutt’altro significato da quello che le stesse parole potrebbero avere oggi. Fu un idillio che durò l’arco di un inverno, con teneri sguardi e qualche timida, ma forte stretta di mani, cui offrirono occasione anche le funzioni religiose in chiesa, dove ci sedevamo sullo stesso banco, senza il minimo turbamento di peccato. Finì con il regalo di una piccola collana, che appena indossata si spezzò, lasciandola irrimediabilmente delusa di me.

In quel tempo trascorrevo spesso le serate in casa di Ninino, mio coetaneo, figlio dell’avvocato Testa, col quale m’intrattenevo a giocare, nel periodo natalizio anche a tombola, con le sorelle e le mie zie Ada ed Elena, amiche della famiglia. La sorella più piccola si chiamava Vanna, e benché avesse appena una decina d’anni appariva ai miei occhi già come una piccola donna, in una incipiente ma evidente pubertà. Restavo sempre più incantato dalla sua bellezza, e ogni sera mi scoprivo desideroso di parlarle, o di fissare lo sguardo nei suoi occhi mentre si giocava, trovando sempre più di frequente una dolce corrispondenza nel modo come a sua volta mi guardava e mi sorrideva. Rimasti soli una sera nel grande soggiorno, mentre gli altri della famiglia erano in cucina a cenare, fu un tutt’uno avvicinarmi a lei, cingerla in vita con un braccio e baciarla sulla bocca, a labbra chiuse. Restammo così, immobili per un minuto, e io sentivo il cuore che mi batteva forte mentre lei si abbandonava a quel bacio a occhi chiusi. Un rumore di passi che si avvicinavano ci fece staccare, e io riuscii a cogliere solo un attimo per dirle con voce roca che mi ero innamorato. Quella notte mi rotolai in una immensa gioia fino al mattino nel letto dove dormivo nella casa dei nonni paterni con gli zii Angelo e Michele. Seguirono incontri ancora più belli, tanto appassionati quanto casti. Poi ci perdemmo di vista, perché il padre la mandò a studiare a Napoli, nel collegio della Suore Dorotee. Ritrovatici entrambi soli sulla soglia dell’età anziana, più volte abbiamo parlato dell’indelebile ricordo del nostro primo amore, amaramente constatando quanto fosse difficile riannodare percorsi di vita che si erano divaricati quarant’anni prima. Sapendola poi, qualche anno fa, gravemente ammalata, ho inciso un messaggio su un telefonino, che, accostato al suo orecchio dalla figlia Serena in un letto d’ospedale, ha fatto affiorare un ultimo sorriso dal suo terminale torpore. 

Fu nello stesso anno di quel primo bacio che ci trasferimmo ad Ariano Irpino, tornando a Frigento nei fine-settimana e naturalmente nei periodi festivi. Anche ad Ariano alleviai con una fidanzatina, compagna di ginnasio, l’iniziale tristezza di quell’esilio conventuale in cui l’esigenza di frequentare gli studi classici mi avevano relegato. Con Maria ci fu qualche dolce incontro, con baci innocenti, nella soffitta della caserma dei carabinieri, con la complicità del figlio del maresciallo. Durante le vacanze estive mi spedì a Frigento una lettera appassionata, che aveva scritto intingendo il pennino nel succo di limone, e che io lessi passandovi sopra il ferro da stiro molto caldo, come lei mi aveva suggerito per mantenere segreta la nostra corrispondenza. E così, man mano che il calore faceva emergere i caratteri dal foglio bianco e, iscurendoli, li rendeva leggibili, provai la forte emozione che può dare la prima lettera d’amore.

Durante la primavera dell’anno che seguì vidi per la prima volta Liliana. Fu un giorno che padre e figlia salirono insieme dalla via Baracca in piazza Municipio per recarsi nella vecchia farmacia, che si trovava all’angolo opposto dello stesso edificio di piazza Municipio dove ora si trova. Lui, un bell’uomo alto con gli occhiali e i baffetti, la teneva per mano e lei, poco più di una bambina, vestita di rosa, con le trecce e due grandi occhi sognanti, gli camminava a fianco girando attorno lo sguardo con quella timidezza che sarebbe stata una delle note dominanti del suo carattere. Fra noi ragazzi, che ormai parlavamo sempre più spesso di amore, si era già sparsa la notizia che era arrivata in paese una ragazza molto carina, figlia del nuovo veterinario e perciò, incuriositi, scendevamo spesso al borgo San Marciano dove si trovava la sua casa per poterla vedere. Ma la visione che ebbi quel giorno fu superiore ad ogni aspettativa, di quelle che s’imprimono nella memoria per essere destinate a restarvi per sempre, quasi come un mondo che prima apparteneva al sogno e poi era divenuto realtà. Visione che fa parte ormai della eternità delle idee che ciascuno di noi si porta intatte dentro l’anima, pur nella consapevolezza che l’esistenza continua a svolgersi e ad annullarsi. Immagine che il pittore Luigi Bellini, cui il mio ricordo va grato, volle fissare sulla tela in quel bellissimo ritratto di bambina che sovrasta di lato il caminetto della casa di Avellino, con gli occhi appena lacrimosi, quasi presaghi del breve destino di vita che le sarebbe toccato.

Conobbi Ovidio sul finire degli anni ’40, in un tardo pomeriggio d’estate in cui Fausto Coppi vinse ancora una volta il Giro d’Italia. Lo vidi che correva per le strade del paese in testa a un gruppo di una decina di ragazzini, gridando “Viva Coppi” e sventolando una piccola bandiera ben confezionata con due pezzi di stoffa, uno bianco e uno celeste, legati a un bastoncino dalla parte del bianco. Subito mi accodai e fu la prima volta che provai entusiasmo per il ciclismo, divenendo anch’io tifoso di Coppi, in una Irpinia appassionata allora di ciclismo quanto di calcio, quasi interamente “fedele” a Bartali e alla Juventus.

Più grandicello di noi, Ovidio partecipava qualche volta ai nostri giochi, come quello del rimbalzo delle monetine contro il muro. Via Vasoli, dalla bella pavimentazione liscia e chiara, dove a quel tempo vi passava un’automobile sì e no due volte al giorno, era una delle pochissime del paese se non l’unica adatta a quel gioco, perché le altre strade erano in terra battuta e qualcuna ricoperta di pietrisco. Si misurava la distanza tra la monetina che un giocatore, battendola contro il muro, aveva fatto rimbalzare sui basoli e quelle che facevano rimbalzare gli altri giocatori. Chi riusciva a far avvicinare la sua monetina a un’altra, in modo che il palmo della sua mano premeva su tutt’e due, catturava quella dell’avversario e aveva anche diritto a un altro tiro. E ne vinceva in aggiunta ancora un’altra dal giocatore perdente se riusciva a coprirle entrambe con pollice e indice. Un gioco semplice, animato da grida di vittoria e talora anche da qualche vivace contestazione. E in questi casi si ricorreva quasi sempre ad Ovidio perché facesse da arbitro e verificasse, con la sua precisione e l’indiscutibile autorità, se le due dita premevano entrambe contro terra le due monete, secondo la regola del gioco, oppure se le sfiorassero soltanto.

Anche il gioco del “naso” era semplice, adatto all’età di noi ragazzini. Ci riunivamo per questo, verso sera, nella bottega di un falegname che si trovava nel terzo vicolo a sinistra che, diramandosi da via Vasoli di fronte al bar, raggiunge la sottostante via Duomo con una maggior pendenza. Peppo, il figlio di fra’ Giulio, quando il padre aveva terminato la sua giornata poco prima del tramonto del sole, ci faceva entrare nella bottega per giocare con le carte napoletane. Lì dentro non c’era la corrente elettrica e perciò dovevamo illuminare con una candela il banchetto, coperto da uno spesso strato di segatura. Tirato il tocco, chi usciva stabiliva la posta, di solito una monetina da una o due lire che si deponeva sul banchetto e formava il “piatto”, e dava due carte per ciascuno. Se erano di colore diverso, valevano “primiera”, e il punto più alto dipendeva dai sette, dai sei o dagli assi che si avevano in mano. Se invece le due carte erano dello stesso colore, quella coppia si chiamava “naso” e batteva la “primiera”. C’era poi la regola del “due”, che da solo era una misera scartina, ma in coppia con un altro due diventava il miglior “naso” e vinceva su tutti, prendendo l’intero piatto a terra. Perciò, per evitare uno scontro alla pari, all’inizio del gioco si toglieva dal mazzo uno dei quattro due. Quando il cartaro imponeva poste più alte, il gioco cominciava ad animarsi anche troppo, e andava avanti senza incidenti per non più di una mezzora, perché poi, complice la semioscurità, in mezzo al gruppetto di sei o sette ragazzi spuntava quasi sempre il baro che nascondeva una buona carta di ricambio sotto la segatura, e qualche altro che, nel parapiglia che seguiva alle contestazioni dell’imbroglio, smorzava con un soffio deciso la candela e arraffava tutte le monetine dal “piatto”. Terminava così, il più delle volte, quella bisca di ragazzini, e si usciva dalla bottega fra chi protestava e chi rideva, ma tutti contenti di aver giocato, perché sapevamo fin dall’inizio che alla fine poco valeva menar vanto della fortuna, e molto di più, invece, l’aver mostrato ben presto la spregiudicata malizia dei grandi e la capacità di scoprire le magagne altrui.

Cresciuti in età, ritrovammo Ovidio ad istruirci nella costruzione di qualche giocattolo più importante, di quelli che i ragazzi di città potevano comprare in negozio. Si cominciò con il monopattino e così impiantammo un piccolo laboratorio in un locale destinato a trappeto, dove ci ospitava Bruno, il più caro fra i compagni di scuola. Lì arrivarono i primi pezzi da montare, una tavola, delle ruote, un manubrio, portati sia da Ovidio che da Peppo di fra’ Giulio. Tutta l’opera veniva creata dall’inventiva e sotto la direzione di Ovidio, che sembrava già un esperto artigiano, attento a tutti gli innesti e le connessioni delle parti mobili che potessero dare solidità e scorrevolezza al monopattino. Eravamo ansiosi di percorrere al più presto la larga piazza Municipio, i Vasoli e la panoramica Via Limiti, che rappresentava per noi un vero autodromo. Ma più di tutto ci preoccupava e nello stesso tempo ci eccitava il pensiero della discesa di via Duomo che portava giù al borgo San Marciano. Notavo, dalle spiegazioni che Ovidio dava a Bruno, che più di noialtri riusciva a seguirlo nelle fasi della costruzione, che proprio i prevedibili rischi di quella discesa, dal fondo stradale in pavé, richiedevano il massimo impegno nella costruzione di quell’oggetto fatto tutto di legno. Sicuramente Ovidio teneva conto della sua fragilità nel progetto che andava man mano attuando, giorno dopo giorno, nel trappeto di Bruno, ma nella fantasia di noi poco più che bambini quel monopattino appariva già come un bolide che avrebbe sbalordito tutti gli altri ragazzi del paese, tra i quali soltanto qualcuno, intorno agli anni ‘50, aveva forse guidato una bicicletta.

Ultimata la costruzione, ci divertimmo abbastanza, scorrazzando per le strade del paese per alcuni mesi. Non era però trascorso più di un anno che, sempre nella mente ingegnosa di Ovidio, sorse un più ambizioso progetto: quello della costruzione di una “macchina” a quattro posti, naturalmente scoperta ma con le portiere, con gli stessi materiali e la stessa tecnica, certamente con maggiori difficoltà. Erano le quattro ruote, la pedaliera ed il freno gli elementi e al tempo stesso i maggiori problemi da risolvere, più difficili di quello del volante, che con due tiranti in ferro riuscimmo subito a far ruotare bene. Sempre nel laboratorio del trappeto, che aveva una sorta di succursale nella vicina falegnameria per seghe, martelli, pialle ed altri attrezzi, non tardò ad arrivare anche questa volta il tavolame necessario. Ovidio e Bruno presero a discutere un giorno delle “samoie”, di cui non riuscii a capire subito l’importanza, fino a quando non scendemmo un pomeriggio da un fabbro ferraio, che aveva la bottega nel borgo San Rocco, nel vicolo che fiancheggia la chiesa e sbocca su via Cedolone. Il bravo artigiano aveva eseguito su incarico di Ovidio quattro anelli di ferro molto doppi, del diametro di circa tre centimetri, e fu lui stesso ad incastrarli con forti colpi di martello nei fori creati a centro delle quattro ruote. Innestò anche due assi di ferro nelle “samoie” delle ruote, dopo averli unti di grasso, e così portammo i due pezzi già belli e montati al nostro laboratorio, che sembravano molto simili agli attrezzi usati dagli atleti nel sollevamento pesi. Nelle successive fasi della lavorazione partecipai più attivamente alla ricerca di una soluzione per il freno. Dopo averne discusso un poco tra noi, si decise di fissare al sedile posteriore, con una grossa vite che ne permetteva la giusta inclinazione e rotazione, una robusta sbarra di legno da azionare in modo che il suo energico sfregamento sulla ruota posteriore destra ne rallentasse i giri fino a bloccarla. Anche la chiusura delle due portiere venne assicurata da due robusti listelli interni.

Superati brillantemente i primi giri di prova su piazza Municipio e per via Limiti, decidemmo di affrontare la discesa, seguiti da frotte di ragazzini che facevano una gran baldoria, con la speranza di poter fare anche loro un giro sulla nostra “fuoriserie”. Il primo tragitto andò bene. Con alla guida Ovidio, a fianco a lui Bruno, io dietro con Nino, altro caro compagno di scuola, uscimmo dal laboratorio direttamente su piazza Municipio e percorsi i Vasoli cominciammo a discendere per Via Duomo. Che divertimento! La nostra vettura passò davanti alla Caserma dei Carabinieri, percorrendo poi due curve a serpentina, quelle dove nel pomeriggio invertiva la marcia la corriera, e dopo un breve tratto pianeggiante imboccò la discesa davanti alla macelleria di Ludovico. Qui la maggiore pendenza della strada le impresse una certa velocità, troppa per la sua struttura di legno che cominciò a scricchiolare in modo che dovette preoccupare Ovidio se ad un certo punto, con voce un po’ concitata, mi ordinò: “frena, frena!”. Io, che stando sul sedile posteriore destro avevo questo ruolo, tirai con energia la barra di legno, ma questa, probabilmente per la conformazione molto irregolare della strada, oltre che strisciare contro la ruota posteriore destra, dovette urtare anche contro qualche cubetto più elevato del pavé, provocando il totale ribaltamento della nostra macchinetta e scaraventandoci tutti fuori dalla parte sinistra, fino ad arrestarsi contro il muro del palazzo di don Loreto Flamma. Nessuno di noi riportò ferite, ma restammo molto dispiaciuti dell’insuccesso, tra le risate di quelli che dovevano essere i nostri fans. Ovidio, benché deluso, prese subito a domandarsi il perché di quell’infortunio e ad osservare tutta la vetturetta, rimasta un po’ sgangherata, con il tipico atteggiamento della sua fronte aggrottata e pensosa. Nessuno di noi riusciva a credere ad un suo errore, avendo visto con quanta precisione aveva misurato tutti i pezzi prima di montarli, usando anche un metro per muratori, di quelli in legno che si snodano a zig-zag.

Il filo della memoria che lega la mia adolescenza ad Ovidio si ferma qui. Poi, per molto tempo, ci rivedemmo raramente. Fu forse in uno dei miei ritorni di fine settimana da Ariano Irpino che, entrando con altri amici nella sua casa di via San Giovanni, lo trovai che dipingeva un bel quadro, posto su un cavalletto. Mi accorsi del tempo che era trascorso, della sua età che ora appariva molto più matura della mia, degli ormai divergenti percorsi delle nostre vite. Non compresi che lui aveva cominciato a fare sul serio con l’arte pittorica, e anche quando venni a sapere che suonava la cornetta in una banda musicale, credetti che fossero degli hobby, senza rendermi perfettamente conto che stavolta, praticando con grande impegno la musica e soprattutto la pittura, egli aveva intravisto la giusta via della ricerca di un lavoro di prestigio, che sarebbe diventato anche la sua fondamentale ragione di vita.

Più di tutto, però, mi sarebbe rimasto impresso il suono di quella sua cornetta, quando, dopo la mezzanotte di ogni giovedì santo, percorrendo tutte le strade del paese e fermandosi a ogni crocevia, emetteva due lunghe e strazianti note, intervallate da un lugubre rullo di tamburo, per ricordare la Madonna che andava in cerca del figlio arrestato. Quando Ovidio lasciò Frigento, questo rito pasquale cessò, e credo che nessuno dopo di lui avrebbe saputo esprimere con tanta suggestione il lamento, il grido disperato, il presagio di morte e di immenso dolore ch’erano raccolti all’unisono in quelle due note, lunghe e tese, nel cuore della notte santa.