domenica 5 giugno 2016

VITA, POESIA E MUSICA NEI MADRIGALI DEL PRINCIPE


Spunti per una insolita chiave di lettura comparativa



Secondo Igor Stravinskij Carlo Gesualdo è “inspiegabilmente statico” e Antonio Vivaldi è stato colui che ha scritto duecento volte lo stesso concerto. Questi giudizi possono trovare una spiegazione nel fatto il grande musicista russo fu il più violento e sfrenato del ventesimo secolo, il trasformista per eccellenza, come si desume dalla sua inaspettata conversione alla dodecafonia, avversata in gioventù, cosicché più di un autore dovette apparirgli immobile e senza mutamento. Tuttavia venne due volte a Gesualdo, segno chiaro di un vero innamoramento per il principe madrigalista. Poi, chiese di essere seppellito a Venezia, città che aveva definito “la Musica stessa”, la quale non potrebbe considerarsi tale senza Antonio Vivaldi. Sappiamo, comunque che la scelta di tale città per la sua sepoltura dipese dal fatto che in quel cimitero era seppellito il maestro che lui adorava, Diaghilev, ed infatti le due lapidi sono collocate l’una accanto all’altra.
Queste sono comunque parole, mentre un cammino “dentro” i madrigali ci offre l’opportunità di svelarne la varietà, forse anche a costo di contraddire lo stesso Stravinskij. E’ un tentativo che si svolge non tanto come un percorso nei temi musicali, quanto piuttosto come uno scrutare fra musica e testo, per scoprire reconditi legami fra arte, vita e poesia. Sarà quindi, soprattutto, un concentrarsi sulle parole intorno alle quali Gesualdo faceva magistralmente soffermare e circolare le voci, ma con l’attenzione rivolta anche alla melodia che le accompagna.
L’apertura della monumentale opera madrigalistica è già fra le più belle:

 Baci soavi e cari,
cibi de la mia vita
ch’or m’involate, or mi rendete il core,
per voi convien ch’impari
come un’alma rapita
non sente il duol di Morte,
e pur si more!

Quanto ha di dolce Amore,
perché sempre vi baci,
o dolcissime rose,
in voi tutto ripose.
Deh, s’io potessi ai vostri dolci baci
La mia vita finire!
Oh, che dolce morire!

I “Baci soavi e cari…” sono il momento più dolce dell’amore, che i versi di Battista Guarini trattano con insuperabile levità, depurando i baci di ogni sensazione fisica e materiandoli di sola spiritualità. Così essi, cibi che soavemente nutrono la vita amorosa, partono dalle labbra, eguagliate alle rose, e giungono diritti al cuore, facendolo per un istante volare dal petto e poi restituendolo, quasi come se il madrigale facesse sentire il pulsare dei cuori e delle anime degli amanti, che nel momento del bacio hanno perduto la loro identità. E l’anima rapita non sente più il dolore della Morte, come se l’amore fosse assurdamente dotato di una potenza superiore.
Qui Gesualdo opera un immediato passaggio, senza voli pindarici, dal pensiero della massima felicità spirituale a quello della massima infelicità, come Leopardi in Amore e Morte, come Freud in Eros e Tanatos. Ma in lui c’è in più l’estasi, la gioia di morire nell’atto d’amore (“Oh, che dolce morire!”), sentimento estraneo sia alla psicanalisi che alla poetica leopardiana, dove si ritrova al più il desiderio di abbandonarsi ad una morte serena.
Chissà se conosceva i madrigali di Carlo Gesualdo il poeta Edgar Lee Masters (1869-1950), autore dell’Antologia di Spoon River, nota come la Divina Commedia americana.
Tutti ormai dormono il sonno eterno sulla collina dov’è il cimitero di Spoon River, ma ognuno ha fatto scrivere sulla lapide  la breve storia della propria vita, con le colpe ed i meriti, con le gioie ed i dolori, con gli amori, gli odi, i ricordi lieti e tristi di una intera esistenza, le emozioni ed i sentimenti intensamente provati. Fra i tanti c’è un uomo di già maturo, Francis Turner, che così ricorda, teneramente, il momento della sua morte:

Eppure giaccio qui
blandito da un segreto che solo Mary conosce:
c’è un giardino di acacie, di catalpe e di pergole addolcite da viti,
là, in quel pomeriggio di giugno/ al fianco di Mary,
mentre la baciavo con l’anima sulle labbra,
 l’anima d’improvviso mi fuggì.”

 Il ricordo della morte blandisce Francis Turner, ossia lo addolcisce, perché il momento del trapasso è stato quello stesso in cui baciava Mary. Lui fin da ragazzo sapeva che la scarlattina gli aveva indebolito il cuore e non lo avrà mai abbandonato il presentimento di dover morire in età ancor giovane, ma gli è dolce ricordare che il suo cuore ha ceduto per sempre in un momento d’amore, quel suo cuore che, sperdendosi sulle labbra dell’amata, “or s’involava or si rendeva”, fino a quando era volato via per sempre, insieme alla sua anima.
L’anima sulle labbra, eccola qui, sorprendentemente, l’alma rapita del primo madrigale gesualdiano, che esprime momenti musicali commossi sia nelle drammatiche ascese di ottava del tenore, sulle parole “e pur si more!”, sia nella patetica melodia che il soprano sviluppa sulle parole “la mia vita finire” e “oh, che dolce morire!”.
Ma non può sfuggire uno strano e chiaramente percettibile contrasto tra “il duol di Morte” della prima strofa, che l’alma rapita non avverte, ma che resta sempre una dura realtà (“e pur si more!”) su cui le voci del basso, del soprano e del tenore, prima alternandosi in una sorta di fuga, poi tutte insieme, inducono ad un attimo di meditazione, con sonorità cupamente tristi, e il “dolce morire” della seconda strofa, tutta improntata ad una poetica e musicale dolcezza, sì che le voci del soprano, del tenore e del basso, con l’analogo susseguirsi e fondersi nella coralità, sembrano toccare qui addirittura l’estatica contemplazione di una morte felice!

Tirsi morir volea
Mirando gli occhi di colei ch’ adora;
quand’ella. Che di lui non meno ardea,
gli disse: Ohimè, ben mio,
deh, non morire ancora,
ché teco bramo di morir anch’io!
Frenò Tirsi il desìo
Ch’ebbe di pur sua vita allor finire
Sentendo morte in non poter morire.

Amore e Morte sono i motivi dominanti anche del decimo madrigale del primo libro, anch’esso guariniano, ma qui vi è un tutt’altro significato, puramente fisico. Qui non vi è alcun sentimento d’amore che faccia spiritualmente soffrire e la parola “morire” indica sempre e soltanto l’acme del piacere sessuale e quindi l’annullarsi, il morire del godimento fisico, fortemente desiderato ma non raggiunto.
Dopo circa mezzo millennio la nota canzone di Mina “L’importante è finire”, su testo di Cristiano Malgioglio, tornando ancora sul tema del sesso senza amore, userà quella parola con lo stesso significato, che in fondo segna la sorte del fuco sotto la dominanza amorosa dell’Ape regina:

Adesso  volta la faccia, questa è l’ultima volta
che lo lascio “morire” e poi e poi…
Ha talento da grande lui nel fare l’amore
sa pigliare il mio cuore e poi e poi e poi… e poi
Ha il volto sconvolto, io gli dico ti amo
ricomincia daccapo è violento il respiro
io non so se restare o rifarlo “morire
L’importante è..è..è..è…è....finire.”

Carlo Gesualdo, per la sua condizione di nobile e la stretta parentela che lo legava ad alti prelati, non poteva assolutamente pubblicare composizioni di contenuto fortemente sensuale nei tempi in cui visse, nei quali era avvenuto persino che un pittore, meritatosi poi a pieno titolo il soprannome di Braghettone, fu incaricato dall’autorità pontificia di “mettere le braghe” ad alcuni dannati del Giudizio Universale della Cappella Sistina, lasciati nudi da Michelangelo. Però, da uomo deciso a realizzare le sue intuizioni artistiche, tanto è vero che oltrepassò senza remore i canoni della tecnica musicale dell’epoca, egli non rinunciò a sviluppare una idea poetica che esercitava su di lui una sorta di malcelato eccitamento, perché nasceva dalle componenti più caratteristiche della sua personalità, molto sensibile al fascino femminile ed osiamo anche dire malata di sesso, com’è rivelato non solo dalle vicende di tutta la sua vita ma anche da qualche altro madrigale (“Deh, coprite il bel seno,/ Che per troppo mirar l’alma vien meno!/ Ahi, non coprite, no, che l’alma avezza/ a viver di dolcezza/ spera, mirando, aìta/ da quel bel sen,/ che le dà morte e vita!”, è il morboso madrigale numero 16 del Libro Quinto). Preferì mascherare abilmente il momento di intensa sessualità fra i due amanti, abbandonatisi ad un gioco d’amore che la letteratura classica ben conosce: “Me voces audire iuvat sua gaudia fassas, utque morer meme sustineamque, roget” (“Mi prega di non affrettarmi…”, proprio come dice la donna a Tirsi) e “Sed neque tu dominam velis maioribus usus/ defice, nec cursus anteeat illa tuos;/ ad metam properate simul: tum plena voluptas,/ cum pariter victi femina virque iacent” (“…andate insieme alla mèta; la voluttà è al suo colmo quando l’uomo e la donna giacciono, parimente vinti”). Sono versi dell’Ars amandi di Ovidio (II, 692, 725-728), la cui lezione Tirsi non mette però a buon frutto, per aver forse rallentato troppo la corsa veloce che aveva intrapreso, tanto che il gioco d’amore rimane incompiuto.
Sentendo morte in non poter morir” esprime la profonda “mortificazione” che Tirsi prova per non aver potuto godere della felicità del “morire” insieme. La privazione del comune tripudio dei sensi, che entrambi gli amanti ardentemente desideravano, è fonte di grande sofferenza, fin quasi a sentirsi morire.
Stupende entrambe le strofe di ciascuno dei due madrigali, ma assurdamente diverse e dalla sensibilità quasi contraddittoria. Dal dolore alla gioia, nel primo; dalla gioia al dolore, nel secondo. Come usava comporli Giovanni Battista Guarini, i cui testi talvolta bipartiti furono i primi a richiamare l’attenzione e la sensibilità del Principe, perché introducevano note inedite di ansia, di malinconia, di pathos, di languore, di morbida sensualità. Provi l’appassionato lettore ad isolarne l’ascolto, se possibile nell’edizione del Quintetto Vocale Italiano. Se non sentirà già le dissonanze puramente musicali che hanno maggiormente suscitato l’interesse degli studiosi, coglierà invece da subito le profonde, patologiche dissonanze dell’anima gesualdiana.
Molto più interessanti. Anzi, semplicemente sconvolgenti!

                                                                                                   GENNARO IANNARONE


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