(Conferenza tenuta il 9.6.2005 presso la Casa della Cultura Victor
Hugo)
Il tema “Carlo Gesualdo” l’affronto per più di un
motivo, ma soprattutto perché da appassionato di musica classica mi ha colpito la
singolarità della sua arte musicale. Devo avvertire tuttavia che non è di facile
ascolto, perché in verità per accettare la musica dei madrigali c’è bisogno di
una discreta educazione e sensibilità musicale.
Nel trattare tale tema, ritengo opportuno soffermarmi
sul contesto storico-sociale e artistico in cui egli visse, offrire cioè una visione
d’assieme con la storia, la filosofia, le scienze e le arti del relativo
periodo. E’ infatti mio convincimento che nell’accostarsi ai letterati e agli artisti
in genere sia necessario, per comprenderli appieno, incastonarli nella loro epoca,
spingendosi a conoscere prima di tutto l’ambiente in cui sono nati, gli eventi
storici e le idee che circolavano nel periodo di esplicazione della loro
creatività. A tal fine procederò a uno sguardo panoramico che va dalla seconda
metà del secolo XVI ai primi decenni del XVII secolo. E’ un periodo che non
corrisponde a un secolo, ma è quello in cui si ha la maggiore evoluzione post-rinascimentale,
quella che conduce dal Rinascimento al Barocco attraverso il fondamentale passaggio
dalla serenità olimpica del Rinascimento alla spiritualità tormentata del Seicento,
che soprattutto nelle forme delle arti figurative si rivela con il passaggio dalla
compostezza degli stili della classicità alla esuberanza dello stile barocco,
assistendosi in particolare a un’apertura verso gli spazi, al canone della
meraviglia come fine principale dell’arte secondo la poetica di Giovan Battista
Marino, al tormento di spirito che dà vita anche al petrarchismo. Tutti aspetti
che, sempre al fine di inquadrare meglio Carlo Gesualdo nei suoi tempi, tenterò
di illustrare offrendo in video alcune opere di Michelangelo, Bernini e Caravaggio.
Va subito detto che il periodo è caratterizzato da
un conflitto di poteri tra gli Stati e la Chiesa. Due grandi rivoluzioni
avvengono nella storia di quel tempo: dall’antropocentrismo del Rinascimento sorge
e si afferma con la Riforma l’ansia di liberazione dall’egemonia del
Cattolicesimo e di libera interpretazione delle Sacre Scritture, cui la Chiesa di
Roma rispose con la Controriforma nel Concilio di Trento. Molti filoni
s’intersecano perciò, in quest’epoca, ma per semplificare si possono individuare
come principali quello laico e quello sacro. C’è una poesia laica, come il
petrarchismo, che celebra l’amore come sofferenza, e una poesia religiosa di
intensa sensibilità, soprattutto in liriche di poetesse (Chiara Matraini,
Gaspara Stampa, Vittorio Colonna ed altre), ma anche di un Michelangelo
Buonarroti.
Anche nella musica di Carlo Gesualdo si
colgono questi due momenti: da un lato i madrigali (musica vocale su testi
laici), dall’altro le Sacrae Cantiones
(musica religiosa). Ma negli stessi libri dei madrigali si registra il
passaggio dalla serenità di tipo arcadico, con qualche madrigale dedicato alle
bellezze della natura (soprattutto nel primo e nel secondo libro, con qualche reinserimento
nel sesto libro), a un certo tormento di spirito, cui inclina già il terzo
libro, per poi passare ai più drammatici e angosciati componimenti del quarto e
quinto libro, per poi chiudere con gli ultimi del sesto libro che cantano la
gioia.
Nella Storia, nella Filosofia e nell’Arte
figurativa si verificano analoghi passaggi, ed è il periodo in cui si vivono
gli effetti del Concilio di Trento, iniziato nel 1545 dal Papa Paolo III e
conclusosi nel 1564. Colpisce soprattutto la figura di Giordano
Bruno, la cui importanza deriva tra l’altro dalla sua intuizione dell’Infinito.
Come si erano mossi nel campo della scienza Copernico e Galilei, così lui, con
il suo “eroico furore”, aveva intuito
la possibilità di una coincidenza tra la Natura e Dio, entrambi infiniti, e fu
questa sua teoria filosofica, della identità tra Entità-Dio ed Entità-Natura,
che mosse contro di lui il Tribunale dell’Inquisizione. La successiva modifica
apportata alla sua speculazione filosofica, tuttavia imperniata sulla visione
di Dio come “Natura insita omnibus”, continuò
ad allarmare la Chiesa, che nel timore di un indebolimento della sua funzione
intermediaria tra Dio e il Mondo, finì per condannarlo al rogo. Di Giordano
Bruno va tuttavia apprezzata la grandezza, soprattutto nel momento in cui,
rifiutando di abiurare, affermò di non poter essere costretto a pensare
diversamente da quello che gli dettava la ragione, con ciò esaltando
l’indipendenza del pensiero, grande novità che cominciò ad affiorare in quel
tempo sulla scia delle tesi di Lutero di libera interpretazione delle sacre
scritture. Il suo “eroico furore” di
voler penetrare ancora nel problema dell’Infinito è molto importante perché è
un sentimento del Seicento, che sconvolge l’uomo, e ha una grande somiglianza
con i tempi attuali. In quei tempi anche le teorie di Copernico e di Galileo Galilei
avevano stravolto le certezze medievali. Il Medioevo crollò proprio intorno a
quegli anni. Verso la fine del secolo (1596) nacque Renato Cartesio, matematico
e filosofo, che sostituì al concetto di “Verità” (opinabile), quello della
“Certezza” (indiscutibile: “Penso, dunque
sono”).
Come questi filosofi e scienziati, Carlo Gesualdo è
stato un personaggio inquietante nel campo della musica. Da non trascurare la
notazione che, pur potendo vivere da nobile nelle vuote agiatezze, si è
dedicato alla sua arte senza risparmiarsi, senza darsi sosta, passando dalla
musica amorosa a quella sacra con pari genialità, e con una vena costante di
profonda malinconia, in tempi resi cupi dal clima instaurato dalla
Controriforma. Quindi Carlo Gesualdo si incastona bene nel suo secolo, proprio
perché anche lui canta un sentimento complesso e infinito con un connubio, frequentissimo
nei suoi madrigali, tra amore e morte. Quando si vuol dire che Gesualdo non è
originale in quanto avrebbe rimaneggiato le impostazioni musicali di altri autori
dell’epoca, come il siciliano Sigismondo D’India o il napoletano Pietro Vinci,
si guarda con l’occhio freddo della musicologia. Non è metodo corretto,
nell’ascoltare Gesualdo, quello di voler accertare se ha creato o meno delle
dissonanze o degli accordi arditi o il cromatismo (che sarebbe l’abuso dei
diesis e dei bemolle, per esprimere una emozione in salita o in discesa). Gesualdo
non è grande per le dissonanze delle note scritte sui pentagrammi, Gesualdo è
grande per le dissonanze del suo spirito, della sua anima. Sono quelle le
dissonanze sconvolgenti che non hanno gli altri madrigalisti dell’epoca, anche
per non avere in sé motivi ispiratori di tale forza drammatica come li aveva,
per vita vissuta, il principe. Lui vi trasporta da pensieri di gioia e di
piacere e di abbandono estatico al pensiero della morte, che costantemente ritorna.
Questo ricadere sulla morte è diverso da quello di Leopardi, perché mentre
Leopardi si abbandona alla morte, Gesualdo no. Qualche lettura autobiografica
di qualche madrigale lo farà capire. Prendiamo ad esempio il madrigale n. 15
del Libro III°. Qualcuno (Francesco Degrada) ha commentato, tra l’altro che fra
“i temi essenziali” della poetica gesualdiana
vi sarebbe “la morte come unica
liberazione”. Ma non si può condividere che Gesualdo invochi la morte come
unica liberazione, perché Gesualdo vuole soffrire ma vuole vivere, come afferma
chiaramente nel madrigale n. 2 del Libro IV°, di sua sicura fattura anche nel
testo, dove, allontanando l’idea del suicidio, esprime quella di voler vivere
per cantare il suo eterno dolore. Voler vivere per poter comporre e voler comporre
per poter vivere.
Queste dissonanze grandiose e sconvolgenti che
allignano nelle profondità del suo spirito tormentato rendono Gesualdo unico rispetto
a tutti gli altri autori dell’epoca, i quali non subirono uno sconvolgimento
esistenziale come Gesualdo, né si può assolutamente condividere l’opinione del
pur grande Gianfrancesco Malipiero che la creazione artistica sia indipendente
dalla vita. Insomma, Gesualdo tanto normale non era, questa è la verità. Lui è
il classico genio sregolato, che si esprime, per giunta, in un periodo anche
stravagante, come il Barocco. E Gesualdo è barocco anche nel momento
dell’assassinio, nella strage che compì con una innegabile crudeltà su Maria, volendo
mostrare a tutti cosa ha scoperto nella sua camera da letto e come ha vendicato
l’onore suo e della sua nobile casata.
Allora, dicevo, Gesualdo vuole anche stupire, il che
gli proviene dal sangue spagnolesco che gli scorreva nelle vene, e perciò, tra
l’altro, non soddisfatto del liuto dell’epoca barocca, inventò l’arciliuto, dalla
lunghissima tastiera, e fece costruire nel suo castello di Gesualdo un cembalo
di undici metri, e la prima stamperia musicale d’Europa, nella famosa stanza
del cembalo, dove poi si sarebbe ritirato quando seppe della morte del figlio Emanuele,
ultimo legame con Maria, lasciandosi morire.
Quindi quest’uomo, nel momento stesso in cui canta
un amore tormentato, si crogiola nel dolore, ricade sul pensiero continuo di
morte anche quando sta cantando di un bacio, è lo stesso uomo che la pensa in
grande in materia di strumenti musicali, perché doveva creare il cromatismo, il
doppio semitono ecc.. Come si vede, tormento e senso del meraviglioso convivono
nella sua anima barocca.
Carlo Gesualdo ha mostrato anche un aspetto anti-letterario,
in quanto di molti madrigali i testi se li scrisse lui. Dapprincipio musicò i
testi di Torquato Tasso e di Giovanni Battista Guarini. Più giovane di Torquato
Tasso ma non amico, rifiutò buona parte dei quarantuno testi che Tasso gli aveva
inviato e ne musicò soltanto undici. E ciò non perché Tasso aveva dedicato una
poesia agli amanti uccisi da Carlo, imitando Catullo con il verso iniziale “Piangete, o grazie, piangete o amori…”, ma
perché, essendo troppo lunghi rispetto al suo progetto musicale, preferì attingere
ad altri testi più brevi, e, sia pure in minima parte, se li scrisse lui, o se
li copiò parafrasando altri testi, come quello all’epoca molto celebre, “Sento che nel partir”, scritto da
Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto e nonno di Maria, già musicato in chiave
ottimistica da Cipriano De Rore, madrigalista di notevole valore, maestro a
Ferrara del grande Girolamo Frescobaldi, o manipolando (è il caso del madrigale
n. 11 del Libro I° “Mentre mia stella
miri…”) persino una delle più belle poesie di Platone, ch’era già passata,
però, nelle mani di Torquato, che l’aveva tradotta e parafrasata (a suo modo,
tarpandone il nucleo poetico, certamente più bello, di Platone) e dedicata a
Tarquinia Molza, nobildonna di alta intellettualità, che faceva parte del
Concerto delle Dame di Ferrara, di là espulsa nel 1589 a seguito di una burrascosa
storia d’amore con il madrigalista Jacques de Werth, costretto anche lui a
lasciare la Corte degli Estensi. Questo atteggiamento antiletterario è un
particolare interessante della sua personalità e legittima a pieno titolo l’attribuzione
a lui della qualifica di cantautore. Vi è da precisare che si tratta di
composizioni di pochissimi versi, quattro o cinque, con i quali lui aveva la
possibilità di far soffermare o circolare le voci dei cinque cantori, secondo
il suo inconfondibile stile che esprimeva emozioni veramente drammatiche,
dolorose (si pensi a “O dolorosa gioia”, “Ahi, disperata vita” ed altri) con quella tristezza che si
ravvisa nei volti del pittore spagnolo El Greco, da taluno puntualmente
richiamati e avvicinati alla di lui effige, particolarmente a quella della Pala
del Perdono, dipinta nel 1609 da Giovanni Balducci nel Convento dei Cappuccini
di Gesualdo.
Come accennato, presento delle immagini di un
gigante delle arti figurative che più di ogni altro dimostra nello stesso
artista il trapasso che si verifica nella seconda metà del 1500, dal
Rinascimento sereno al Barocco tormentato: Michelangelo Buonarroti.
Pensate alla “Creazione dell’uomo” nella Cappella
Sistina. E’ indubbiamente un momento di gioia nel mondo, come la nascita di un
bambino. Poi il Mosè, che rappresenta la Legge, quando l’umanità acquisisce la
certezza di una regola, fino all’arrivo di Gesù che perfezionò e in parte
corresse le Tavole di Mosè, con la più travagliosa dottrina dell’amore. Il
Davide porta già la fionda, che non rappresenta la Legge statica, ma è simbolo
di forza e di lotta. Le Pietà di Michelangelo sono tre ed anche in esse si
rivela un mutamento psicologico nella visione dello scultore che le ha create. Bellissima
(e serena) quella di San Pietro, diversa la Pietà di Nicodemo, che cala il
corpo di Gesù dalla croce, infine la Pietà Rondanini. Nella stessa Cappella Sistina il Gesù del
Giudizio Universale è tanto diverso dal Dio Creatore della prima immagine,
poiché v’è la minaccia del giudizio con la grande mano del Cristo
minacciosamente sollevata, e con in basso le figure dei dannati, tirati giù dai
diavoli nel fuoco eterno. Nelle Cappelle
medicee troviamo il primo Michelangelo per così dire laico, e forse il più
grande Michelangelo. Il Giorno ha un viso non si sa dire se informe o deforme, ma
non è affatto sereno, perché il Giorno è il periodo della giornata in cui si
vivono le difficoltà della vita. Molto più serena la Notte, di una bellezza
tranquilla. Il Crepuscolo è anziano e barbuto ma non è brutto come il Giorno, e
l’Aurora è forse ancora più bella della Notte, certamente più sensuale. Le Cappelle
Medicee già segnano un momento triste di Michelangelo, che era molto sensibile
e introverso, com’è provato anche da una sua lirica. I prigioni, appaiono
tormentati e appartengono anch’essi a un momento dell’arte michelangiolesca che
non esprime più serenità e sacralità, ma piuttosto ansia di liberazione nell’atto
in cui tentano di uscire dalla pietra. Ad una tristissima sacralità si torna
invece con la Pietà Rondanini. Gesù e la Madonna sono così stilizzati che
anticipano la scultura moderna. Madre e figlio appaiono fusi insieme, nel marmo
come nel dolore. Si racconta che gli ultimi colpi di scalpello Michelangelo li
avrebbe dati facendosi reggere in piedi da altri. Aveva ottantanove anni e
temeva la morte. Si può affermare che abbia eseguito e completato quest’opera
come se avesse voluto operare una fusione tra l’essere suo che finiva e la
creazione di un’immagine di morte come quella della Rondanini, quasi come se
avesse voluto scolpire la sua morte. Non è un esempio unico nell’arte, se si
pensa al Mozart del Requiem.
Come preannunciato, l’architetto della Basilica di
San Pietro, lo scultore del Mosè, del Davide, delle Pietà, il pittore della
Cappella Sistina, del Dio Creatore, della Sacra Famiglia del Tondo Doni, non
aveva una salda fede, e ciò farebbe vacillare la teorica dell’inscindibilità
della verità dall’arte, svincolandosi la creazione artistica dalla triade
“Vero-Bene-Bello” del pur grande poeta-filosofo Tommaso Campanella. Accanto al
filone laico, vicino al petrarchismo, dei madrigali, il filone sacro è quello cui
appartiene questa lirica di Michelangelo.
“Vorrei voler,
Signor, quel ch’io non voglio:
tra ‘l foco e ‘l cor di ghiaccia un vel s’asconde,
che il foco ammorza, onde non corrisponde
la penna all’opre, e fa bugiardo il foglio.
I’ t’amo con la lingua, e poi mi doglio
ch’amor non giunge al cor” né so ben onde
apra l’uscio alla grazia che s’infonde
nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio...”, perché è l’orgoglio che, come Prometeo, ci fa
contrapporre alla Divinità, ma è del resto un sentimento dell’uomo che ci fa contrapporre
a tutti, e perciò è “spietato”. “Squarcia ‘l vel tu, Signor, rompi quel muro
che con la suo durezza ne ritarda
il sol della tuo luce, al mondo
spenta!”.
Quindi Michelangelo sente che la luce cristiana
della Fede è spenta in quel mondo, o va spegnendosi. Si pensi allo scisma
luterano.
“Manda ‘l
preditto lume a noi venturo,
alla tuo bella sposa, acciò ch’io arda
il cor senz’alcun dubbio e te sol senta”
Anche Carlo Gesualdo s’incastona in questo momento
in cui anche la fede vacilla, ma non sappiamo se Carlo Gesualdo sia stato un
credente. Si consideri, tuttavia, che lui non ha mai cantato il Natale, e
neppure la Resurrezione, e si è fermato ai Responsori del Sabato Santo, la
cosiddetta “Lesson des tenèbres”.
Verosimile, quindi, che anche lui sia stato dubbioso in materia religiosa.
Chi dice che Gesualdo era un uomo inidoneo al
coniugio si sbaglia, se vuol riferirsi all’aspetto sessuale della vita
coniugale. Essere inidoneo a una regolare vita coniugale è tutt’altra cosa, non
significa essere insensibile al fascino femminile e che lui, anzi, lo fosse anche
in grado elevato è provato, tra l’altro, dalla lunga relazione amorosa che ebbe
con Aurelia D’Errico di Montemarano durante il forzato soggiorno a Gesualdo e dopo.
Gesualdo era un uomo pieno di fascino, come ce lo
presenta Giovanni Iudica nel più bel libro che sia stato scritto sulla sua vita
(“Il Principe dei musici”, edizione
Sellerio). Maria capì di aver posto al suo fianco un genio, anche sregolato.
Lui ha sposato Maria perché amava questa bellissima cugina, figlia della sorella
del padre. Il secondo fu un matrimonio di convenienza, che contrasse con
Eleonora D’Este anche per cercare nuove esperienze artistiche e per
allontanarsi dall’ambiente napoletano in cui, a causa di quel delitto, si era certamente
svalutato come nobile. E Maria si è giovata di quest’uomo a fianco, l’ha amato,
che poi l’abbia tradito è fonte di altre pulsioni, in sé comprensibili. Le
attrazioni di lei per Gesualdo e il suo tradimento sono perfettamente compatibili,
questo bisogna capire, se non si capisce questo, allora non si comprende
l’animo di un artista, e cascherebbe ogni tentativo di rivalutare un uomo che
ha dato tanto alla Storia della Musica. Sono arzigogoli poi quelli dei giuristi
se quello sia stato o meno un delitto di onore. Fu certamente un delitto
passionale perché il fondo di quella vicenda è la passione, non ha ucciso per
denaro, per motivi abietti, o per altri scopi illeciti. Gesualdo ha ucciso per
amore. Tipo introverso, strano, colpito da questa caratteristica della sua
strana genialità, non seppe frenare i suoi impulsi. Gesualdo era dunque un
passionale e un malinconico. Ma non era affetto da melancolia, per amor di Dio,
che è una malattia di competenza psichiatrica. La malinconia è uno stato di profonda
meditazione su se stessi, uno stato d’animo in cui l’uomo elabora le proprie
idee, sviluppa dal suo pathos un’opera d’arte, una poesia, un pensiero, una
musica.
L’immagine di Maria è probabilmente quella che si
può vedere nella Cappella Carafa a Napoli, appena si entra in San Domenico
Maggiore, subito a destra, vestita di verde con in mano un libricino di colore
rosso, forse un messale. Colpisce una vaga somiglianza con il volto della
Gioconda. Si è scritto che la zia di Maria, Costanza d’Avalos, è stata quasi
certamente la modella della Gioconda di Leonardo da Vinci. Si può azzardare a
dire che, come femmina, potrebbe aver patrizzato e somigliare quindi al padre,
fratello di Costanza d’Avalos. La somiglianza si nota nell’ampiezza e nella
rotondità della fronte, che richiama il volto di Monna Lisa.
Questo è il rapporto di Carlo Gesualdo con Maria, illustrato
nei punti essenziali del loro essere marito e moglie. Il rapporto con Eleonora D’Este
fu del tutto diverso. Già la preparazione al matrimonio è strana. Fissato per il
21 febbraio 1594, lui arriva a Ferrara il 17 febbraio, appena quattro giorni
prima! A parte i cosiddetti colpi di fulmine, è inconcepibile una conoscenza
prematrimoniale di quattro giorni. Dopo qualche anno comincia ad allontanarsi
da Ferrara e va girando per Venezia e per Firenze, fino al ritorno nel
Meridione.
Comunque, non può pensarsi che a Carlo Gesualdo sia
andata stretta Napoli come musicista. A Napoli c’era all’epoca una grande
cultura musicale. Napoli aveva compositori fra i più famosi in Europa, e
avrebbe avuto, in forza della sua tradizione, autori grandissimi, come Giovanbattista
Pergolesi, gli Scarlatti, i Cimarosa e tanti altri. Pomponio Nenna, napoletano,
frequentò a lungo il castello di Gesualdo. Napoli rivaleggiava sia con Venezia
che con Firenze, perché, come a Napoli, a Venezia veniva valorizzata la
coralità. Notissimo Giovanni Gabrieli, organista a San Marco, che fu l’unica
persona che Gesualdo chiese di poter incontrare, ma non gli fu possibile,
mentre pretese invano, facendo pesare il suo titolo di principe, che il Doge
gli facesse visita, altra sua stramberia. Dopo il non lungo soggiorno a Ferrara,
si recò a Venezia e poi si spostò a Firenze e frequentò la Camerata Bardi, dove,
allontanandosi dalla coralità tipica dei Canti Gregoriani e valorizzando la
voce singola, furono gettati i primi semi dell’opera lirica, realizzata intorno
al 1680, proprio a Firenze. Ed ancor oggi il Quintetto vocale La Florissant di
Firenze valorizza in modo estremo, più di quanto abbia voluto a nostro modesto
parere lo stesso Carlo Gesualdo, l’autonomia delle voci, per cui sembra che
cantino ognuno per conto proprio, rispetto, invece, al metodo più equilibrato del
Quintetto Rivo Alto, diretto da Angelo Ephrikian e composto in gran parte da
cantanti italiani. Alle tendenze alla monodia Gesualdo prestò un orecchio
attento, ed è perfettamente spiegabile, se è vero che una delle caratteristiche
originali e salienti della musica gesualdiana è l’isolamento e la circolarità
delle cinque voci nei suoi madrigali. Né bisogna dimenticare che lui era un
ottimo cantore e spesso s’inseriva nei quintetti vocali per dar lezioni di come
andavano cantati i passaggi più difficili. Ciò non toglie che lui decise di
sposare Eleonora e di trasferirsi a Ferrara anche perché interessato alla notevole
cultura musicale di quella città, pur se il motivo principale fu di ordine
dinastico ed economico. Eleonora aveva, com’è intuibile, grandi proprietà, e
unire il patrimonio suo a quello dei Gesualdo costituiva soprattutto una difesa
contro la crisi del Feudalesimo. A cento anni dalla scoperta dell’America, cominciò
a farsi sentire la crisi del Feudalesimo perché prevalsero, con i viaggi, gli
scambi commerciali. I terreni calarono di valore e Gesualdo scelse di acquistarli
all’asta, anche in Puglia, facendosi presumibilmente informare sulle aste
pubbliche dagli alti prelati suoi parenti, come lo zio Carlo Borromeo o l’altro
zio Federico Borromeo, che è quello dei Promessi Sposi. Attualmente gli
informatori provengono dalla camorra, che fa sapere se c’è qualcosa di
conveniente da comprare nelle esecuzioni immobiliari presso i Tribunali. Gli
stessi parenti ecclesiastici gli combinarono i matrimoni. Uno con la cugina, che portò in dote 80.000
ducati, e l’altro con Eleonora d’Este per unire ricchezze e soprattutto per
dare un erede ad Alfonso D’Este. Nacque Alfonsino, ma morì che aveva quattro o
cinque anni, pare a Venosa per una febbre.
Gesualdo non gradì molto il soggiorno ferrarese, anche
se colà si affidò con grande costanza e interesse alle lezioni del madrigalista
Luzzasco Luzzaschi, di cui imitò lo stile. Ferrara era un centro avanzato di
studi musicali, tanto che aveva il Concerto delle Dame, unico in Europa. Inoltre,
Gesualdo vi fece stampare il primo e il secondo libro dei madrigali, probabilmente
composti in buona parte nel castello di Gesualdo, ed anche il terzo e il quarto
libro. Nel 1595, lui e il plenipotenziario di Casa d’Este Alfonso Fontanelli,
amante della musica, scesero al Sud e passarono per Calitri dove aveva un grande
allevamento di cavalli di razza pregiata, noti in Europa, raggiungendo infine
il feudo di Gesualdo. Quello di Gesualdo era veramente il castello più amato,
tanto è vero che vi fece impiantare la detta Stamperia, fece costruire il
grande Cembalo, pubblicò nel 1611 il V° il VI° libro dei Madrigali e i
Responsori, e alla fine vi morì l’8 settembre del 1613.
Nel colonnato di Piazza San Pietro abbiamo, con
Bernini, il senso e quasi il culto del meraviglioso. Ma in Bernini c’è anche il
tormento dell’amore, che oscilla tra il sessuale e lo spirituale, come sarà
sempre negli esseri umani. Nella scultura della santa Ludovica Albertoni è
espresso il senso della morte. Santa Teresa d’Avila, che nel suo “Il Castello
interiore” risale da contenuti passionali e tormentati ad una estatica spiritualità,
è oggetto di una scultura di Bernini molto famosa: l’Estasi di Santa Teresa
d’Avila. L’estasi trova espressione anche in Gesualdo, come punto di
conciliazione tra i sentimenti dell’amore e quello della morte. In Gesualdo può
ravvisarsi un triangolo inverso a quello di Leopardi. In “Amore e morte” di
Leopardi c’è infine l’abbandono alla morte, mentre in Gesualdo il connubio
Amore-Morte non si risolve nell’abbandono, non c’è un cupio dissolvi, ma l’estasi che si prova nell’intensità del
sentimento e dell’atto di amare. In lui c’è quindi un triangolo positivo, che
si innalza verso un alto momento di spiritualità. Esempio evidentissimo è il
madrigale n. 2 del Libro IV:
“Talor sano desio vuol che morendo ancida
ogni mia doglia.
Ma io di pianger vago,
o fiera voglia, amo la vita solo perché
mio pianto eterni eterno duolo”
Qui si comprende che il principe si è votato alla
espiazione della colpa di aver ucciso la donna da lui amata e questa espiazione
vuole compierla cantando il suo dolore (Leopardi: “…piansi la bella giovinezza”).
Si consideri che in questo secolo barocco c’è un
grande individualismo, ognuno esprime una pensiero diverso di fronte allo
stesso fenomeno. E così si verifica nei madrigali. A volte, mentre uno del coro
di cinque voci sta cantando, per esempio, languire,
un altro sta cantando un’altra parola che ha un significato del tutto diverso,
isolato rispetto al contesto. Ogni voce canta per sé, esprime, semmai, un
sentimento suo nello stesso madrigale. Vi sono incroci pazzeschi di parole che
non sono all’unisono sul sentimento che in quel momento esprime la musica, e
talora fino al punto che uno dei cantori sta ripetendo il verso che viene prima
e un altro il verso che viene dopo. E semmai capita di ascoltare, in contemporanea,
un languire e un gioire. Chi conosce la musica di Gesualdo avrà notato questa
particolarità, che è soprattutto un isolamento dei sentimenti. Caravaggio isola
le figure, come quella del boia, della vecchia che pensa, della donna che gira
il viso perché non vuol guardare la testa mozzata di San Giovanni Battista nel
piatto, ed ugualmente fa nel dipinto dei suonatori di liuto. E come Gesualdo
isolava le voci, il grande Caravaggio ha isolato le figure in modo che ciascuna
vive il suo dramma esistenziale del momento. In questo stesso secolo, mentre
Machiavelli aveva in precedenza dettato i principi universali sul potere e sulla
Storia, Guicciardini invece raccomanda a ciascuno di guardare al “suo particulare” poiché non vi sono
regole generali e sicure a cui riferirsi. Ognuno parla a suo modo, uno parla da
filosofo, un altro da storico, un altro da artista dei…sentimenti messi in
musica... però vi sono delle chiare affinità nella visione individualista della
vita. Fra tanti conflitti, in quel secolo ognuno guarda al suo particulare, non ci sono più ideologie
che uniscono, perciò sembra ci sia somiglianza con le nostre situazioni sociali
e conseguenti atteggiamenti spirituali e politici. Governo degli Uomini e non
più Governo delle Idee. Le ideologie uniscono e invece nel Seicento le
ideologie si sgretolarono, ognuno si sentì isolato ed anche i pittori e ogni
altro artista si espresse liberamente.
Apollo e Dafne è tra le più belle sculture di
Lorenzo Bernini. E’ un desiderio d’amore, quello di Apollo, più composto, ma
sempre dei sensi. Nel Satiro e Ninfa siamo…alla pedofilia. La terza figura è
invece quella che rappresenta l’amore spirituale, l’estasi di Santa Teresa
d’Avila. Si potrebbero ordinare come segue le immagini: prima il Satiro e la
ninfa (sessualità pura), poi Apollo e Dafne (sensualità amorosa) e infine Santa
Teresa d’Avila (amore spirituale puro).
Tratteggiando l’argomento che riguarda il duplice
omicidio, si condividerà senz’altro che a quel tempo il Viceré spagnolo con un
frego di penna annullò il processo, mentre se Gesualdo non fosse stato un nobile
sarebbe seguito il processo presso il Tribunale della Vicaria, allocato dov’è a
Napoli l’attuale Castelcapuano. Dopo la Rivoluzione Francese e dopo Montesquieu,
se sotto ai giudici capitasse un altro Carlo Gesualdo, dovrebbe sottoporsi al
processo, quale che ne sia l’esito.
Intanto, nel processo rinnovato a Gesualdo il 12
settembre del 2004, i giudici hanno ritenuto la premeditazione ed hanno escluso
il delitto d’onore per incompatibilità con la stessa. Ma il delitto passionale
resta, in sé stesso comprensibile anche se non giustificabile. E’ stato bello
il finale, con l’invito dell’avvocato Siniscalchi ad intestare una stanza del
castello in via di restaurazione a Maria d’Avalos...
Si potrebbe intestare così: “A Maria e Fabrizio, morti per amore”. E forse Carlo Gesualdo,
alzando il capo dalla tomba, non se ne adonterebbe, se è vero che nei madrigali
ha espresso un tormentato e sincero pentimento.
GENNARO IANNARONE
