venerdì 24 giugno 2016

“Carlo Gesualdo, l’Uomo, i suoi Tempi e le sue Passioni”


(Conferenza tenuta il 9.6.2005 presso la Casa della Cultura Victor Hugo)





Il tema “Carlo Gesualdo” l’affronto per più di un motivo, ma soprattutto perché da appassionato di musica classica mi ha colpito la singolarità della sua arte musicale. Devo avvertire tuttavia che non è di facile ascolto, perché in verità per accettare la musica dei madrigali c’è bisogno di una discreta educazione e sensibilità musicale.
Nel trattare tale tema, ritengo opportuno soffermarmi sul contesto storico-sociale e artistico in cui egli visse, offrire cioè una visione d’assieme con la storia, la filosofia, le scienze e le arti del relativo periodo. E’ infatti mio convincimento che nell’accostarsi ai letterati e agli artisti in genere sia necessario, per comprenderli appieno, incastonarli nella loro epoca, spingendosi a conoscere prima di tutto l’ambiente in cui sono nati, gli eventi storici e le idee che circolavano nel periodo di esplicazione della loro creatività. A tal fine procederò a uno sguardo panoramico che va dalla seconda metà del secolo XVI ai primi decenni del XVII secolo. E’ un periodo che non corrisponde a un secolo, ma è quello in cui si ha la maggiore evoluzione post-rinascimentale, quella che conduce dal Rinascimento al Barocco attraverso il fondamentale passaggio dalla serenità olimpica del Rinascimento alla spiritualità tormentata del Seicento, che soprattutto nelle forme delle arti figurative si rivela con il passaggio dalla compostezza degli stili della classicità alla esuberanza dello stile barocco, assistendosi in particolare a un’apertura verso gli spazi, al canone della meraviglia come fine principale dell’arte secondo la poetica di Giovan Battista Marino, al tormento di spirito che dà vita anche al petrarchismo. Tutti aspetti che, sempre al fine di inquadrare meglio Carlo Gesualdo nei suoi tempi, tenterò di illustrare offrendo in video alcune opere di Michelangelo, Bernini e Caravaggio.
Va subito detto che il periodo è caratterizzato da un conflitto di poteri tra gli Stati e la Chiesa. Due grandi rivoluzioni avvengono nella storia di quel tempo: dall’antropocentrismo del Rinascimento sorge e si afferma con la Riforma l’ansia di liberazione dall’egemonia del Cattolicesimo e di libera interpretazione delle Sacre Scritture, cui la Chiesa di Roma rispose con la Controriforma nel Concilio di Trento. Molti filoni s’intersecano perciò, in quest’epoca, ma per semplificare si possono individuare come principali quello laico e quello sacro. C’è una poesia laica, come il petrarchismo, che celebra l’amore come sofferenza, e una poesia religiosa di intensa sensibilità, soprattutto in liriche di poetesse (Chiara Matraini, Gaspara Stampa, Vittorio Colonna ed altre), ma anche di un Michelangelo Buonarroti.
Anche nella musica di Carlo Gesualdo si colgono questi due momenti: da un lato i madrigali (musica vocale su testi laici), dall’altro le Sacrae Cantiones (musica religiosa). Ma negli stessi libri dei madrigali si registra il passaggio dalla serenità di tipo arcadico, con qualche madrigale dedicato alle bellezze della natura (soprattutto nel primo e nel secondo libro, con qualche reinserimento nel sesto libro), a un certo tormento di spirito, cui inclina già il terzo libro, per poi passare ai più drammatici e angosciati componimenti del quarto e quinto libro, per poi chiudere con gli ultimi del sesto libro che cantano la gioia.
Nella Storia, nella Filosofia e nell’Arte figurativa si verificano analoghi passaggi, ed è il periodo in cui si vivono gli effetti del Concilio di Trento, iniziato nel 1545 dal Papa Paolo III e conclusosi nel 1564.  Colpisce soprattutto la figura di Giordano Bruno, la cui importanza deriva tra l’altro dalla sua intuizione dell’Infinito. Come si erano mossi nel campo della scienza Copernico e Galilei, così lui, con il suo “eroico furore”, aveva intuito la possibilità di una coincidenza tra la Natura e Dio, entrambi infiniti, e fu questa sua teoria filosofica, della identità tra Entità-Dio ed Entità-Natura, che mosse contro di lui il Tribunale dell’Inquisizione. La successiva modifica apportata alla sua speculazione filosofica, tuttavia imperniata sulla visione di Dio come “Natura insita omnibus”, continuò ad allarmare la Chiesa, che nel timore di un indebolimento della sua funzione intermediaria tra Dio e il Mondo, finì per condannarlo al rogo. Di Giordano Bruno va tuttavia apprezzata la grandezza, soprattutto nel momento in cui, rifiutando di abiurare, affermò di non poter essere costretto a pensare diversamente da quello che gli dettava la ragione, con ciò esaltando l’indipendenza del pensiero, grande novità che cominciò ad affiorare in quel tempo sulla scia delle tesi di Lutero di libera interpretazione delle sacre scritture. Il suo “eroico furore” di voler penetrare ancora nel problema dell’Infinito è molto importante perché è un sentimento del Seicento, che sconvolge l’uomo, e ha una grande somiglianza con i tempi attuali. In quei tempi anche le teorie di Copernico e di Galileo Galilei avevano stravolto le certezze medievali. Il Medioevo crollò proprio intorno a quegli anni. Verso la fine del secolo (1596) nacque Renato Cartesio, matematico e filosofo, che sostituì al concetto di “Verità” (opinabile), quello della “Certezza” (indiscutibile: “Penso, dunque sono”).
Come questi filosofi e scienziati, Carlo Gesualdo è stato un personaggio inquietante nel campo della musica. Da non trascurare la notazione che, pur potendo vivere da nobile nelle vuote agiatezze, si è dedicato alla sua arte senza risparmiarsi, senza darsi sosta, passando dalla musica amorosa a quella sacra con pari genialità, e con una vena costante di profonda malinconia, in tempi resi cupi dal clima instaurato dalla Controriforma. Quindi Carlo Gesualdo si incastona bene nel suo secolo, proprio perché anche lui canta un sentimento complesso e infinito con un connubio, frequentissimo nei suoi madrigali, tra amore e morte. Quando si vuol dire che Gesualdo non è originale in quanto avrebbe rimaneggiato le impostazioni musicali di altri autori dell’epoca, come il siciliano Sigismondo D’India o il napoletano Pietro Vinci, si guarda con l’occhio freddo della musicologia. Non è metodo corretto, nell’ascoltare Gesualdo, quello di voler accertare se ha creato o meno delle dissonanze o degli accordi arditi o il cromatismo (che sarebbe l’abuso dei diesis e dei bemolle, per esprimere una emozione in salita o in discesa). Gesualdo non è grande per le dissonanze delle note scritte sui pentagrammi, Gesualdo è grande per le dissonanze del suo spirito, della sua anima. Sono quelle le dissonanze sconvolgenti che non hanno gli altri madrigalisti dell’epoca, anche per non avere in sé motivi ispiratori di tale forza drammatica come li aveva, per vita vissuta, il principe. Lui vi trasporta da pensieri di gioia e di piacere e di abbandono estatico al pensiero della morte, che costantemente ritorna. Questo ricadere sulla morte è diverso da quello di Leopardi, perché mentre Leopardi si abbandona alla morte, Gesualdo no. Qualche lettura autobiografica di qualche madrigale lo farà capire. Prendiamo ad esempio il madrigale n. 15 del Libro III°. Qualcuno (Francesco Degrada) ha commentato, tra l’altro che fra “i temi essenziali” della poetica gesualdiana vi sarebbe “la morte come unica liberazione”. Ma non si può condividere che Gesualdo invochi la morte come unica liberazione, perché Gesualdo vuole soffrire ma vuole vivere, come afferma chiaramente nel madrigale n. 2 del Libro IV°, di sua sicura fattura anche nel testo, dove, allontanando l’idea del suicidio, esprime quella di voler vivere per cantare il suo eterno dolore. Voler vivere per poter comporre e voler comporre per poter vivere.
Queste dissonanze grandiose e sconvolgenti che allignano nelle profondità del suo spirito tormentato rendono Gesualdo unico rispetto a tutti gli altri autori dell’epoca, i quali non subirono uno sconvolgimento esistenziale come Gesualdo, né si può assolutamente condividere l’opinione del pur grande Gianfrancesco Malipiero che la creazione artistica sia indipendente dalla vita. Insomma, Gesualdo tanto normale non era, questa è la verità. Lui è il classico genio sregolato, che si esprime, per giunta, in un periodo anche stravagante, come il Barocco. E Gesualdo è barocco anche nel momento dell’assassinio, nella strage che compì con una innegabile crudeltà su Maria, volendo mostrare a tutti cosa ha scoperto nella sua camera da letto e come ha vendicato l’onore suo e della sua nobile casata.
Allora, dicevo, Gesualdo vuole anche stupire, il che gli proviene dal sangue spagnolesco che gli scorreva nelle vene, e perciò, tra l’altro, non soddisfatto del liuto dell’epoca barocca, inventò l’arciliuto, dalla lunghissima tastiera, e fece costruire nel suo castello di Gesualdo un cembalo di undici metri, e la prima stamperia musicale d’Europa, nella famosa stanza del cembalo, dove poi si sarebbe ritirato quando seppe della morte del figlio Emanuele, ultimo legame con Maria, lasciandosi morire.
Quindi quest’uomo, nel momento stesso in cui canta un amore tormentato, si crogiola nel dolore, ricade sul pensiero continuo di morte anche quando sta cantando di un bacio, è lo stesso uomo che la pensa in grande in materia di strumenti musicali, perché doveva creare il cromatismo, il doppio semitono ecc.. Come si vede, tormento e senso del meraviglioso convivono nella sua anima barocca.
Carlo Gesualdo ha mostrato anche un aspetto anti-letterario, in quanto di molti madrigali i testi se li scrisse lui. Dapprincipio musicò i testi di Torquato Tasso e di Giovanni Battista Guarini. Più giovane di Torquato Tasso ma non amico, rifiutò buona parte dei quarantuno testi che Tasso gli aveva inviato e ne musicò soltanto undici. E ciò non perché Tasso aveva dedicato una poesia agli amanti uccisi da Carlo, imitando Catullo con il verso iniziale “Piangete, o grazie, piangete o amori…”, ma perché, essendo troppo lunghi rispetto al suo progetto musicale, preferì attingere ad altri testi più brevi, e, sia pure in minima parte, se li scrisse lui, o se li copiò parafrasando altri testi, come quello all’epoca molto celebre, “Sento che nel partir”, scritto da Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto e nonno di Maria, già musicato in chiave ottimistica da Cipriano De Rore, madrigalista di notevole valore, maestro a Ferrara del grande Girolamo Frescobaldi, o manipolando (è il caso del madrigale n. 11 del Libro I° “Mentre mia stella miri…”) persino una delle più belle poesie di Platone, ch’era già passata, però, nelle mani di Torquato, che l’aveva tradotta e parafrasata (a suo modo, tarpandone il nucleo poetico, certamente più bello, di Platone) e dedicata a Tarquinia Molza, nobildonna di alta intellettualità, che faceva parte del Concerto delle Dame di Ferrara, di là espulsa nel 1589 a seguito di una burrascosa storia d’amore con il madrigalista Jacques de Werth, costretto anche lui a lasciare la Corte degli Estensi. Questo atteggiamento antiletterario è un particolare interessante della sua personalità e legittima a pieno titolo l’attribuzione a lui della qualifica di cantautore. Vi è da precisare che si tratta di composizioni di pochissimi versi, quattro o cinque, con i quali lui aveva la possibilità di far soffermare o circolare le voci dei cinque cantori, secondo il suo inconfondibile stile che esprimeva emozioni veramente drammatiche, dolorose (si pensi a “O dolorosa gioia”, “Ahi, disperata vita” ed altri) con quella tristezza che si ravvisa nei volti del pittore spagnolo El Greco, da taluno puntualmente richiamati e avvicinati alla di lui effige, particolarmente a quella della Pala del Perdono, dipinta nel 1609 da Giovanni Balducci nel Convento dei Cappuccini di Gesualdo.
Come accennato, presento delle immagini di un gigante delle arti figurative che più di ogni altro dimostra nello stesso artista il trapasso che si verifica nella seconda metà del 1500, dal Rinascimento sereno al Barocco tormentato: Michelangelo Buonarroti.
Pensate alla “Creazione dell’uomo” nella Cappella Sistina. E’ indubbiamente un momento di gioia nel mondo, come la nascita di un bambino. Poi il Mosè, che rappresenta la Legge, quando l’umanità acquisisce la certezza di una regola, fino all’arrivo di Gesù che perfezionò e in parte corresse le Tavole di Mosè, con la più travagliosa dottrina dell’amore. Il Davide porta già la fionda, che non rappresenta la Legge statica, ma è simbolo di forza e di lotta. Le Pietà di Michelangelo sono tre ed anche in esse si rivela un mutamento psicologico nella visione dello scultore che le ha create. Bellissima (e serena) quella di San Pietro, diversa la Pietà di Nicodemo, che cala il corpo di Gesù dalla croce, infine la Pietà Rondanini.  Nella stessa Cappella Sistina il Gesù del Giudizio Universale è tanto diverso dal Dio Creatore della prima immagine, poiché v’è la minaccia del giudizio con la grande mano del Cristo minacciosamente sollevata, e con in basso le figure dei dannati, tirati giù dai diavoli nel fuoco eterno.  Nelle Cappelle medicee troviamo il primo Michelangelo per così dire laico, e forse il più grande Michelangelo. Il Giorno ha un viso non si sa dire se informe o deforme, ma non è affatto sereno, perché il Giorno è il periodo della giornata in cui si vivono le difficoltà della vita. Molto più serena la Notte, di una bellezza tranquilla. Il Crepuscolo è anziano e barbuto ma non è brutto come il Giorno, e l’Aurora è forse ancora più bella della Notte, certamente più sensuale. Le Cappelle Medicee già segnano un momento triste di Michelangelo, che era molto sensibile e introverso, com’è provato anche da una sua lirica. I prigioni, appaiono tormentati e appartengono anch’essi a un momento dell’arte michelangiolesca che non esprime più serenità e sacralità, ma piuttosto ansia di liberazione nell’atto in cui tentano di uscire dalla pietra. Ad una tristissima sacralità si torna invece con la Pietà Rondanini. Gesù e la Madonna sono così stilizzati che anticipano la scultura moderna. Madre e figlio appaiono fusi insieme, nel marmo come nel dolore. Si racconta che gli ultimi colpi di scalpello Michelangelo li avrebbe dati facendosi reggere in piedi da altri. Aveva ottantanove anni e temeva la morte. Si può affermare che abbia eseguito e completato quest’opera come se avesse voluto operare una fusione tra l’essere suo che finiva e la creazione di un’immagine di morte come quella della Rondanini, quasi come se avesse voluto scolpire la sua morte. Non è un esempio unico nell’arte, se si pensa al Mozart del Requiem.
Come preannunciato, l’architetto della Basilica di San Pietro, lo scultore del Mosè, del Davide, delle Pietà, il pittore della Cappella Sistina, del Dio Creatore, della Sacra Famiglia del Tondo Doni, non aveva una salda fede, e ciò farebbe vacillare la teorica dell’inscindibilità della verità dall’arte, svincolandosi la creazione artistica dalla triade “Vero-Bene-Bello” del pur grande poeta-filosofo Tommaso Campanella. Accanto al filone laico, vicino al petrarchismo, dei madrigali, il filone sacro è quello cui appartiene questa lirica di Michelangelo.
Vorrei voler, Signor, quel ch’io non voglio:
tra ‘l foco e ‘l cor di ghiaccia un vel s’asconde,
che il foco ammorza, onde non corrisponde
la penna all’opre, e fa bugiardo il foglio.
I’ t’amo con la lingua, e poi mi doglio
ch’amor non giunge al cor” né so ben onde
apra l’uscio alla grazia che s’infonde
nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio...”, perché è l’orgoglio che, come Prometeo, ci fa contrapporre alla Divinità, ma è del resto un sentimento dell’uomo che ci fa contrapporre a tutti, e perciò è “spietato”.             “Squarcia ‘l vel tu, Signor, rompi quel muro
  che con la suo durezza ne ritarda
  il sol della tuo luce, al mondo spenta!”.
Quindi Michelangelo sente che la luce cristiana della Fede è spenta in quel mondo, o va spegnendosi. Si pensi allo scisma luterano.
Manda ‘l preditto lume a noi venturo,
alla tuo bella sposa, acciò ch’io arda
il cor senz’alcun dubbio e te sol senta
Anche Carlo Gesualdo s’incastona in questo momento in cui anche la fede vacilla, ma non sappiamo se Carlo Gesualdo sia stato un credente. Si consideri, tuttavia, che lui non ha mai cantato il Natale, e neppure la Resurrezione, e si è fermato ai Responsori del Sabato Santo, la cosiddetta “Lesson des tenèbres”. Verosimile, quindi, che anche lui sia stato dubbioso in materia religiosa.
Chi dice che Gesualdo era un uomo inidoneo al coniugio si sbaglia, se vuol riferirsi all’aspetto sessuale della vita coniugale. Essere inidoneo a una regolare vita coniugale è tutt’altra cosa, non significa essere insensibile al fascino femminile e che lui, anzi, lo fosse anche in grado elevato è provato, tra l’altro, dalla lunga relazione amorosa che ebbe con Aurelia D’Errico di Montemarano durante il forzato soggiorno a Gesualdo e dopo.
Gesualdo era un uomo pieno di fascino, come ce lo presenta Giovanni Iudica nel più bel libro che sia stato scritto sulla sua vita (“Il Principe dei musici”, edizione Sellerio). Maria capì di aver posto al suo fianco un genio, anche sregolato. Lui ha sposato Maria perché amava questa bellissima cugina, figlia della sorella del padre. Il secondo fu un matrimonio di convenienza, che contrasse con Eleonora D’Este anche per cercare nuove esperienze artistiche e per allontanarsi dall’ambiente napoletano in cui, a causa di quel delitto, si era certamente svalutato come nobile. E Maria si è giovata di quest’uomo a fianco, l’ha amato, che poi l’abbia tradito è fonte di altre pulsioni, in sé comprensibili. Le attrazioni di lei per Gesualdo e il suo tradimento sono perfettamente compatibili, questo bisogna capire, se non si capisce questo, allora non si comprende l’animo di un artista, e cascherebbe ogni tentativo di rivalutare un uomo che ha dato tanto alla Storia della Musica. Sono arzigogoli poi quelli dei giuristi se quello sia stato o meno un delitto di onore. Fu certamente un delitto passionale perché il fondo di quella vicenda è la passione, non ha ucciso per denaro, per motivi abietti, o per altri scopi illeciti. Gesualdo ha ucciso per amore. Tipo introverso, strano, colpito da questa caratteristica della sua strana genialità, non seppe frenare i suoi impulsi. Gesualdo era dunque un passionale e un malinconico. Ma non era affetto da melancolia, per amor di Dio, che è una malattia di competenza psichiatrica. La malinconia è uno stato di profonda meditazione su se stessi, uno stato d’animo in cui l’uomo elabora le proprie idee, sviluppa dal suo pathos un’opera d’arte, una poesia, un pensiero, una musica.
L’immagine di Maria è probabilmente quella che si può vedere nella Cappella Carafa a Napoli, appena si entra in San Domenico Maggiore, subito a destra, vestita di verde con in mano un libricino di colore rosso, forse un messale. Colpisce una vaga somiglianza con il volto della Gioconda. Si è scritto che la zia di Maria, Costanza d’Avalos, è stata quasi certamente la modella della Gioconda di Leonardo da Vinci. Si può azzardare a dire che, come femmina, potrebbe aver patrizzato e somigliare quindi al padre, fratello di Costanza d’Avalos. La somiglianza si nota nell’ampiezza e nella rotondità della fronte, che richiama il volto di Monna Lisa.
Questo è il rapporto di Carlo Gesualdo con Maria, illustrato nei punti essenziali del loro essere marito e moglie. Il rapporto con Eleonora D’Este fu del tutto diverso. Già la preparazione al matrimonio è strana. Fissato per il 21 febbraio 1594, lui arriva a Ferrara il 17 febbraio, appena quattro giorni prima! A parte i cosiddetti colpi di fulmine, è inconcepibile una conoscenza prematrimoniale di quattro giorni. Dopo qualche anno comincia ad allontanarsi da Ferrara e va girando per Venezia e per Firenze, fino al ritorno nel Meridione.
Comunque, non può pensarsi che a Carlo Gesualdo sia andata stretta Napoli come musicista. A Napoli c’era all’epoca una grande cultura musicale. Napoli aveva compositori fra i più famosi in Europa, e avrebbe avuto, in forza della sua tradizione, autori grandissimi, come Giovanbattista Pergolesi, gli Scarlatti, i Cimarosa e tanti altri. Pomponio Nenna, napoletano, frequentò a lungo il castello di Gesualdo. Napoli rivaleggiava sia con Venezia che con Firenze, perché, come a Napoli, a Venezia veniva valorizzata la coralità. Notissimo Giovanni Gabrieli, organista a San Marco, che fu l’unica persona che Gesualdo chiese di poter incontrare, ma non gli fu possibile, mentre pretese invano, facendo pesare il suo titolo di principe, che il Doge gli facesse visita, altra sua stramberia. Dopo il non lungo soggiorno a Ferrara, si recò a Venezia e poi si spostò a Firenze e frequentò la Camerata Bardi, dove, allontanandosi dalla coralità tipica dei Canti Gregoriani e valorizzando la voce singola, furono gettati i primi semi dell’opera lirica, realizzata intorno al 1680, proprio a Firenze. Ed ancor oggi il Quintetto vocale La Florissant di Firenze valorizza in modo estremo, più di quanto abbia voluto a nostro modesto parere lo stesso Carlo Gesualdo, l’autonomia delle voci, per cui sembra che cantino ognuno per conto proprio, rispetto, invece, al metodo più equilibrato del Quintetto Rivo Alto, diretto da Angelo Ephrikian e composto in gran parte da cantanti italiani. Alle tendenze alla monodia Gesualdo prestò un orecchio attento, ed è perfettamente spiegabile, se è vero che una delle caratteristiche originali e salienti della musica gesualdiana è l’isolamento e la circolarità delle cinque voci nei suoi madrigali. Né bisogna dimenticare che lui era un ottimo cantore e spesso s’inseriva nei quintetti vocali per dar lezioni di come andavano cantati i passaggi più difficili. Ciò non toglie che lui decise di sposare Eleonora e di trasferirsi a Ferrara anche perché interessato alla notevole cultura musicale di quella città, pur se il motivo principale fu di ordine dinastico ed economico. Eleonora aveva, com’è intuibile, grandi proprietà, e unire il patrimonio suo a quello dei Gesualdo costituiva soprattutto una difesa contro la crisi del Feudalesimo. A cento anni dalla scoperta dell’America, cominciò a farsi sentire la crisi del Feudalesimo perché prevalsero, con i viaggi, gli scambi commerciali. I terreni calarono di valore e Gesualdo scelse di acquistarli all’asta, anche in Puglia, facendosi presumibilmente informare sulle aste pubbliche dagli alti prelati suoi parenti, come lo zio Carlo Borromeo o l’altro zio Federico Borromeo, che è quello dei Promessi Sposi. Attualmente gli informatori provengono dalla camorra, che fa sapere se c’è qualcosa di conveniente da comprare nelle esecuzioni immobiliari presso i Tribunali. Gli stessi parenti ecclesiastici gli combinarono i matrimoni.  Uno con la cugina, che portò in dote 80.000 ducati, e l’altro con Eleonora d’Este per unire ricchezze e soprattutto per dare un erede ad Alfonso D’Este. Nacque Alfonsino, ma morì che aveva quattro o cinque anni, pare a Venosa per una febbre.
Gesualdo non gradì molto il soggiorno ferrarese, anche se colà si affidò con grande costanza e interesse alle lezioni del madrigalista Luzzasco Luzzaschi, di cui imitò lo stile. Ferrara era un centro avanzato di studi musicali, tanto che aveva il Concerto delle Dame, unico in Europa. Inoltre, Gesualdo vi fece stampare il primo e il secondo libro dei madrigali, probabilmente composti in buona parte nel castello di Gesualdo, ed anche il terzo e il quarto libro. Nel 1595, lui e il plenipotenziario di Casa d’Este Alfonso Fontanelli, amante della musica, scesero al Sud e passarono per Calitri dove aveva un grande allevamento di cavalli di razza pregiata, noti in Europa, raggiungendo infine il feudo di Gesualdo. Quello di Gesualdo era veramente il castello più amato, tanto è vero che vi fece impiantare la detta Stamperia, fece costruire il grande Cembalo, pubblicò nel 1611 il V° il VI° libro dei Madrigali e i Responsori, e alla fine vi morì l’8 settembre del 1613.
Nel colonnato di Piazza San Pietro abbiamo, con Bernini, il senso e quasi il culto del meraviglioso. Ma in Bernini c’è anche il tormento dell’amore, che oscilla tra il sessuale e lo spirituale, come sarà sempre negli esseri umani. Nella scultura della santa Ludovica Albertoni è espresso il senso della morte. Santa Teresa d’Avila, che nel suo “Il Castello interiore” risale da contenuti passionali e tormentati ad una estatica spiritualità, è oggetto di una scultura di Bernini molto famosa: l’Estasi di Santa Teresa d’Avila. L’estasi trova espressione anche in Gesualdo, come punto di conciliazione tra i sentimenti dell’amore e quello della morte. In Gesualdo può ravvisarsi un triangolo inverso a quello di Leopardi. In “Amore e morte” di Leopardi c’è infine l’abbandono alla morte, mentre in Gesualdo il connubio Amore-Morte non si risolve nell’abbandono, non c’è un cupio dissolvi, ma l’estasi che si prova nell’intensità del sentimento e dell’atto di amare. In lui c’è quindi un triangolo positivo, che si innalza verso un alto momento di spiritualità. Esempio evidentissimo è il madrigale n. 2 del Libro IV:
 “Talor sano desio vuol che morendo ancida
ogni mia doglia. Ma io di pianger vago,
o fiera voglia, amo la vita solo perché
mio pianto eterni eterno duolo”
Qui si comprende che il principe si è votato alla espiazione della colpa di aver ucciso la donna da lui amata e questa espiazione vuole compierla cantando il suo dolore (Leopardi: “…piansi la bella giovinezza”).
Si consideri che in questo secolo barocco c’è un grande individualismo, ognuno esprime una pensiero diverso di fronte allo stesso fenomeno. E così si verifica nei madrigali. A volte, mentre uno del coro di cinque voci sta cantando, per esempio, languire, un altro sta cantando un’altra parola che ha un significato del tutto diverso, isolato rispetto al contesto. Ogni voce canta per sé, esprime, semmai, un sentimento suo nello stesso madrigale. Vi sono incroci pazzeschi di parole che non sono all’unisono sul sentimento che in quel momento esprime la musica, e talora fino al punto che uno dei cantori sta ripetendo il verso che viene prima e un altro il verso che viene dopo. E semmai capita di ascoltare, in contemporanea, un languire e un gioire. Chi conosce la musica di Gesualdo avrà notato questa particolarità, che è soprattutto un isolamento dei sentimenti. Caravaggio isola le figure, come quella del boia, della vecchia che pensa, della donna che gira il viso perché non vuol guardare la testa mozzata di San Giovanni Battista nel piatto, ed ugualmente fa nel dipinto dei suonatori di liuto. E come Gesualdo isolava le voci, il grande Caravaggio ha isolato le figure in modo che ciascuna vive il suo dramma esistenziale del momento. In questo stesso secolo, mentre Machiavelli aveva in precedenza dettato i principi universali sul potere e sulla Storia, Guicciardini invece raccomanda a ciascuno di guardare al “suo particulare” poiché non vi sono regole generali e sicure a cui riferirsi. Ognuno parla a suo modo, uno parla da filosofo, un altro da storico, un altro da artista dei…sentimenti messi in musica... però vi sono delle chiare affinità nella visione individualista della vita. Fra tanti conflitti, in quel secolo ognuno guarda al suo particulare, non ci sono più ideologie che uniscono, perciò sembra ci sia somiglianza con le nostre situazioni sociali e conseguenti atteggiamenti spirituali e politici. Governo degli Uomini e non più Governo delle Idee. Le ideologie uniscono e invece nel Seicento le ideologie si sgretolarono, ognuno si sentì isolato ed anche i pittori e ogni altro artista si espresse liberamente.
Apollo e Dafne è tra le più belle sculture di Lorenzo Bernini. E’ un desiderio d’amore, quello di Apollo, più composto, ma sempre dei sensi. Nel Satiro e Ninfa siamo…alla pedofilia. La terza figura è invece quella che rappresenta l’amore spirituale, l’estasi di Santa Teresa d’Avila. Si potrebbero ordinare come segue le immagini: prima il Satiro e la ninfa (sessualità pura), poi Apollo e Dafne (sensualità amorosa) e infine Santa Teresa d’Avila (amore spirituale puro).
Tratteggiando l’argomento che riguarda il duplice omicidio, si condividerà senz’altro che a quel tempo il Viceré spagnolo con un frego di penna annullò il processo, mentre se Gesualdo non fosse stato un nobile sarebbe seguito il processo presso il Tribunale della Vicaria, allocato dov’è a Napoli l’attuale Castelcapuano. Dopo la Rivoluzione Francese e dopo Montesquieu, se sotto ai giudici capitasse un altro Carlo Gesualdo, dovrebbe sottoporsi al processo, quale che ne sia l’esito.
Intanto, nel processo rinnovato a Gesualdo il 12 settembre del 2004, i giudici hanno ritenuto la premeditazione ed hanno escluso il delitto d’onore per incompatibilità con la stessa. Ma il delitto passionale resta, in sé stesso comprensibile anche se non giustificabile. E’ stato bello il finale, con l’invito dell’avvocato Siniscalchi ad intestare una stanza del castello in via di restaurazione a Maria d’Avalos...
Si potrebbe intestare così: “A Maria e Fabrizio, morti per amore”. E forse Carlo Gesualdo, alzando il capo dalla tomba, non se ne adonterebbe, se è vero che nei madrigali ha espresso un tormentato e sincero pentimento.

                                                                                   GENNARO IANNARONE


domenica 5 giugno 2016

VITA, POESIA E MUSICA NEI MADRIGALI DEL PRINCIPE


Spunti per una insolita chiave di lettura comparativa



Secondo Igor Stravinskij Carlo Gesualdo è “inspiegabilmente statico” e Antonio Vivaldi è stato colui che ha scritto duecento volte lo stesso concerto. Questi giudizi possono trovare una spiegazione nel fatto il grande musicista russo fu il più violento e sfrenato del ventesimo secolo, il trasformista per eccellenza, come si desume dalla sua inaspettata conversione alla dodecafonia, avversata in gioventù, cosicché più di un autore dovette apparirgli immobile e senza mutamento. Tuttavia venne due volte a Gesualdo, segno chiaro di un vero innamoramento per il principe madrigalista. Poi, chiese di essere seppellito a Venezia, città che aveva definito “la Musica stessa”, la quale non potrebbe considerarsi tale senza Antonio Vivaldi. Sappiamo, comunque che la scelta di tale città per la sua sepoltura dipese dal fatto che in quel cimitero era seppellito il maestro che lui adorava, Diaghilev, ed infatti le due lapidi sono collocate l’una accanto all’altra.
Queste sono comunque parole, mentre un cammino “dentro” i madrigali ci offre l’opportunità di svelarne la varietà, forse anche a costo di contraddire lo stesso Stravinskij. E’ un tentativo che si svolge non tanto come un percorso nei temi musicali, quanto piuttosto come uno scrutare fra musica e testo, per scoprire reconditi legami fra arte, vita e poesia. Sarà quindi, soprattutto, un concentrarsi sulle parole intorno alle quali Gesualdo faceva magistralmente soffermare e circolare le voci, ma con l’attenzione rivolta anche alla melodia che le accompagna.
L’apertura della monumentale opera madrigalistica è già fra le più belle:

 Baci soavi e cari,
cibi de la mia vita
ch’or m’involate, or mi rendete il core,
per voi convien ch’impari
come un’alma rapita
non sente il duol di Morte,
e pur si more!

Quanto ha di dolce Amore,
perché sempre vi baci,
o dolcissime rose,
in voi tutto ripose.
Deh, s’io potessi ai vostri dolci baci
La mia vita finire!
Oh, che dolce morire!

I “Baci soavi e cari…” sono il momento più dolce dell’amore, che i versi di Battista Guarini trattano con insuperabile levità, depurando i baci di ogni sensazione fisica e materiandoli di sola spiritualità. Così essi, cibi che soavemente nutrono la vita amorosa, partono dalle labbra, eguagliate alle rose, e giungono diritti al cuore, facendolo per un istante volare dal petto e poi restituendolo, quasi come se il madrigale facesse sentire il pulsare dei cuori e delle anime degli amanti, che nel momento del bacio hanno perduto la loro identità. E l’anima rapita non sente più il dolore della Morte, come se l’amore fosse assurdamente dotato di una potenza superiore.
Qui Gesualdo opera un immediato passaggio, senza voli pindarici, dal pensiero della massima felicità spirituale a quello della massima infelicità, come Leopardi in Amore e Morte, come Freud in Eros e Tanatos. Ma in lui c’è in più l’estasi, la gioia di morire nell’atto d’amore (“Oh, che dolce morire!”), sentimento estraneo sia alla psicanalisi che alla poetica leopardiana, dove si ritrova al più il desiderio di abbandonarsi ad una morte serena.
Chissà se conosceva i madrigali di Carlo Gesualdo il poeta Edgar Lee Masters (1869-1950), autore dell’Antologia di Spoon River, nota come la Divina Commedia americana.
Tutti ormai dormono il sonno eterno sulla collina dov’è il cimitero di Spoon River, ma ognuno ha fatto scrivere sulla lapide  la breve storia della propria vita, con le colpe ed i meriti, con le gioie ed i dolori, con gli amori, gli odi, i ricordi lieti e tristi di una intera esistenza, le emozioni ed i sentimenti intensamente provati. Fra i tanti c’è un uomo di già maturo, Francis Turner, che così ricorda, teneramente, il momento della sua morte:

Eppure giaccio qui
blandito da un segreto che solo Mary conosce:
c’è un giardino di acacie, di catalpe e di pergole addolcite da viti,
là, in quel pomeriggio di giugno/ al fianco di Mary,
mentre la baciavo con l’anima sulle labbra,
 l’anima d’improvviso mi fuggì.”

 Il ricordo della morte blandisce Francis Turner, ossia lo addolcisce, perché il momento del trapasso è stato quello stesso in cui baciava Mary. Lui fin da ragazzo sapeva che la scarlattina gli aveva indebolito il cuore e non lo avrà mai abbandonato il presentimento di dover morire in età ancor giovane, ma gli è dolce ricordare che il suo cuore ha ceduto per sempre in un momento d’amore, quel suo cuore che, sperdendosi sulle labbra dell’amata, “or s’involava or si rendeva”, fino a quando era volato via per sempre, insieme alla sua anima.
L’anima sulle labbra, eccola qui, sorprendentemente, l’alma rapita del primo madrigale gesualdiano, che esprime momenti musicali commossi sia nelle drammatiche ascese di ottava del tenore, sulle parole “e pur si more!”, sia nella patetica melodia che il soprano sviluppa sulle parole “la mia vita finire” e “oh, che dolce morire!”.
Ma non può sfuggire uno strano e chiaramente percettibile contrasto tra “il duol di Morte” della prima strofa, che l’alma rapita non avverte, ma che resta sempre una dura realtà (“e pur si more!”) su cui le voci del basso, del soprano e del tenore, prima alternandosi in una sorta di fuga, poi tutte insieme, inducono ad un attimo di meditazione, con sonorità cupamente tristi, e il “dolce morire” della seconda strofa, tutta improntata ad una poetica e musicale dolcezza, sì che le voci del soprano, del tenore e del basso, con l’analogo susseguirsi e fondersi nella coralità, sembrano toccare qui addirittura l’estatica contemplazione di una morte felice!

Tirsi morir volea
Mirando gli occhi di colei ch’ adora;
quand’ella. Che di lui non meno ardea,
gli disse: Ohimè, ben mio,
deh, non morire ancora,
ché teco bramo di morir anch’io!
Frenò Tirsi il desìo
Ch’ebbe di pur sua vita allor finire
Sentendo morte in non poter morire.

Amore e Morte sono i motivi dominanti anche del decimo madrigale del primo libro, anch’esso guariniano, ma qui vi è un tutt’altro significato, puramente fisico. Qui non vi è alcun sentimento d’amore che faccia spiritualmente soffrire e la parola “morire” indica sempre e soltanto l’acme del piacere sessuale e quindi l’annullarsi, il morire del godimento fisico, fortemente desiderato ma non raggiunto.
Dopo circa mezzo millennio la nota canzone di Mina “L’importante è finire”, su testo di Cristiano Malgioglio, tornando ancora sul tema del sesso senza amore, userà quella parola con lo stesso significato, che in fondo segna la sorte del fuco sotto la dominanza amorosa dell’Ape regina:

Adesso  volta la faccia, questa è l’ultima volta
che lo lascio “morire” e poi e poi…
Ha talento da grande lui nel fare l’amore
sa pigliare il mio cuore e poi e poi e poi… e poi
Ha il volto sconvolto, io gli dico ti amo
ricomincia daccapo è violento il respiro
io non so se restare o rifarlo “morire
L’importante è..è..è..è…è....finire.”

Carlo Gesualdo, per la sua condizione di nobile e la stretta parentela che lo legava ad alti prelati, non poteva assolutamente pubblicare composizioni di contenuto fortemente sensuale nei tempi in cui visse, nei quali era avvenuto persino che un pittore, meritatosi poi a pieno titolo il soprannome di Braghettone, fu incaricato dall’autorità pontificia di “mettere le braghe” ad alcuni dannati del Giudizio Universale della Cappella Sistina, lasciati nudi da Michelangelo. Però, da uomo deciso a realizzare le sue intuizioni artistiche, tanto è vero che oltrepassò senza remore i canoni della tecnica musicale dell’epoca, egli non rinunciò a sviluppare una idea poetica che esercitava su di lui una sorta di malcelato eccitamento, perché nasceva dalle componenti più caratteristiche della sua personalità, molto sensibile al fascino femminile ed osiamo anche dire malata di sesso, com’è rivelato non solo dalle vicende di tutta la sua vita ma anche da qualche altro madrigale (“Deh, coprite il bel seno,/ Che per troppo mirar l’alma vien meno!/ Ahi, non coprite, no, che l’alma avezza/ a viver di dolcezza/ spera, mirando, aìta/ da quel bel sen,/ che le dà morte e vita!”, è il morboso madrigale numero 16 del Libro Quinto). Preferì mascherare abilmente il momento di intensa sessualità fra i due amanti, abbandonatisi ad un gioco d’amore che la letteratura classica ben conosce: “Me voces audire iuvat sua gaudia fassas, utque morer meme sustineamque, roget” (“Mi prega di non affrettarmi…”, proprio come dice la donna a Tirsi) e “Sed neque tu dominam velis maioribus usus/ defice, nec cursus anteeat illa tuos;/ ad metam properate simul: tum plena voluptas,/ cum pariter victi femina virque iacent” (“…andate insieme alla mèta; la voluttà è al suo colmo quando l’uomo e la donna giacciono, parimente vinti”). Sono versi dell’Ars amandi di Ovidio (II, 692, 725-728), la cui lezione Tirsi non mette però a buon frutto, per aver forse rallentato troppo la corsa veloce che aveva intrapreso, tanto che il gioco d’amore rimane incompiuto.
Sentendo morte in non poter morir” esprime la profonda “mortificazione” che Tirsi prova per non aver potuto godere della felicità del “morire” insieme. La privazione del comune tripudio dei sensi, che entrambi gli amanti ardentemente desideravano, è fonte di grande sofferenza, fin quasi a sentirsi morire.
Stupende entrambe le strofe di ciascuno dei due madrigali, ma assurdamente diverse e dalla sensibilità quasi contraddittoria. Dal dolore alla gioia, nel primo; dalla gioia al dolore, nel secondo. Come usava comporli Giovanni Battista Guarini, i cui testi talvolta bipartiti furono i primi a richiamare l’attenzione e la sensibilità del Principe, perché introducevano note inedite di ansia, di malinconia, di pathos, di languore, di morbida sensualità. Provi l’appassionato lettore ad isolarne l’ascolto, se possibile nell’edizione del Quintetto Vocale Italiano. Se non sentirà già le dissonanze puramente musicali che hanno maggiormente suscitato l’interesse degli studiosi, coglierà invece da subito le profonde, patologiche dissonanze dell’anima gesualdiana.
Molto più interessanti. Anzi, semplicemente sconvolgenti!

                                                                                                   GENNARO IANNARONE