lunedì 9 maggio 2016

UN GUARDONE DA INCUBO - Racconto






Gerardo e Rita, entrambi trentenni, in una sera prima del Natale del 1972 erano fermi da una decina di minuti a bordo di una Citroen parcheggiata in aperta campagna su un piccolo spiazzo poco distante dalla strada nazionale, quando improvvisamente due colpi di fucile, sparati da breve distanza, mandarono in frantumi i vetri dei due sportelli di sinistra e di quello posteriore destro della vettura. Lievemente ferito in petto e ai glutei e colto dal panico, Gerardo si allontanò subito dalla zona. Pur guardando intorno non vide nessuno, anche perché la campagna circostante era quasi interamente al buio.
In una delle sere successive al Natale del 1973, Enrico e Carmela, due fidanzati poco più che ventenni, sostavano da circa cinque minuti a bordo di una “Mini Minor” in altro punto della stessa zona e si stavano scambiando baci ed effusioni amorose, con gridolini e piccoli lamenti di dolcissimo godimento, quando il giovane Enrico sentì un rumore sospetto allo sportello destro, dal lato dove sul sedile reclinato era distesa la sua ragazza. Girato di scatto lo sguardo a sinistra verso il finestrino, vide la sagoma di un uomo con un cappello in testa, alto circa 1,65, con “qualcosa” in mano, che tentava insistentemente di aprire lo sportello, ma il congegno di sicurezza aveva resistito. Enrico riuscì a sfuggire all’aggressore con una retromarcia, ma costui, profittando della lentezza della manovra, aggirò la vettura fino a porsi quasi davanti e gli sparò contro un colpo di fucile, ferendolo al braccio sinistro e al torace, ed altro colpo esplose mentre la vettura, uscendo dalla zona campestre e buia, stava imboccando la strada nazionale. Tranne la statura, non notò altre caratteristiche dell’individuo, ma a differenza di Gerardo e Rita che non avevano visto neppure l’ombra di una persona, per questi altri due malcapitati ci fu invece la presenza molto inquietante di qualcuno che aveva preso forma. Sequenze allucinanti, di terrore, quelle vissute da Carmela, che aveva cominciato a tremare tutta fin dal momento in cui quella sagoma col cappello in testa era comparsa accanto al finestrino ed aveva impugnato la maniglia della portiera per aprirla. E quel tremito le durò pur dopo aver guadagnato la via di fuga sulla  nazionale,  anche perché il secondo colpo di fucile le fece capire ancor meglio che l’individuo, in preda ad una forte eccitazione, intendeva fermare la macchina per godere del suo prezioso carico femminile.
Franco e Nunzia si fermarono ad amoreggiare in una serata dei primi di settembre del 1974 in un’Alfa Romeo GT 1300. Il primo strano rumore giunto all’orecchio di Franco fu un fruscio da una vicina siepe, simile a quello sentito due sere prima nello stesso posto. Credendo che si trattasse di qualche animale che passava per i campi, uscì dalla vettura per capire cosa fosse, ma si trovò invece davanti, a qualche metro di distanza, un uomo seminascosto da una siepe, che sebbene invitato a venir fuori, non aderì. Rimessosi in macchina per allontanarsi dalla zona, non aveva percorso neppure una decina di metri che sentì uno sparo, simile a quello prodotto da un’arma da fuoco. Disceso dall’auto, si diresse di corsa nel luogo dove aveva poco prima visto lo sconosciuto, ma questi si era già dileguato nella campagna circostante. Tornato presso l’auto ed allontanatosi definitivamente, si fermò ad osservare la vettura alla luce di un lampione stradale ed ebbe infatti la conferma che la stessa era stata attinta da uno sparo poiché notò un’ammaccatura sul lunotto e striature della vernice sul tetto.
Circa un anno dopo, dopo la mezzanotte di un sabato del luglio 1975, il giovane commissario Magri si trovava nel suo paese di origine per trascorrervi un fine settimana, quando fu informato telefonicamente che in quella stessa zona, vicino al cancello di una villa, giaceva il corpo esanime di una ragazza in una pozza di sangue. Raggiunto il posto, vi trovò alcuni agenti di Polizia collocatisi a cerchio intorno al corpo quasi completamente nudo di una ragazza, poco distante dalla portiera destra, aperta, di una Fiat 500 bianca, che aveva il sedile lato passeggeri, il cruscotto e lo sterzo vistosamente schizzati di sangue. Il dott. Magri dispose di far rotolare il corpo della giovane donna sul lenzuolo bianco da cui era parzialmente ricoperta e di versarle addosso dei secchi d’acqua per ripulirla del terriccio misto a sangue che non consentiva una buona ispezione del cadavere. Ebbe modo così di vedere un foro al di sotto dell’ascella sinistra, da cui usciva ancora un debole gemizio.
Marino, il compagno della giovanissima defunta, fu sentito dal commissario Magri nella casa del padre, dove fu rintracciato. Superato il timore di essere incolpato dell’accaduto, cominciò a raccontare che dopo un primo amplesso sul sedile posteriore, lui disteso e Lucia sopra, si stava congiungendo di nuovo con la ragazza sul sedile passeggeri, quando aveva avvertito una presenza all’esterno. Un leggero scalpiccio o il respiro di qualcuno che stava ad un palmo dal finestrino avevano richiamato la sua attenzione. Staccatosi dal corpo di Lucia, si era seduto al posto di guida e volgendo lo sguardo verso la parte alta del vetro un po’ abbassato, aveva visto che penetrava  all’interno “qualcosa” che sembrava un bastone. Istintivamente lo aveva afferrato con la mano destra per allontanarlo da sé, ma da quel “bastone” era partito un colpo che aveva investito in pieno la ragazza. Allontanatosi immediatamente per prestarle soccorso, dopo circa duecento metri si era accorto che lei purtroppo era morta, ed allora, preso dal panico, aveva scaricato il corpo a terra nei pressi del cancello di una villa ed era corso a casa del padre per farsi consigliare. Non aveva potuto vedere lo sparatore perché dileguatosi.
Consolidatosi nel commissario Magri il sospetto che l’uccisore della ragazza fosse la stessa persona che nei tre episodi precedenti aveva sparato sulle coppiette, volle riascoltare le vittime dei precedenti episodi, ed in particolare la coppia Franco e Nunzia il cui racconto per più di un motivo non appariva convincente. Franco non creò perdite di tempo alla Polizia. In verità la sua psicologia era cambiata dopo aver appreso che la sua fidanzata era sorellastra della ragazza rimasta uccisa, per cui ora non poteva tacere su quel che poteva essere utile a identificare l’assassino della povera Lucia. In fondo si sentiva anche un po’ responsabile del tragico evento per non aver riferito tutto nella sua denuncia di un anno prima. Si allargò perciò a dire che si era trovato faccia a faccia con l’uomo, che era alto circa 1,65, a capo scoperto, con barba incolta e dall’aspetto trasandato, come di uno che non veniva da molto lontano e fosse quindi un campagnolo. Indossava un pantalone di tipo militare e un giaccone dello stesso tipo con i bottoni dorati. Si spinse infine a dichiarare che quell’individuo forse si identificava in tal Giosuele, soprannominato “Sguincio”, noto nella sua zona per essere affetto da una particolare forma di sadismo, quella di sparare ai cani per divertirsi. Precisò tuttavia di non essere sicuro del riconoscimento avendo visto l’uomo al buio.
Durante le perquisizioni che seguirono furono rinvenuti in casa dei genitori dello “Sguincio” i pantaloni militari e il giaccone con i bottoni dorati. Nella casa di lui, dietro direttive di un maggior approfondimento, gli agenti di polizia ritrovarono molti giornaletti pornografici e, sotterrato nell’adiacente giardino, un fucile ad una canna. Seguì il suo arresto circa due giorni dopo.
Nell’interrogatorio del giudice della Procura, poiché il Giosuele proclamò subito la sua innocenza, si cominciò con il chiedergli vagamente e con aria di scherzosa cordialità, quasi confidenziale, quali posizioni amorose preferiva, dando per scontato che gli piacevano le donne per via della presenza in casa sua di quei giornaletti pornografici. Egli rispose tranquillamente, anzi con malcelato piacere, a tale domanda, tanto che, quando indugiava nella descrizione di particolari atti sessuali, il suo sguardo si caricava di evidente morbosità. Confidò che la posizione da lui preferita era quella della donna che “faticava” sopra l’uomo. Chiestogli se quel sabato notte si era accostato alla Fiat 500 bianca per godersi dal vivo una simile scena di sesso, negò tenacemente ed a lungo, ma la sua resistenza crollò quando seppe dell’autopsia: nel cuore della ragazza era stata rinvenuta la maggior parte dei pallini esplosi proprio dal suo fucile, come aveva accertato il perito balistico. Ammise quindi che gli era piaciuto guardare la giovanissima donna fare così l’amore in macchina sul sedile posteriore e che aveva infilato la canna del fucile nello spazio libero del finestrino, restando in attesa che i due raggiungessero l’orgasmo. Solo allora avrebbe sparato un colpo, non per ferire ma soltanto con l’intento di interrompere quegli attimi di piacere, perché nell’infliggere sofferenza e spavento si sarebbe eccitato al massimo, come usava fare con i cani, confermando così anche quest’altra sua strana mania. Senonché, il giovane che era in macchina aveva tirato il fucile ed aveva fatto partire il colpo contro la sua volontà. Colpa sua se la ragazza era rimasta uccisa. Rimase fermamente in questa versione del fatto e negò tutto riguardo agli altri tre episodi.
Lo “Sguincio” non sfuggì alla condanna. La vicenda aveva destato grande impressione e del resto, di fronte a quella canna di fucile infilata nel finestrino e puntata su una coppia in amore, sarebbe stato assurdo dubitare della sua volontà sanguinaria. La pena si fermò a 17 anni di carcere, ma la Corte d’assise di appello la elevò ad anni 23, includendo l’episodio di Franco e Nunzia. Un ruolo determinante l’aveva giocato il giaccone militare dai bottoni dorati.

                                                                              GENNARO IANNARONE


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