Gerardo e Rita, entrambi trentenni, in una sera
prima del Natale del 1972 erano fermi da una decina di minuti a bordo di una
Citroen parcheggiata in aperta campagna su un piccolo spiazzo poco distante dalla
strada nazionale, quando improvvisamente due colpi di fucile, sparati da breve
distanza, mandarono in frantumi i vetri dei due sportelli di sinistra e di
quello posteriore destro della vettura. Lievemente ferito in petto e ai glutei
e colto dal panico, Gerardo si allontanò subito dalla zona. Pur guardando
intorno non vide nessuno, anche perché la campagna circostante era quasi
interamente al buio.
In una delle sere successive al Natale del 1973, Enrico
e Carmela, due fidanzati poco più che ventenni, sostavano da circa cinque
minuti a bordo di una “Mini Minor” in altro punto della stessa zona e si
stavano scambiando baci ed effusioni amorose, con gridolini e piccoli lamenti
di dolcissimo godimento, quando il giovane Enrico sentì un rumore sospetto allo
sportello destro, dal lato dove sul sedile reclinato era distesa la sua
ragazza. Girato di scatto lo sguardo a sinistra verso il finestrino, vide la
sagoma di un uomo con un cappello in testa, alto circa 1,65, con “qualcosa” in
mano, che tentava insistentemente di aprire lo sportello, ma il congegno di
sicurezza aveva resistito. Enrico riuscì a sfuggire all’aggressore con una
retromarcia, ma costui, profittando della lentezza della manovra, aggirò la
vettura fino a porsi quasi davanti e gli sparò contro un colpo di fucile,
ferendolo al braccio sinistro e al torace, ed altro colpo esplose mentre la
vettura, uscendo dalla zona campestre e buia, stava imboccando la strada
nazionale. Tranne la statura, non notò altre caratteristiche dell’individuo, ma
a differenza di Gerardo e Rita che non avevano visto neppure l’ombra di una
persona, per questi altri due malcapitati ci fu invece la presenza molto
inquietante di qualcuno che aveva preso forma. Sequenze allucinanti, di terrore,
quelle vissute da Carmela, che aveva cominciato a tremare tutta fin dal momento
in cui quella sagoma col cappello in testa era comparsa accanto al finestrino
ed aveva impugnato la maniglia della portiera per aprirla. E quel tremito le
durò pur dopo aver guadagnato la via di fuga sulla nazionale,
anche perché il secondo colpo di fucile le fece capire ancor meglio che
l’individuo, in preda ad una forte eccitazione, intendeva fermare la macchina
per godere del suo prezioso carico femminile.
Franco e Nunzia si fermarono ad amoreggiare in una
serata dei primi di settembre del 1974 in un’Alfa Romeo GT 1300. Il primo
strano rumore giunto all’orecchio di Franco fu un fruscio da una vicina siepe,
simile a quello sentito due sere prima nello stesso posto. Credendo che si
trattasse di qualche animale che passava per i campi, uscì dalla vettura per
capire cosa fosse, ma si trovò invece davanti, a qualche metro di distanza, un
uomo seminascosto da una siepe, che sebbene invitato a venir fuori, non aderì. Rimessosi
in macchina per allontanarsi dalla zona, non aveva percorso neppure una decina
di metri che sentì uno sparo, simile a quello prodotto da un’arma da fuoco.
Disceso dall’auto, si diresse di corsa nel luogo dove aveva poco prima visto lo
sconosciuto, ma questi si era già dileguato nella campagna circostante. Tornato
presso l’auto ed allontanatosi definitivamente, si fermò ad osservare la
vettura alla luce di un lampione stradale ed ebbe infatti la conferma che la
stessa era stata attinta da uno sparo poiché notò un’ammaccatura sul lunotto e
striature della vernice sul tetto.
Circa un anno dopo, dopo la mezzanotte di un sabato
del luglio 1975, il giovane commissario Magri si trovava nel suo paese di
origine per trascorrervi un fine settimana, quando fu informato telefonicamente
che in quella stessa zona, vicino al cancello di una villa, giaceva il corpo
esanime di una ragazza in una pozza di sangue. Raggiunto il posto, vi trovò
alcuni agenti di Polizia collocatisi a cerchio intorno al corpo quasi completamente
nudo di una ragazza, poco distante dalla portiera destra, aperta, di una Fiat
500 bianca, che aveva il sedile lato passeggeri, il cruscotto e lo sterzo
vistosamente schizzati di sangue. Il dott. Magri dispose di far rotolare il
corpo della giovane donna sul lenzuolo bianco da cui era parzialmente ricoperta
e di versarle addosso dei secchi d’acqua per ripulirla del terriccio misto a
sangue che non consentiva una buona ispezione del cadavere. Ebbe modo così di
vedere un foro al di sotto dell’ascella sinistra, da cui usciva ancora un
debole gemizio.
Marino, il compagno della giovanissima defunta, fu
sentito dal commissario Magri nella casa del padre, dove fu rintracciato. Superato
il timore di essere incolpato dell’accaduto, cominciò a raccontare che dopo un
primo amplesso sul sedile posteriore, lui disteso e Lucia sopra, si stava
congiungendo di nuovo con la ragazza sul sedile passeggeri, quando aveva avvertito
una presenza all’esterno. Un leggero scalpiccio o il respiro di qualcuno che
stava ad un palmo dal finestrino avevano richiamato la sua attenzione. Staccatosi
dal corpo di Lucia, si era seduto al posto di guida e volgendo lo sguardo verso
la parte alta del vetro un po’ abbassato, aveva visto che penetrava all’interno “qualcosa” che sembrava un
bastone. Istintivamente lo aveva afferrato con la mano destra per allontanarlo
da sé, ma da quel “bastone” era partito un colpo che aveva investito in pieno
la ragazza. Allontanatosi immediatamente per prestarle soccorso, dopo circa duecento
metri si era accorto che lei purtroppo era morta, ed allora, preso dal panico,
aveva scaricato il corpo a terra nei pressi del cancello di una villa ed era
corso a casa del padre per farsi consigliare. Non aveva potuto vedere lo
sparatore perché dileguatosi.
Consolidatosi nel commissario Magri il sospetto che
l’uccisore della ragazza fosse la stessa persona che nei tre episodi precedenti
aveva sparato sulle coppiette, volle riascoltare le vittime dei precedenti
episodi, ed in particolare la coppia Franco e Nunzia il cui racconto per più di
un motivo non appariva convincente. Franco non creò perdite di tempo alla Polizia.
In verità la sua psicologia era cambiata dopo aver appreso che la sua fidanzata
era sorellastra della ragazza rimasta uccisa, per cui ora non poteva tacere su
quel che poteva essere utile a identificare l’assassino della povera Lucia. In
fondo si sentiva anche un po’ responsabile del tragico evento per non aver
riferito tutto nella sua denuncia di un anno prima. Si allargò perciò a dire che
si era trovato faccia a faccia con l’uomo, che era alto circa 1,65, a capo
scoperto, con barba incolta e dall’aspetto trasandato, come di uno che non
veniva da molto lontano e fosse quindi un campagnolo. Indossava un pantalone di
tipo militare e un giaccone dello stesso tipo con i bottoni dorati. Si spinse
infine a dichiarare che quell’individuo forse si identificava in tal Giosuele, soprannominato
“Sguincio”, noto nella sua zona per essere affetto da una particolare forma di
sadismo, quella di sparare ai cani per divertirsi. Precisò tuttavia di non
essere sicuro del riconoscimento avendo visto l’uomo al buio.
Durante le perquisizioni che seguirono furono
rinvenuti in casa dei genitori dello “Sguincio” i pantaloni militari e il
giaccone con i bottoni dorati. Nella casa di lui, dietro direttive di un
maggior approfondimento, gli agenti di polizia ritrovarono molti giornaletti
pornografici e, sotterrato nell’adiacente giardino, un fucile ad una canna.
Seguì il suo arresto circa due giorni dopo.
Nell’interrogatorio del giudice della Procura,
poiché il Giosuele proclamò subito la sua innocenza, si cominciò con il
chiedergli vagamente e con aria di scherzosa cordialità, quasi confidenziale, quali
posizioni amorose preferiva, dando per scontato che gli piacevano le donne per via
della presenza in casa sua di quei giornaletti pornografici. Egli rispose tranquillamente,
anzi con malcelato piacere, a tale domanda, tanto che, quando indugiava nella
descrizione di particolari atti sessuali, il suo sguardo si caricava di
evidente morbosità. Confidò che la posizione da lui preferita era quella della
donna che “faticava” sopra l’uomo. Chiestogli se quel sabato notte si era
accostato alla Fiat 500 bianca per godersi dal vivo una simile scena di sesso, negò
tenacemente ed a lungo, ma la sua resistenza crollò quando seppe dell’autopsia:
nel cuore della ragazza era stata rinvenuta la maggior parte dei pallini
esplosi proprio dal suo fucile, come aveva accertato il perito balistico. Ammise
quindi che gli era piaciuto guardare la giovanissima donna fare così l’amore in
macchina sul sedile posteriore e che aveva infilato la canna del fucile nello
spazio libero del finestrino, restando in attesa che i due raggiungessero
l’orgasmo. Solo allora avrebbe sparato un colpo, non per ferire ma soltanto con
l’intento di interrompere quegli attimi di piacere, perché nell’infliggere
sofferenza e spavento si sarebbe eccitato al massimo, come usava fare con i
cani, confermando così anche quest’altra sua strana mania. Senonché, il giovane
che era in macchina aveva tirato il fucile ed aveva fatto partire il colpo
contro la sua volontà. Colpa sua se la ragazza era rimasta uccisa. Rimase
fermamente in questa versione del fatto e negò tutto riguardo agli altri tre episodi.
Lo “Sguincio” non sfuggì alla condanna. La
vicenda aveva destato grande impressione e del resto, di fronte a quella canna
di fucile infilata nel finestrino e puntata su una coppia in amore, sarebbe
stato assurdo dubitare della sua volontà sanguinaria. La pena si fermò a 17
anni di carcere, ma la Corte d’assise di appello la elevò ad anni 23, includendo
l’episodio di Franco e Nunzia. Un ruolo determinante l’aveva giocato il giaccone
militare dai bottoni dorati.
GENNARO IANNARONE

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