venerdì 13 maggio 2016

SCIROPPO AMARO - Racconto



Ci vollero oltre due ore di cammino a piedi per raggiungere il casolare, dopo aver lasciato l’auto in una strada periferica di Aiello del Sabato ed imboccato un viottolo tutto in salita, pietroso, impervio, che non avrebbe consentito neppure il passaggio di una moto. In una mattinata di primavera non fredda ma un po’ ventosa, insieme al medico legale che mi impose un passo cadenzato da cacciatore allenato ed instancabile, giungemmo finalmente in collina, dove trovammo ad attenderci il maresciallo con due carabinieri. Entrati in una vecchia casa di campagna, in una camera matrimoniale maleodorante e poco illuminata scorgemmo sul letto due corpi esanimi, di un uomo anziano e di un bambino, abbracciati fortemente, quasi avvinghiati l’uno all’altro, come in un gesto di profondo affetto. Una piccola schiuma bianca all’angolo delle labbra risaltava sui visi scuri e violacei, contratti in una smorfia di dolore.
Da un’altra stanza della piccola abitazione giungeva fino a noi il pianto di una bambina. Per sentire il suo racconto ci portammo in cucina, dove lei stava tutta rannicchiata su una sediolina, spaventata ancor di più dalla nostra presenza: il fratellino più piccolo aveva la tosse da qualche giorno. La sera prima il nonno, per dargli lo sciroppo calmante prima di dormire, aveva preso una bottiglietta dalla credenza e, riempito un cucchiaino, glielo aveva avvicinato più volte alla bocca. Il bambino non voleva prenderlo, piagnucolava e storceva il naso come se avvertisse un cattivo odore, ma il nonno, per mostrargli che era buono, ne aveva ingoiato uno prima lui e così aveva convinto il nipote. Qualche minuto dopo aveva visto che entrambi si contorcevano con le mani sull’addome ed urlavano dal dolore. Impressionata, era corsa fuori a chiedere aiuto e non era più rientrata in casa. Con un cenno della testa indicò la credenza dove il nonno aveva preso lo sciroppo. Lì dentro c’erano, l’una accanto all’altra, due bottigliette di forma simile, entrambe dal vetro color marrone scuro che impediva di vedere il colore del liquido, tutte e due quasi piene. Sull’etichetta di una delle due il classico teschio nero: un potente anticrittogamico.
Apparendo evidente il tragico errore, ritenemmo opportuno evitare l’autopsia, anche perché non si pensò minimamente di accertare altre responsabilità. L’idea che ci dominava tutti era quella di un crudele gioco del destino, per cui decidemmo di non ascoltare i genitori del bambino morto. Sulla strada del ritorno pensavamo a quelli che dovevano essere stati gli ultimi momenti di straziante dolore del nonno, rivelati dal convulso abbraccio finale, e ci chiedevamo se avesse capito, prima di morire, il perché di quanto stava accadendo. Il poveretto aveva pagato con la vita una colpa in cui era incorso perché mosso dall’affetto e dalla premura di curare il nipotino. Lui risultò comunque l’unico colpevole e perciò ritenni di non poter fare altro che archiviare il caso.
Eppure, a ripensarci, qualche altra imprudenza o negligenza poteva esserci stata, ma un’ipotesi di colpa era configurabile solo a partire dal momento della collocazione nella credenza delle due bottigliette somigliantissime, l’una accanto all’altra, data l’alta probabilità che venissero scambiate. Oggigiorno, forse non ci si sarebbe arresi subito di fronte all’ipotesi dell’unica responsabilità del nonno. Un Pubblico Ministero dei tempi attuali si sarebbe di certo impegnato per non lasciare impunita la morte di quel bambino, sia pure nella prospettiva di un qualche risarcimento per la povera famiglia ed anche per soddisfare un’ansia di giustizia che la cronaca, specie quella televisiva, avrebbe indubbiamente amplificato…Allora, circa quarant’anni fa, non esisteva ancora una televisione locale e tutto si chiuse nel silenzio e nel segno della ineluttabilità del destino. Quella era la sensibilità dell’epoca, che, unitamente ad altri punti sommi di riferimento, era più incline ad attribuire alcuni accadimenti alla fatalità. La ricerca, talvolta accanita, di una responsabilità umana, il giustizialismo ad ogni costo sarebbe venuto dopo e non si può perdere l’occasione, questa come un’altra, per darsi una spiegazione, semmai anche filosofica, del perché di questa mutata sensibilità di fronte agli eventi che affliggono l’esistenza umana. In verità, noi indagatori di quel tempo avevamo una mentalità ancora “classica” circa il problema dell’esistenza del male nel mondo, una concezione della realtà dominata dal caso, o, per dirla con una parola più importante, dal Fato, un’indecifrabile forza soprannaturale che eravamo più disponibili ad accettare con rassegnazione. Sulla nostra società aleggiava per i credenti lo Spirito Santo, in virtù del quale la morte di un bambino era da inquadrarsi negli imperscrutabili disegni di Dio (“Tnèskei neòs o’ karìs Teoìs”: “Muore giovane chi al cielo è caro”), mentre per i non credenti non restava altro che la disperazione e finanche la bestemmia, con la quale comunque si finiva per imprecare contro un qualcosa di trascendente. Ma talvolta la Trascendenza diventava, nella stessa mentalità, la Provvidenza, quando, per effetto di avvenimenti anch’essi misteriosi, le vicende umane prendevano un corso buono e si avviavano a giusta soluzione. Ed allora si diceva che era stata la mano di Dio, al quale si elevavano più spesso preghiere di ringraziamento.
Nei tempi attuali ci si è appiattiti invece su una visione cupa e materialistica della realtà, è quasi scomparso il senso del soprannaturale e, con esso, l’accettazione supina dei disastri e delle disgrazie che colpiscono l’uomo. Ogni accadimento deve trovare una spiegazione su questa Terra, ed a sorreggere questa concezione è entrata in campo la Scienza a farla quasi da padrona.
Perciò quella vicenda probabilmente avrebbe avuto oggi un esito diverso, o, quanto meno, tempi di riflessione e di soluzione più lunghi. Una prima attenzione sarebbe stata certamente rivolta dal pubblico ministero alla ditta che aveva confezionato la bottiglietta contenente il veleno. Si pensi a quante norme sulla tutela del consumatore sono state introdotte negli ultimi anni dalla nostra legislazione, in gran parte ad imitazione della più avanzata civiltà statunitense. Ognuno ha avuto occasione di osservare la particolare confezione di detersivi e di altri liquidi nocivi, cosicché certamente vien da pensare che lo sfortunato nonno non avrebbe mai commesso quel fatale errore se il contenitore del potente veleno fosse stato confezionato nei modi attualmente prescritti. E forse un pubblico ministero, con l’attuale mentalità più penetrante nelle indagini, non avrebbe fatto a meno di accertare dov’erano stati acquistati, rispettivamente, i due prodotti. Esclusa la possibilità giuridica di incolpare il farmacista, per il quale era assolutamente imprevedibile quella rischiosa collocazione nella credenza, una via da non tralasciare, per estendere le responsabilità, poteva essere quella di accertare se il venditore dell’anticrittogamico disponesse di prodotti velenosi contenuti in confezioni più moderne, con una maggiore evidenza esteriore dell’alta tossicità, ed avesse scelto invece, per fini speculativi, di vendere a quella sfortunata famiglia una confezione di più antica fattura, tanto per liberarsi di un prodotto merceologicamente superato: quella confezione, appunto, che collocata nella credenza sarebbe poi finita nelle mani di un vecchio che forse era analfabeta, o non leggeva bene da vicino, o era semplicemente disattento, ed usata per uno scopo ben diverso, quello di curare il suo nipotino.
Ad ogni modo, quando accade una calamità, o la morte accidentale di una persona, e persino quando viene commesso un delitto, il Destino, il Fato dei Greci, continua ad esercitare un ruolo non trascurabile e talvolta determinante, persino sulla scoperta delle prove e sull’andamento di un processo. E’ dunque sempre attuale il detto latino “Habent sua sidera lites”: anche i processi hanno le loro stelle.

                                                                                       GENNARO IANNARONE



lunedì 9 maggio 2016

UN GUARDONE DA INCUBO - Racconto






Gerardo e Rita, entrambi trentenni, in una sera prima del Natale del 1972 erano fermi da una decina di minuti a bordo di una Citroen parcheggiata in aperta campagna su un piccolo spiazzo poco distante dalla strada nazionale, quando improvvisamente due colpi di fucile, sparati da breve distanza, mandarono in frantumi i vetri dei due sportelli di sinistra e di quello posteriore destro della vettura. Lievemente ferito in petto e ai glutei e colto dal panico, Gerardo si allontanò subito dalla zona. Pur guardando intorno non vide nessuno, anche perché la campagna circostante era quasi interamente al buio.
In una delle sere successive al Natale del 1973, Enrico e Carmela, due fidanzati poco più che ventenni, sostavano da circa cinque minuti a bordo di una “Mini Minor” in altro punto della stessa zona e si stavano scambiando baci ed effusioni amorose, con gridolini e piccoli lamenti di dolcissimo godimento, quando il giovane Enrico sentì un rumore sospetto allo sportello destro, dal lato dove sul sedile reclinato era distesa la sua ragazza. Girato di scatto lo sguardo a sinistra verso il finestrino, vide la sagoma di un uomo con un cappello in testa, alto circa 1,65, con “qualcosa” in mano, che tentava insistentemente di aprire lo sportello, ma il congegno di sicurezza aveva resistito. Enrico riuscì a sfuggire all’aggressore con una retromarcia, ma costui, profittando della lentezza della manovra, aggirò la vettura fino a porsi quasi davanti e gli sparò contro un colpo di fucile, ferendolo al braccio sinistro e al torace, ed altro colpo esplose mentre la vettura, uscendo dalla zona campestre e buia, stava imboccando la strada nazionale. Tranne la statura, non notò altre caratteristiche dell’individuo, ma a differenza di Gerardo e Rita che non avevano visto neppure l’ombra di una persona, per questi altri due malcapitati ci fu invece la presenza molto inquietante di qualcuno che aveva preso forma. Sequenze allucinanti, di terrore, quelle vissute da Carmela, che aveva cominciato a tremare tutta fin dal momento in cui quella sagoma col cappello in testa era comparsa accanto al finestrino ed aveva impugnato la maniglia della portiera per aprirla. E quel tremito le durò pur dopo aver guadagnato la via di fuga sulla  nazionale,  anche perché il secondo colpo di fucile le fece capire ancor meglio che l’individuo, in preda ad una forte eccitazione, intendeva fermare la macchina per godere del suo prezioso carico femminile.
Franco e Nunzia si fermarono ad amoreggiare in una serata dei primi di settembre del 1974 in un’Alfa Romeo GT 1300. Il primo strano rumore giunto all’orecchio di Franco fu un fruscio da una vicina siepe, simile a quello sentito due sere prima nello stesso posto. Credendo che si trattasse di qualche animale che passava per i campi, uscì dalla vettura per capire cosa fosse, ma si trovò invece davanti, a qualche metro di distanza, un uomo seminascosto da una siepe, che sebbene invitato a venir fuori, non aderì. Rimessosi in macchina per allontanarsi dalla zona, non aveva percorso neppure una decina di metri che sentì uno sparo, simile a quello prodotto da un’arma da fuoco. Disceso dall’auto, si diresse di corsa nel luogo dove aveva poco prima visto lo sconosciuto, ma questi si era già dileguato nella campagna circostante. Tornato presso l’auto ed allontanatosi definitivamente, si fermò ad osservare la vettura alla luce di un lampione stradale ed ebbe infatti la conferma che la stessa era stata attinta da uno sparo poiché notò un’ammaccatura sul lunotto e striature della vernice sul tetto.
Circa un anno dopo, dopo la mezzanotte di un sabato del luglio 1975, il giovane commissario Magri si trovava nel suo paese di origine per trascorrervi un fine settimana, quando fu informato telefonicamente che in quella stessa zona, vicino al cancello di una villa, giaceva il corpo esanime di una ragazza in una pozza di sangue. Raggiunto il posto, vi trovò alcuni agenti di Polizia collocatisi a cerchio intorno al corpo quasi completamente nudo di una ragazza, poco distante dalla portiera destra, aperta, di una Fiat 500 bianca, che aveva il sedile lato passeggeri, il cruscotto e lo sterzo vistosamente schizzati di sangue. Il dott. Magri dispose di far rotolare il corpo della giovane donna sul lenzuolo bianco da cui era parzialmente ricoperta e di versarle addosso dei secchi d’acqua per ripulirla del terriccio misto a sangue che non consentiva una buona ispezione del cadavere. Ebbe modo così di vedere un foro al di sotto dell’ascella sinistra, da cui usciva ancora un debole gemizio.
Marino, il compagno della giovanissima defunta, fu sentito dal commissario Magri nella casa del padre, dove fu rintracciato. Superato il timore di essere incolpato dell’accaduto, cominciò a raccontare che dopo un primo amplesso sul sedile posteriore, lui disteso e Lucia sopra, si stava congiungendo di nuovo con la ragazza sul sedile passeggeri, quando aveva avvertito una presenza all’esterno. Un leggero scalpiccio o il respiro di qualcuno che stava ad un palmo dal finestrino avevano richiamato la sua attenzione. Staccatosi dal corpo di Lucia, si era seduto al posto di guida e volgendo lo sguardo verso la parte alta del vetro un po’ abbassato, aveva visto che penetrava  all’interno “qualcosa” che sembrava un bastone. Istintivamente lo aveva afferrato con la mano destra per allontanarlo da sé, ma da quel “bastone” era partito un colpo che aveva investito in pieno la ragazza. Allontanatosi immediatamente per prestarle soccorso, dopo circa duecento metri si era accorto che lei purtroppo era morta, ed allora, preso dal panico, aveva scaricato il corpo a terra nei pressi del cancello di una villa ed era corso a casa del padre per farsi consigliare. Non aveva potuto vedere lo sparatore perché dileguatosi.
Consolidatosi nel commissario Magri il sospetto che l’uccisore della ragazza fosse la stessa persona che nei tre episodi precedenti aveva sparato sulle coppiette, volle riascoltare le vittime dei precedenti episodi, ed in particolare la coppia Franco e Nunzia il cui racconto per più di un motivo non appariva convincente. Franco non creò perdite di tempo alla Polizia. In verità la sua psicologia era cambiata dopo aver appreso che la sua fidanzata era sorellastra della ragazza rimasta uccisa, per cui ora non poteva tacere su quel che poteva essere utile a identificare l’assassino della povera Lucia. In fondo si sentiva anche un po’ responsabile del tragico evento per non aver riferito tutto nella sua denuncia di un anno prima. Si allargò perciò a dire che si era trovato faccia a faccia con l’uomo, che era alto circa 1,65, a capo scoperto, con barba incolta e dall’aspetto trasandato, come di uno che non veniva da molto lontano e fosse quindi un campagnolo. Indossava un pantalone di tipo militare e un giaccone dello stesso tipo con i bottoni dorati. Si spinse infine a dichiarare che quell’individuo forse si identificava in tal Giosuele, soprannominato “Sguincio”, noto nella sua zona per essere affetto da una particolare forma di sadismo, quella di sparare ai cani per divertirsi. Precisò tuttavia di non essere sicuro del riconoscimento avendo visto l’uomo al buio.
Durante le perquisizioni che seguirono furono rinvenuti in casa dei genitori dello “Sguincio” i pantaloni militari e il giaccone con i bottoni dorati. Nella casa di lui, dietro direttive di un maggior approfondimento, gli agenti di polizia ritrovarono molti giornaletti pornografici e, sotterrato nell’adiacente giardino, un fucile ad una canna. Seguì il suo arresto circa due giorni dopo.
Nell’interrogatorio del giudice della Procura, poiché il Giosuele proclamò subito la sua innocenza, si cominciò con il chiedergli vagamente e con aria di scherzosa cordialità, quasi confidenziale, quali posizioni amorose preferiva, dando per scontato che gli piacevano le donne per via della presenza in casa sua di quei giornaletti pornografici. Egli rispose tranquillamente, anzi con malcelato piacere, a tale domanda, tanto che, quando indugiava nella descrizione di particolari atti sessuali, il suo sguardo si caricava di evidente morbosità. Confidò che la posizione da lui preferita era quella della donna che “faticava” sopra l’uomo. Chiestogli se quel sabato notte si era accostato alla Fiat 500 bianca per godersi dal vivo una simile scena di sesso, negò tenacemente ed a lungo, ma la sua resistenza crollò quando seppe dell’autopsia: nel cuore della ragazza era stata rinvenuta la maggior parte dei pallini esplosi proprio dal suo fucile, come aveva accertato il perito balistico. Ammise quindi che gli era piaciuto guardare la giovanissima donna fare così l’amore in macchina sul sedile posteriore e che aveva infilato la canna del fucile nello spazio libero del finestrino, restando in attesa che i due raggiungessero l’orgasmo. Solo allora avrebbe sparato un colpo, non per ferire ma soltanto con l’intento di interrompere quegli attimi di piacere, perché nell’infliggere sofferenza e spavento si sarebbe eccitato al massimo, come usava fare con i cani, confermando così anche quest’altra sua strana mania. Senonché, il giovane che era in macchina aveva tirato il fucile ed aveva fatto partire il colpo contro la sua volontà. Colpa sua se la ragazza era rimasta uccisa. Rimase fermamente in questa versione del fatto e negò tutto riguardo agli altri tre episodi.
Lo “Sguincio” non sfuggì alla condanna. La vicenda aveva destato grande impressione e del resto, di fronte a quella canna di fucile infilata nel finestrino e puntata su una coppia in amore, sarebbe stato assurdo dubitare della sua volontà sanguinaria. La pena si fermò a 17 anni di carcere, ma la Corte d’assise di appello la elevò ad anni 23, includendo l’episodio di Franco e Nunzia. Un ruolo determinante l’aveva giocato il giaccone militare dai bottoni dorati.

                                                                              GENNARO IANNARONE