Ci
vollero oltre due ore di cammino a piedi per raggiungere il casolare, dopo aver
lasciato l’auto in una strada periferica di Aiello del Sabato ed imboccato un
viottolo tutto in salita, pietroso, impervio, che non avrebbe consentito
neppure il passaggio di una moto. In una mattinata di primavera non fredda ma
un po’ ventosa, insieme al medico legale che mi impose un passo cadenzato da
cacciatore allenato ed instancabile, giungemmo finalmente in collina, dove
trovammo ad attenderci il maresciallo con due carabinieri. Entrati in una
vecchia casa di campagna, in una camera matrimoniale maleodorante e poco
illuminata scorgemmo sul letto due corpi esanimi, di un uomo anziano e di un
bambino, abbracciati fortemente, quasi avvinghiati l’uno all’altro, come in un
gesto di profondo affetto. Una piccola schiuma bianca all’angolo delle labbra
risaltava sui visi scuri e violacei, contratti in una smorfia di dolore.
Da
un’altra stanza della piccola abitazione giungeva fino a noi il pianto di una
bambina. Per sentire il suo racconto ci portammo in cucina, dove lei stava
tutta rannicchiata su una sediolina, spaventata ancor di più dalla nostra
presenza: il fratellino più piccolo aveva la tosse da qualche giorno. La sera
prima il nonno, per dargli lo sciroppo calmante prima di dormire, aveva preso
una bottiglietta dalla credenza e, riempito un cucchiaino, glielo aveva
avvicinato più volte alla bocca. Il bambino non voleva prenderlo, piagnucolava
e storceva il naso come se avvertisse un cattivo odore, ma il nonno, per
mostrargli che era buono, ne aveva ingoiato uno prima lui e così aveva convinto
il nipote. Qualche minuto dopo aveva visto che entrambi si contorcevano con le
mani sull’addome ed urlavano dal dolore. Impressionata, era corsa fuori a
chiedere aiuto e non era più rientrata in casa. Con un cenno della testa indicò
la credenza dove il nonno aveva preso lo sciroppo. Lì dentro c’erano, l’una
accanto all’altra, due bottigliette di forma simile, entrambe dal vetro color
marrone scuro che impediva di vedere il colore del liquido, tutte e due quasi
piene. Sull’etichetta di una delle due il classico teschio nero: un potente
anticrittogamico.
Apparendo
evidente il tragico errore, ritenemmo opportuno evitare l’autopsia, anche
perché non si pensò minimamente di accertare altre responsabilità. L’idea che
ci dominava tutti era quella di un crudele gioco del destino, per cui decidemmo
di non ascoltare i genitori del bambino morto. Sulla strada del ritorno pensavamo
a quelli che dovevano essere stati gli ultimi momenti di straziante dolore del
nonno, rivelati dal convulso abbraccio finale, e ci chiedevamo se avesse capito,
prima di morire, il perché di quanto stava accadendo. Il poveretto aveva pagato
con la vita una colpa in cui era incorso perché mosso dall’affetto e dalla
premura di curare il nipotino. Lui risultò comunque l’unico colpevole e perciò
ritenni di non poter fare altro che archiviare il caso.
Eppure,
a ripensarci, qualche altra imprudenza o negligenza poteva esserci stata, ma
un’ipotesi di colpa era configurabile solo a partire dal momento della
collocazione nella credenza delle due bottigliette somigliantissime, l’una
accanto all’altra, data l’alta probabilità che venissero scambiate. Oggigiorno,
forse non ci si sarebbe arresi subito di fronte all’ipotesi dell’unica
responsabilità del nonno. Un Pubblico Ministero dei tempi attuali si sarebbe di
certo impegnato per non lasciare impunita la morte di quel bambino, sia pure
nella prospettiva di un qualche risarcimento per la povera famiglia ed anche
per soddisfare un’ansia di giustizia che la cronaca, specie quella televisiva,
avrebbe indubbiamente amplificato…Allora, circa quarant’anni fa, non esisteva
ancora una televisione locale e tutto si chiuse nel silenzio e nel segno della
ineluttabilità del destino. Quella era la sensibilità dell’epoca, che,
unitamente ad altri punti sommi di riferimento, era più incline ad attribuire
alcuni accadimenti alla fatalità. La ricerca, talvolta accanita, di una
responsabilità umana, il giustizialismo ad ogni costo sarebbe venuto dopo e non
si può perdere l’occasione, questa come un’altra, per darsi una spiegazione,
semmai anche filosofica, del perché di questa mutata sensibilità di fronte agli
eventi che affliggono l’esistenza umana. In verità, noi indagatori di quel
tempo avevamo una mentalità ancora “classica” circa il problema dell’esistenza
del male nel mondo, una concezione della realtà dominata dal caso, o, per dirla
con una parola più importante, dal Fato, un’indecifrabile forza soprannaturale
che eravamo più disponibili ad accettare con rassegnazione. Sulla nostra
società aleggiava per i credenti lo Spirito Santo, in virtù del quale la morte
di un bambino era da inquadrarsi negli imperscrutabili disegni di Dio (“Tnèskei neòs o’ karìs Teoìs”: “Muore
giovane chi al cielo è caro”), mentre per i non credenti non restava altro che
la disperazione e finanche la bestemmia, con la quale comunque si finiva per
imprecare contro un qualcosa di trascendente. Ma talvolta la Trascendenza
diventava, nella stessa mentalità, la Provvidenza, quando, per effetto di
avvenimenti anch’essi misteriosi, le vicende umane prendevano un corso buono e
si avviavano a giusta soluzione. Ed allora si diceva che era stata la mano di
Dio, al quale si elevavano più spesso preghiere di ringraziamento.
Nei
tempi attuali ci si è appiattiti invece su una visione cupa e materialistica
della realtà, è quasi scomparso il senso del soprannaturale e, con esso,
l’accettazione supina dei disastri e delle disgrazie che colpiscono l’uomo.
Ogni accadimento deve trovare una spiegazione su questa Terra, ed a sorreggere
questa concezione è entrata in campo la Scienza a farla quasi da padrona.
Perciò
quella vicenda probabilmente avrebbe avuto oggi un esito diverso, o, quanto
meno, tempi di riflessione e di soluzione più lunghi. Una prima attenzione
sarebbe stata certamente rivolta dal pubblico ministero alla ditta che aveva
confezionato la bottiglietta contenente il veleno. Si pensi a quante norme
sulla tutela del consumatore sono state introdotte negli ultimi anni dalla
nostra legislazione, in gran parte ad imitazione della più avanzata civiltà
statunitense. Ognuno ha avuto occasione di osservare la particolare confezione
di detersivi e di altri liquidi nocivi, cosicché certamente vien da pensare che
lo sfortunato nonno non avrebbe mai commesso quel fatale errore se il
contenitore del potente veleno fosse stato confezionato nei modi attualmente
prescritti. E forse un pubblico ministero, con l’attuale mentalità più
penetrante nelle indagini, non avrebbe fatto a meno di accertare dov’erano
stati acquistati, rispettivamente, i due prodotti. Esclusa la possibilità
giuridica di incolpare il farmacista, per il quale era assolutamente
imprevedibile quella rischiosa collocazione nella credenza, una via da non
tralasciare, per estendere le responsabilità, poteva essere quella di accertare
se il venditore dell’anticrittogamico disponesse di prodotti velenosi contenuti
in confezioni più moderne, con una maggiore evidenza esteriore dell’alta
tossicità, ed avesse scelto invece, per fini speculativi, di vendere a quella
sfortunata famiglia una confezione di più antica fattura, tanto per liberarsi
di un prodotto merceologicamente superato: quella confezione, appunto, che
collocata nella credenza sarebbe poi finita nelle mani di un vecchio che forse
era analfabeta, o non leggeva bene da vicino, o era semplicemente disattento,
ed usata per uno scopo ben diverso, quello di curare il suo nipotino.
Ad
ogni modo, quando accade una calamità, o la morte accidentale di una persona, e
persino quando viene commesso un delitto, il Destino, il Fato dei Greci,
continua ad esercitare un ruolo non trascurabile e talvolta determinante,
persino sulla scoperta delle prove e
sull’andamento di un processo. E’ dunque sempre attuale il detto latino “Habent sua sidera lites”: anche i
processi hanno le loro stelle.
GENNARO IANNARONE
